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di matteo c emanuele di stefano 2015di Aaron Pettinari
All’interno il discorso integrale del pm, letto ai partecipanti

Per essere presente a Londra, e discutere di mafia e corruzione di fronte agli studenti del King’s College London Italian Society, avrebbe dovuto rinunciare alla scorta. Per questo motivo, Antonino Di Matteo, pubblica accusa al processo trattativa Stato-mafia assieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia ha rinunciato alla lezione che avrebbe dovuto tenere assieme a Anna Sergi, esperta di criminalità organizzata e docente di Criminologia all’Università di Essex e Simon Taylor, direttore e co-fondatore di NGO “Global Witness” di mafia e corruzione.
All’incontro moderato da Barbara Serra, giornalista e presentatore di Al-Jazeera, è stato anche proiettato il docu film A Very Sicilian Justice. “Sono molto dispiaciuto di non poter essere con voi - ha scritto il magistrato nel discorso che è stato letto alla manifestazione - ma le competenti autorità inglesi, come mi è stato comunicato in questi ultimi giorni, hanno negato qualsiasi forma di protezione armata nei miei confronti; per questo ho ritenuto che non ci fossero le condizioni minime per assicurare la mia sicurezza ed ho dovuto, con molta amarezza, rinunciare al viaggio già programmato”.
In Inghilterra c’è un rigoroso protocollo di sicurezza per cui la protezione armata non è offerta alle personalità straniere se non si tratta di Capi di Stato e di governo o di ministri degli Esteri, e se non si tratta di visite ufficiali. Non si terrebbe conto, dunque, del livello di rischio che può riguardare il soggetto. Antonino Di Matteo, da oltre due anni, è il magistrato più scortato d’Italia ed è dotato di un livello di protezione pari a quello del Capo dello Stato, munito anche di bomb jammer, una strumentazione che consente di disattivare gli impulsi elettronici, eventualmente dettati da telecomandi che dovessero essere azionati per innescare esplosivi a distanza.
Misure di sicurezza necessarie dopo la condanna a morte del Capo dei Capi, Totò Riina, ed i molteplici riscontri di un progetto di attentato con 150 chili di esplosivo, svelato dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo.

Il saluto di Di Matteo
Desidero ringraziare sinceramente chi ha pensato ed organizzato questo incontro, per la grande opportunità che mi è stata concessa.
Per me, sarebbe stato un vero onore essere oggi fisicamente presente in una sede universitaria il cui prestigio è universalmente riconosciuto, per parlare e riflettere con voi di criminalità organizzata di stampo mafioso. Sono molto dispiaciuto di non poter essere con voi ma le competenti autorità inglesi, come mi è stato comunicato in questi ultimi giorni, hanno negato qualsiasi forma di protezione armata nei miei confronti; per questo ho ritenuto che non ci fossero le condizioni minime per assicurare la mia sicurezza ed ho dovuto, con molta amarezza, rinunciare al viaggio già programmato.
La mafia è un fenomeno criminale che, da troppo tempo e con sempre maggiore evidenza e diffusione, costituisce un grande pericolo – insidioso, nascosto e troppe volte colpevolmente sottovalutato – che compromette di fatto fondamentali principi di libertà e democrazia.
Per questo al silenzio, alla indifferenza, alla rassegnazione dobbiamo contrapporre la conoscenza approfondita, il dibattito, la diffusione e condivisione delle esperienze.
Sono orgoglioso che un magistrato italiano abbia oggi l’occasione, in un così autorevole consesso del Regno Unito, per stimolare un momento di riflessione sulla necessità di considerare la questione mafiosa un grave problema globale, certamente non più circoscritto ad alcune regioni del meridione d’Italia.
Il mio è il Paese in cui l’organizzazione mafiosa più forte – Cosa Nostra – ha avuto origine, per espandersi nel tempo, come un cancro inarrestabile, in altre parti d’Europa e del Mondo.
