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1Il pm è intervenuto al convegno "Vittime di mafia: quale giustizia?"
di Aaron Pettinari

“Per far sì, come diceva Falcone, che la mafia abbia una fine devono ricorrere due condizioni che hanno eguale importanza. In primo luogo la politica deve cambiare e iniziare a considerare prioritaria la lotta alla mafia e dimostrare che esiste una responsabilità politica a prescindere dalla responsabilità penale. Il resto lo devono fare i giovani. Serve una rivoluzione culturale che parta dal basso e che promuova una mentalità del merito, dell'impegno e della solidarietà a scapito di quella del favore, della raccomandazione e dell'appartenenza che è oggi manifesta. Se si realizzano queste due condizioni possiamo sperare di vivere in un paese realmente libero e democratico, e di poter applicare quei principi che già sono scritti nella nostra Costituzione”. E' un'analisi lucida quella del pm Nino Di Matteo, intervenuto ieri pomeriggio alla Facoltà di Giurisprudenza al seminario "Vittime di mafia: quale giustizia?", organizzato dai ragazzi di ContrariaMente - RUM - Rete Universitaria Mediterranea in occasione della "Giornata Nazionale della memoria e per l'impegno delle vittime innocenti della mafia". In un'aula magna gremita in ogni ordine di posto, centinaia di giovani hanno avuto modo di riflettere su cosa è oggi la mafia e, soprattutto, su cosa è possibile fare per cambiare le cose. Oltre al pm titolare dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia erano presenti anche Lorenzo Matassa (magistrato presso il Tribunale di Palermo), Giuseppe Di Chiara (ordinario di Diritto Processuale Penale, Università di Palermo), Giuseppe Lo Bianco (giornalista de Il Fatto Quotidiano), Ferdinando Domè (figlio Giovanni Dome', vittima di mafia), Giorgio Mannino (giornalista), Luciano Traina (fratello di Claudio Traina, vittima di mafia), Maurizio Artale (rappresentante Centro Accoglienza Padre Nostro), Armando Carta (rappresentante di Scorta civica) Valentina Muratore e Rosalinda Aliotta (rappresentanti di Contrariamente) e Simone Cappellani (rappresentante delle Agende Rosse che operano in via Vetriera alla “Casa di Paolo”). Ognuno, grazie alla moderazione di Giorgio Mannino (collega e membro dell'Associazione Memoria e futuro), ha offerto una chiave di lettura sullo stato di questa lotta che si combatte da oltre 80 anni.

Il ruolo dei giovani
In particolare Di Matteo ha sottolineato il ruolo dei giovani “nel coltivare la memoria, pretendere che la verità venga completata e che il suo percorso venga solcato sino all'ultimo. Un compito necessario è anche quello di controllare il nostro lavoro di magistrati e di cambiare la politica. Non possiamo accettare di vivere in un paese dove ancora i metodi mafiosi sono così diffusi. Soprattutto, della politica cambiate quell’odiosa delega della lotta alla corruzione e alla mafia esclusivamente a magistrati e forze dell’ordine”.
C'era grande attesa per le sue parole, anche perché si trattava del primo intervento pubblico dalla nomina ricevuta dal Csm come sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia.
“Il nostro - ha aggiunto il magistrato - rischia di diventare un Paese senza memoria, senza consapevolezza del presente, senza sogni di futuro - dice - È sempre più evidente la connessione tra sistema mafioso e sistema corruttivo, che costituisce il più grave fattore di compromissione della democrazia. Da magistrato resto convinto che la lotta alla mafia, alla corruzione e all’illegalità del Paese dovrebbe essere il primo obiettivo di ogni Governo, a prescindere dal suo orientamento politico, e finora in Italia non è stato così”.

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Cosa nostra e delitti eccellenti
“La mafia siciliana - ha proseguito - è l’unica organizzazione che ha concretamente esercitato a livelli altissimi la sua pretesa di partecipare alla gestione della vita politica del Paese. Cosa nostra è stata protagonista dei più efferati delitti che hanno condizionato la nostra storia e democrazia, qui è accaduto ciò che non è mai accaduto altrove”. Parlando dei delitti eccellenti Di Matteo ha evidenziato come questi, da Piersanti Mattarella a Pio La Torre, da Rocco Chinnici a Costa, da Ninni Cassarà a Peppe Montana, “erano percepiti come un’anomalia da Cosa nostra, perché non accettavano la connivenza, anzi la denunciavano, la combattevano. E un altro filo rosso che li unisce, e che non va dimenticato, sono la delegittimazione e l'isolamento nel loro stesso ambiente istituzionale, che li ha uccisi molto prima del piombo”. L'analisi, seppur cruda, diventa necessaria proprio per acquisire la giusta consapevolezza dei fatti e della situazione attuale.
Anche per questo il magistrato ha voluto ricordare le sentenze definitive come quella sul senatore Andreotti, il cui reato è prescritto, e il senatore Marcello Dell'Utri. “Le storie processuali che hanno caratterizzato i delitti eccellenti - ha detto il pm - ci hanno permesso di scoprire che ci sono tanti indizi, elementi concreti, principi di prova che inducono a ritenere che, come ad esempio dietro le stragi del '92-'93, non vi fosse solo la responsabilità di uomini di Cosa nostra, ma la possibilità che quelle mani siano state armate da altri che non erano parte di essa”.

