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“Condivisibili osservazioni della parte civile sugli ‘ambiti indicibili’”

La lettera anonima inviata da inquirenti e investigatori e le conseguenti conversazioni intercettate sono "l'elemento di prova decisivo" a carico di Rocco Schirripa, il panettiere di origine calabrese condannato all'ergastolo per l'omicidio del Procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, ucciso con quattro colpi di pistola la sera del 26 giugno 1983, mentre portava a spasso il cane sotto casa.
E’ quanto mettono nero su bianco i giudici della Corte d'Assise di Milano, presieduti da Ilio Mannucci Pacini, nelle 175 pagine delle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 17 luglio hanno inflitto in primo grado il carcere a vita a Schirripa mettendo, almeno per il primo grado, un nuovo punto fermo 34 anni dopo quell'assassinio.
Secondo i giudici, infatti, fu proprio quella missiva inviata dalla Mobile all’imputato ed altri, nel settembre 2015, a “dare impulso alle indagini" della Questura di Torino e in accordo con il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il pm Marcello Tatangelo, spingendo a parlare del delitto, il panettiere, il boss Domenico Belfiore e suo cognato Placido Barresi.
Proprio grazie alle intercettazioni è emerso che l’autore materiale sarebbe stato Schirripa, mentre Placido Barresi e Giuseppe Belfiore i mandanti. “Il significato dei dialoghi tra Domenico Belfiore, Placido Barresi e Rocco Schirripa - scrivono i giudici - è emerso in modo chiaro e inconfutabile, attesa la qualità della registrazione, la chiarezza delle affermazioni rese dagli interlocutori, la serietà degli stessi nell'affrontare l'argomento, la ripetuta e coerente manifestazione di preoccupazione per la lettera anonima e, in particolare, per quel 'nome in più' (il nome dell'imputato) che era stato indicato nella lettera".
Inoltre “in nessun modo in queste conversazioni è stata contestata la falsità dell'indicazione del nome di Schirripa come esecutore dell'omicidio (a differenza di quello di Giuseppe e Sasà Belfiore), atteso che Belfiore e Barresi avevano immediatamente ritenuto che la stessa aveva potuto avere come origine le 'confidenze' e l'imprudenza dell'odierno imputato".
Quanto al trattamento sanzionatorio, "la gravità del delitto (l'omicidio è stato premeditato e compiuto ai danni di un magistrato, a causa dell'esercizio delle sue funzioni), i precedenti penali a carico dell'imputato e la condotta processuale di Rocco Schirripa, escludono che possano riconoscersi le attenuanti generiche".

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Una fotografia tratta dall’album di famiglia dell’ex procuratore di Torino Bruno Caccia (da lastampa.it)


Il non detto “indicibile”
Nelle motivazioni della sentenza poche righe vengono dedicate alle osservazioni della difesa di parte civile della famiglia Caccia rappresentata in aula dall’avvocato Fabio Repici. I giudici evidenziano che la stessa “non ha contestato che le conversazioni indicano con sicurezza Schirripa come uno degli esecutori dell’omicidio in esame”, ma ha anche osservato “come sia l’audizione di Domenico Belfiore, sia i suoi colloqui con Barresi avessero rivelato, ancora una volta, un ambito di ‘indicibile’”. Il legale sottolineava anche che “da un lato Belfiore nel corso della sua audizione alla domanda se, in carcere, il cognato Barresi, avesse parlato dell’omicidio Caccia, rispondeva ‘no, no perché non… per noi era tabù’ e che dall’altro lato le preoccupazioni da loro espresse nei colloqui intercettati non potevano certamente riferirsi a Rocco Schirripa, che anzi avevano volutamente ‘sacrificato’, per nascondere i responsabili di più alto livello”. Lo stesso Repici aveva chiesto di trasmettere il verbale dell’esame del teste Barresi alla Procura “affinché si proceda per falsa testimonianza con segnalazione al Tribunale di Sorveglianza di Torino” ed anche trasmettere “gli atti alla Procura della Repubblica perché proceda nei confronti di altri”. La Corte, che pure nel dispositivo ha rinviato gli atti alla Procura, nelle motivazioni non spiega i motivi della decisione ma conferma che “le osservazioni della difesa sull’ambito del non detto, sul vero motivo delle preoccupazioni di Belfiore e Barresi, appaiono condivisibili. Infatti risulta logico ritenere che le preoccupazioni degli stessi avessero riguardato non solo Schirripa, ma anche gli altri soggetti che erano stati coinvolti nell’omicidio”. Secondo i giudici, per, “questo nulla toglie al fatto che le loro preoccupazioni sul fatto che Schirripa avesse ‘parlato’ fossero autentiche, anche se non dirette solo a lui”.
I giudici, pur registrando le critiche che il legale della famiglia Caccia aveva rivolto verso l’operato della magistratura non entrano nel merito delle stesse.

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Al centro, l'ex militante di Prima Linea Francesco D'Onofrio


Piste aperte
Per l’omicidio del Procuratore di Torino tuttora indagato Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea ed ora ritenuto vicino alla 'ndrangheta. Si è sempre professato estraneo, ma lo ha tirato in ballo il baby-pentito Domenico Agresta, il quale ha dichiarato di aver appreso dal padre e dal boss Aldo Cosimo Crea che “a farsi il procuratore” erano stati Schirripa e D’Onofrio. Secondo la Corte “il suo racconto è apparso in ogni passaggio logico e convincente. È una prova indiziaria, ma che si inserisce in maniera del tutto coerente con il già solido compendio probatorio. E se è perfettamente coerente coi risultati delle indagini l’indicazione fatta da Agresta su Schirripa come uno degli esecutori, non appare inverosimile l’affermazione che D’Onofrio avesse fatto parte dell’azione di fuoco. Anzi: è plausibile che Agresta e Crea avessero ricevuto queste informazioni da fonte sicura”.

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