L’Italia è il Paese che, più di ogni altro, negli ultimi quarant’anni ha pagato un prezzo altissimo con una scia infinita di stragi ed omicidi eccellenti. Sono stati uccisi Giudici, Pubblici Ministeri, importanti esponenti politici (appartenenti sia a forze di opposizione che di governo) alti funzionari dello Stato e ufficiali delle forze di Polizia, imprenditori, giornalisti, sacerdoti.
Una lunga storia di vittime, spesso uccise dopo che in vita avevano dovuto subire condizioni di isolamento e delegittimazione perfino nel rispettivo ambiente istituzionale o professionale nel quale operavano.
Una tragica serie di delitti in relazione ai quali, come hanno fatto emergere le indagini ed i processi, si sono saldati interessi mafiosi ed interessi e responsabilità, di uomini, di ambienti, di gruppi di potere estranei a Cosa Nostra ma collusi con i mafiosi.
Non dobbiamo mai dimenticare questa triste realtà ma dobbiamo trovare, nella consapevolezza di ciò che ho ricordato, la forza della reazione.
Il mio è il Paese – consentitemi di rivendicarlo con orgoglio – che, prima e meglio di ogni altro, ha saputo reagire. Non solo con il sacrificio personale e l’eccellenza professionale di molti magistrati e investigatori ma, in un contesto più generale, con un sistema, progressivamente consolidatosi, di norme, in materia penale, processuale e penitenziaria, che (pur senza mai compromettere i fondamentali diritti della persona) oggi costituisce una efficace, seppur certamente perfettibile, arma di individuazione e repressione dei crimini di mafia.
Norme come quelle sulla specificità del reato di associazione mafiosa (rispetto ad ogni altra forma di associazione a delinquere per commettere delitti), sul sequestro e la confisca dei patrimoni di sospetta origine mafiosa, sui benefici processuali e la protezione di collaboratori di giustizia, sul procedimento giudiziario autorizzativo di intercettazioni telefoniche ed ambientali, sul regime carcerario differenziato per i capi detenuti dell’organizzazione (finalizzato ad evitare ogni possibilità di contatto diretto o indiretto con gli affiliati in stato di libertà), costituiscono nel loro insieme un sistema che altri Paesi, non solo europei, guardano come punto di riferimento per adeguare la loro legislazione e renderla più idonea a contrastare la globalizzazione delle mafie e dei loro capitali. Sono personalmente convinto che anche in Paesi come il vostro che, per numero ed importanza strategica di centri di interesse economici e finanziari, costituisce fertile polo di attrazione di capitali illeciti, sia oggi necessaria la conoscenza e lo studio delle caratteristiche più autentiche del fenomeno mafioso, anche in funzione, come è avvenuto in Italia, dell’auspicabile creazione, nell’ambito giudiziario ed in quello delle forze di polizia, di uffici specializzati e dediti esclusivamente al contrasto alla criminalità organizzata. Per cercare di capire e penetrare a fondo le dinamiche di organizzazioni che fondano la loro forza sulla segretezza e l’omertà, è fondamentale formare e sostenere esperienze e professionalità istituzionali disposte a dedicarsi a tempo pieno e per un congruo numero di anni alla lotta alla mafia.
La questione mafiosa, la storia ce lo insegna, non è ordinaria questione criminale. È molto di più. È necessario comprendere che, fin dalla sua nascita risalente ad oltre 150 anni orsono, Cosa Nostra – nel suo DNA – ha sempre avuto una caratteristica che la distingue da altre organizzazioni omologhe: la volontà e la grande capacità di creare ed alimentare rapporti collusivi con il potere ufficiale – politico, istituzionale, economico e perfino religioso. Il numero, l’importanza strategica di questi rapporti esterni – anche con personaggi di altissimo livello – sono stati accertati in numerosi processi che la magistratura italiana ha avuto il coraggio di celebrare, dimostrando ancora una volta quanto in democrazia sia fondamentale la separazione dei poteri e la effettiva autonomia ed indipendenza del potere giudiziario rispetto a quello esecutivo.
