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puglisi pino 610di Davide de Bari
Il ricordo nelle sue parole: “Chi usa la violenza non è un uomo, chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi dell’umanità”

Il 15 settembre 1993 non era un giorno come tanti per don Pino Puglisi. Era il giorno del suo 56° compleanno ma, come sempre, non aveva rinunciato al suo impegno quotidiano. Ancora una volta si era recato in comune a richiedere l’utilizzo di uno stabile in via Hazon 18, nel quartiere di Brancaccio, da sempre zona di mafia. Nonostante le continue opposizioni da parte dei funzionari comunali 3P, come i ragazzi della sua parrocchia amavano chiamarlo, non si perdeva mai d’animo. Doveva essere così anche quella sera quando, mentre rientrava a casa in piazza Anita Garibaldi veniva avvicinato da due losche figure, Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza. Loro i killer che hanno ucciso don Pino. Lo videro arrivare a bordo della sua utilitaria, poi Grigoli prese l’arma. Toccava a lui sparare ma doveva sembrare una rapina. “Padre questa è una rapina” disse Spatuzza. Don Pino si voltò e con il sorriso sulle labbra rispose: “Me l’aspettavo”. Pochi attimi. Grigoli puntò la pistola alla nuca del parroco e sparò. Il corpo senza vita del parroco di Brancaccio cadde a terra ma quel sorriso non si spense.

Un raggio di sole nell’oscurità
Don Pino Puglisi era nato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, da famiglia semplice. Terminati gli studi teologici nel seminario palermitano fu nominato parroco di diverse parrocchie nel palermitano. Nel 1991, don Puglisi divenne parroco della chiesa di don Gaetano a Brancaccio, nel suo luogo di nascita.
Brancaccio era un quartiere difficile e privo di strutture urbanistiche, come scuole e parchi. Un luogo dove la mafia, con i suoi principi di violenza e morte, era padrona. Lì dove il destino di molti bambini e ragazzi era spesso scritto dalla nascita. Questo lo scenario, prima che don Puglisi fosse ordinato parroco a Brancaccio. Al suo arrivo don Pino si rimboccò subito le mani, predicando, passeggiando per le strade di Brancaccio con volantini e invitando i passanti, soprattutto i più piccoli, a frequentare la parrocchia.
Era quello il principio di un cambiamento così come ha raccontato in passato suor Carolina Ivazzo, collaboratrice di 3P: “L’obbiettivo di padre Puglisi era liberare l’uomo libero vero. Non portava i bambini in chiesa a pregare, perché non era bigotto e perché nessuno l’avrebbe seguito su questa strada. Puntava invece a far capire che esiste una cultura diversa, una cultura della legalità e dell’onestà”. Al tempo Brancaccio richiedeva, oltre all’educazione dei più piccoli, altri aiuti. Agli abitanti del quartiere non era garantita, dallo Stato, la dignità necessaria per vivere e le Istituzioni cittadine erano incapaci di elargire servizi in quel quartiere così condizionato dalla presenza mafiosa. Da qui nacque l’idea, di don Puglisi, di aprire il centro “Padre Nostro”. Un sogno divenuto realtà il 29 gennaio 1993. Ciò fu possibile grazie alle numerose offerte dei cittadini dei diversi quartieri di Palermo ed anche all’indebitamento di don Puglisi, che ottenne un prestito dalle banche impegnando a garanzia il suo stipendio da parroco.
Del resto aveva sempre agito così, utilizzando le proprie risorse per far fronte alle spese. E quando Cosa nostra bussava alla sua porta, offrendo denaro ed aiuti, il parroco della chiesa di don Gaetano la chiudeva con fermezza.

Le intimidazioni e l’attacco a Cosa Nostra
Questi interventi non passarono inosservati. I mafiosi non potevano accettare la sfida all’autorità che imponevano. Così hanno avuto inizio le prime intimidazioni a padre Puglisi e ai suoi collaboratori: chiamate e lettere anonime, minacce, scritte sui muri, pestaggi, incendi. Una lunga serie di segnali di reazione da parte di Cosa nostra.
Il culmine vi fu nel maggio-giugno 1993 quando sia don Pino che il vice parroco, Gregorio Porcaro, furono minacciati personalmente. Intimidazioni che furono regolarmente denunciate alle forze dell’ordine.
Queste azioni non fermarono il prete di Brancaccio. Continuarono le proteste e le raccolte firme per far sgomberare l’edificio in via Hazon e chiedere di costruirci una scuola media. Nonostante la consapevolezza che la mafia avrebbe potuto alzare il tiro don Pino non era capace di fermare la sua determinazione. In una delle sue ultime omelie si rivolse apertamente ai mafiosi invitandoli al dialogo: “Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio”. Seguirono interviste in TV e quell’opera diede molto fastidio a Cosa Nostra e in particolare ai fratelli Graviano, così tanto che decisero che don Puglisi doveva essere ucciso.

Il sorriso del cambiamento
Grazie all’ultimo sorriso di don Puglisi, Salvatore Grigoli ha deciso di collaborare con la giustizia nel ’97 e con la sua testimonianza sono stati condannati all’ergastolo anche i fratelli Graviano, che secondo i fatti furono i mandati del delitto. Anche Gaspare Spatuzza, accecato dal sorriso di don Pino, ha collaborato con la giustizia e ha rivelato fatti importanti sulla strage di via d’Amelio, le bombe del ’93 e i legami di Cosa Nostra con la politica e imprenditoria Italiana.
Padre Puglisi si sentiva realmente un sacerdote, un vero testimone dell’amore di Cristo. Per questo ha donato la sua morte ai ragazzi, ma soprattutto ai suoi nemici, generando la vera linfa della vita: l’amore, come predicava nell’omelia del giorno prima di essere ucciso: “È difficilissimo morire per un amico, ma morire per dei nemici è ancora più difficile. Cristo però è morto per noi quando noi eravamo ancora suoi nemici. Dio ci rimane sempre accanto, è la costanza dell’amore fino all’estremo limite, anzi senza limiti”. Nel 2006 i teologi consultori della congregazione delle cause dei Santi riconoscono nella morte di padre Puglisi ''i requisiti del martirio'', segnando una tappa importante nel processo di beatificazione del sacerdote.

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