La delega della politica e il caso Minzolini
Di Matteo, anche riprendendo le parole di Paolo Borsellino, ha denunciato la responsabilità della politica che ha “delegato la lotta alla mafia, alla corruzione, al sistema opprimente dove corruzione e mafia sono faccia della stessa medaglia, esclusivamente sulle spalle dei magistrati e delle forze dell'ordine. E ancor di più ha delegato la ricerca della verità sulle stragi”. “Addirittura - ha proseguito - rispetto a quell'intervento di Borsellino la situazione è peggiorata se si considera che oggi non basta neanche la responsabilità penale per far scattare la responsabilità politica. Basti pensare a quanto avvenuto in parlamento a proposito del voto per la procedura di decadenza di Minzolini”.
Di Matteo è poi tornato anche sul conflitto di attribuzione sollevato dall'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano contro la Procura di Palermo che non si verificò in situazioni similari rispetto ad indagini svolte dalle Procure di Milano e Firenze: “Tanti avvocati, magistrati, professori universitari a proposito di quelle intercettazioni casuali del Capo dello Stato hanno sussurrato parole all'orecchio dei protagonisti come 'voi avete fatto bene, avete osservato la legge ed avete fatto il vostro dovere chiamando a testimoniare l'ex Presidente Napolitano. Però c'erano questioni di opportunità che consigliavano il contrario'. Le questioni di opportunità devono restare fuori dall'agire del magistrato e bisogna avere il coraggio di farlo e di dirlo".

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Partire da Palermo
Rispondendo ad una domanda del moderatore Di Matteo ha anche spiegato il perché ha presentato domanda alla Dna: “Così come da ragazzo, quando mi trovavo in queste aule, voglio dare il mio contributo per quella che considero una lotta di liberazione e democrazia. In questo momento ho reputato che per poter continuare a lavorare su cose che mi hanno appassionato, dato che non ero messo più in condizione nella Procura di Palermo, ho fatto questa domanda ma non è un abbandono. Ho sollecitato l'applicazione al processo trattativa Stato-mafia, che seguo dall'inizio. Sento il bisogno di essere coerente anche vista una situazione pesante che si è venuta a determinare. In questi tre anni non c'è stato nulla di facile. Nel momento in cui c'è stato la crescita del rischio nei miei confronti con la conseguente sovraesposizione ho vissuto la situazione in cui tanti cittadini mi hanno dato loro stima ed affetto e paradossalmente, nel mio ambiente questa sovraesposizione ha aumentato la diffidenza e l'antipatia nei miei confronti".

L'importanza del ricordo
Se a Claudio Traina e Ferdinando Domé hanno ricordato le storie dei propri familiari, Maurizio Artale ha spronato i giovani a agire in prima persona, non fermarsi alle sole parole di un convegno o di una manifestazione. Il Gip di Palermo, Lorenzo Matassa ha spiegato le difficoltà che si incontrano in un ruolo come quello del giudice, in cui si fanno catture, sequestri, processi, condanne, e di come è importante nell'arrivare ad una decisione “essere faziosi se si sta dalla parte giusta che è quella della giustizia. Questo vi indurrà ad essere Patrioti”. E' stato poi Peppino Lo Bianco a ribadire come la richiesta di verità e giustizia sia un'azione che deve spingere ogni cittadino soprattutto lasciandosi ispirare dall'esempio dei familiari di vittime di mafia: “Troppo spesso la memoria istituzionale non è costruttiva ma agisce come un riflettore potente che illuminando la vittima a volte la trasforma, suo malgrado, in un'icona ponendo in ombra i motivi per cui è stata uccisa. Ed è su quei motivi che invece si deve riflettere e su cui i familiari insistono”. Il giornalista del Fatto Quotidiano, nel suo intervento, ha citato il ruolo importantissimo di Giovanna Maggiani Chelli nella ricerca della verità sulle stragi, il lavoro svolto da Giuseppe Casarrubea e Cereghino su fatti come quello di “Portella della Ginestra”, la mancata verità sul caso Manca con due procure che prendono due vie completamente opposte, indicando l'importanza di “non lasciarli soli a pretendere la verità perché a chiederla è la parte più ferita ma anche più nobile e consapevole che sa che chi rimuove il passato è condannato a riviverlo. E l'unica maniera di arrivare alla verità è cercarla fino in fondo”.

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