Molte inchieste della magistratura, alcune molto recenti, continuano a dimostrare quanto i rapporti collusivi, in particolare quelli con la politica e l’imprenditoria, continuino a costituire il vero punto di forza della organizzazione criminale. Più delle migliaia di affiliati (la forza mafiosa, la manovalanza) più della violenza delle armi e del controllo capillare del territorio con il racket delle estorsioni.
Ecco perché è opportuno ricordare che da sempre, a differenza di ogni altra questione criminale, la questione criminale mafiosa ha riguardato le classi dirigenti del Paese, l’establishment e non solo le frange più povere ed emarginate della società.
Ecco perché è necessario, nell’ambito del trattamento sanzionatorio, punire adeguatamente (allo stesso modo e con la stessa forza con la quale si sanziona l’appartenenza e l’affiliazione a Cosa Nostra) condotte di concorso esterno all’organizzazione mafiosa (ad opera di chi non fa parte del clan ma contribuisce, consapevolmente, al raggiungimento dei suoi scopi) o di scambio politico-elettorale-mafioso da parte del candidato alle elezioni che, in funzione del procacciamento di voti, garantisca o semplicemente prometta denaro o favori ed utilità di qualsiasi tipo al gruppo criminale che lo ha sostenuto elettoralmente.
C’è un’altra considerazione dalla quale non si può prescindere. Oggi ed in futuro è fondamentale che si sviluppi una nuova consapevolezza. Mafia e corruzione, reati tipici della criminalità organizzata e delitti legati a fenomeni corruttivi e di abuso di poteri pubblici, costituiscono segmenti diversi di un unico sistema criminale integrato, due facce della stessa medaglia; due parti della medesima storia nella quale per ottenere ed incrementare sempre maggiore potere, gli stessi protagonisti, ciascuno con le proprie capacità criminali, alternano metodi violenti e di intimidazione a metodi corruttivi o di sistematica elusione o evasione fiscale, falsità nei bilanci e reimpiego di denaro sporco in attività solo apparentemente lecite, spesso formalmente intraprese con l’apporto ulteriore di capitali pubblici provenienti da finanziamenti statali o della Unione Europea.
Questa sempre più evidente evoluzione del sistema mafioso e la sua, strisciante ed insidiosa, integrazione con il sistema dei delitti dei colletti bianchi, rendono non più rinviabili modifiche legislative che, in campo penale e processuale, e prima ancora nella fase delle investigazioni, rendano più efficace il sistema di individuazione e di repressione dei fenomeni corruttivi e di riciclaggio con la previsione di pene più significative per i condannati e l’estensione alle inchieste sulla corruzione di regole oggi valide solo per i reati di mafia o traffico di stupefacenti, come il sequestro e la confisca dei patrimoni, gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, l’utilizzo di agenti provocatori per scoprire l’infedeltà di pubblici funzionari.
Voglio concludere con una speranza. Vorrei che, proprio dal mio Paese, si avviasse, partendo dai più giovani, un meraviglioso percorso sociale e culturale, di resistenza e lotta al metodo mafioso. Con la precisa consapevolezza che la lotta alla mafia è obiettivo primario per realizzare i principi più alti della Costituzione Italiana e di ogni democrazia: le libertà personali e di iniziativa economica, la solidarietà, il diritto al lavoro e quello alla salute, la rimozione di tutte quelle situazioni che di fatto impediscono che tutti i cittadini siano effettivamente uguali innanzi alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali.
Il problema della criminalità organizzata non è più esclusivamente italiano. Solo se ci rendiamo conto di ciò ed affronteremo la questione con la forza e l’urgenza necessarie, possiamo vincere una guerra globale per certi versi più insidiosa (perché meno avvertita) di quella contro il terrorismo.
Una guerra che dobbiamo vincere tutti uniti, per tutelare le nostre democrazie e per onorare con i fatti la memoria di quegli uomini che hanno sacrificato la loro vita per gli ideali di giustizia nei quali credevano.

Foto © Emanuele Di Stefano

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