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il filo dei giornidi Miriam Cuccu - Audio
C'è un ispettore della Digos, un ambasciatore italiano che consegna una lista di sedici nomi su cui indagare al capo dell’Arma dei carabinieri, e una giovane giornalista. Sullo sfondo l'Italia dei primi anni '90, quella falciata dalle stragi e insanguinata da una decina di attentati rivendicati da un gruppo terroristico: la Falange Armata. È lo scenario che si apre con “Il filo dei giorni” di Maurizio Torrealta (edizioni Imprimatur) tra le cui pagine si snodano molte delle vicende rimaste in gran parte avvolte nel mistero: l'organizzazione Gladio, gli attentati della Uno Bianca, le stragi del continente, i tentati golpe, fino ad arrivare alla trattativa tra Stato e mafia. Faldoni e faldoni archiviati dai quali lo scrittore ha ricavato un romanzo: “Essendo stato tutto archiviato - ha spiegato Torrealta alla presentazione del libro a Palermo, moderata dal giornalista Salvatore Cusimano - qualsiasi cosa che io avessi raccontato con nome e cognome poteva essere suscettibile di denuncia per diffamazione”, così “riuscire a raccontare la complessa vicenda della Falange Armata in una storia poteva essere una maniera molto più semplice, più leggera ma anche più interessante”, ripercorrendo gli eventi di quegli anni, dalla scoperta di Gladio, “altra cosa rispetto a quella che è stata raccontata, sempre annacquata, sempre raccontata in maniera diversa” ed il suo successivo scioglimento, al ruolo dei Nar e della mafia, “arruolata” e “funzionale al finanziamento della guerra fredda”.
Torrealta, ha affermato il magistrato Gianfranco Donadio, in collegamento skype, ha adottato una “modalità coraggiosa e temeraria, andando a studiare quelle carte abbandonate e fornendoci, attraverso questo studio, una finestra sulla verità. La vicenda Falange Armata è estremamente complicata - ha proseguito - non è un'organizzazione, non ha una struttura, né una sede o uno statuto” ma “è un'operazione molto sofisticata di guerra psicologica, fondata sulla comunicazione” nel momento in cui di questa si fa un “uso destabilizzante”, anziché parlare di terrorismo “affidato alle azioni violente”. “Il romanzo - ha proseguito - ci aiuta a capire non solo ciò che è accaduto negli anni Novanta, ma anche quello che sta accadendo” nel caso del terrorismo “riconducibile all'Isis, ampiamente affidato alla comunicazione”. Nel libro di Torrealta emerge poi, ha aggiunto Donadio, “la giovane giornalista Arianna”, che rappresenta “una scelta di campo molto significativa, quasi un messaggio” poiché “si avventura in un tema complicato con la tenacia, la determinazione e la forza morale che i giovani e i giovani giornalisti devono necessariamente avere”.



C'è però un tassello importante, secondo l'avvocato Fabio Repici, “perché è vero che quei faldoni condussero ad un’archiviazione contro ignoti, ma in realtà ci fu nella storia d'Italia l'arresto di un soggetto accusato di essere uno dei telefonisti della Falange Armata” proprio nei giorni in cui “stavano per scadere trecentotrentaquattro 41bis, che di lì a dieci giorni non vennero prorogati” nominando poi altre vicende rimaste ancora in parte irrisolte, come la morte di Nino Gioè in carcere o le intercettazioni di via Ughetti, il covo in cui si erano nascosti nei mesi successivi all'arresto di Riina i boss Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera (luogo nel quale emerse anche la presenza di uomini del Sisde) e l'omicidio dell'agente Nino Agostino: “Quello che è già venuto fuori, almeno in parte - ha affermato Repici - è la prova che ci sono stati dei delitti commessi in sinergia operativa tra pezzi di mafia e pezzi di apparato. Non è un caso che per l'omicidio Agostino siano indagati un uomo di Cosa nostra, un soggetto per metà mafioso e uomo dei servizi, e un ex poliziotto, per aver cooperato allo stesso delitto”. A proposito di vittime, Repici ha ricordato la morte di Umberto Mormile, “prima vittima delle rivendicazioni della Falange Armata” ma anche “ucciso quotidianamente” da una “ricostruzione processuale” che lo descrisse come “corrotto”. Anche se poi, ha specificato il legale, “la verità sull’omicidio Mormile è arrivata per bocca di uno dei killer” il quale testimoniò come “il delitto era stato voluto nell'interesse del boss Domenico Papalia, in quanto Mormile era stato testimone dell’abbraccio, dentro le carceri, fra lo stesso Papalia e uomini dei servizi segreti con i quali si era incontrato” all’interno dell’istituto penitenziario.
C'è poi il legame a doppio filo tra Falange Armata e Cosa nostra: “La conoscenza di Riina della Falange Armata - ha riflettuto Donadio - rappresenta qualcosa di interessante su cui riflettere: qualcuno aveva indottrinato” il boss corleonese, e questo portò all’“individuazione di un profilo di guerra psicologica nella vicenda dello stragismo mafioso”. “Ma la partita tra Salvatore Riina e la Falange Armata non sembra al momento essersi definitivamente chiusa”, ha assicurato il magistrato, ricordando l’invio di una lettera al "capo dei capi" in carcere, firmata dall'organizzazione, nel febbraio 2014. “E allora forse la Falange armata non è andata in pensione - ha considerato Donadio - o forse non è andata in pensione l'idea di affidare a un certo tipo di comunicazione quei messaggi eloquenti”.

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