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repici fabio pydi Fabio Repici*
Arriva poi il momento in cui una sentenza diventa definitiva, irrevocabile, e da provvedimento giudiziario ancora opinabile si fa storia. Una situazione simile questa settimana è capitata a me. No, non ero io l’imputato nel processo conclusosi con sentenza irrevocabile. Io in questo processo ho avuto il ruolo della vittima. Da mercoledì scorso la giustizia italiana – nell’occasione immedesimata nei giudici della quinta sezione penale della Cassazione – mi ha riconosciuto il ruolo di vittima all’interno della storia della mafia barcellonese. Per l’esattezza, vittima sono stato io ma non solo io. Insieme a me è stato riconosciuto definitivamente vittima il signor Carmelo Bisognano da Mazzarrà S. Andrea, che nella storia della famiglia mafiosa barcellonese è stato il primo collaboratore di giustizia. Se noi siamo stati riconosciuti come vittime, c’è un colpevole, altrettanto definitivamente tale, anch’egli consegnato (non è la prima volta) dalla giustizia alla storia. Il suo nome ricorre da oltre quarant’anni nelle carte giudiziarie di processi celebratisi a tutte le latitudini. Si tratta di Rosario Pio Cattafi, il quale mercoledì dalla Cassazione ha ricevuto il marchio di calunniatore del pentito Bisognano e di me medesimo. Cos’era avvenuto? Provo a spiegarlo in modo semplice e comprensibile a chiunque. Il 25 novembre 2010 Carmelo Bisognano iniziò a collaborare con la giustizia. Fu un fatto epocale per la mafia barcellonese. In precedenza mai nessun appartenente alla potentissima famiglia barcellonese di Cosa Nostra era passato dalla parte dello Stato. Trattandosi di Barcellona Pozzo di Gotto, la Corleone del terzo millennio, al più i mafiosi avevano potuto sospettare di militare dalla stessa parte dello Stato, intendendosi per tali i numerosi rappresentanti infedeli delle istituzioni. Pentiti, invece, mai a Barcellona, unico territorio di Sicilia in cui nessun criminale si era dissociato dalla locale famiglia mafiosa, a testimoniarne l’inusitata potenza. Bisognano, in quel fatidico 25 novembre 2010, fu il primo. In altri tempi, era il 1993, c’era stato un collaboratore di giustizia, tale Maurizio Bonaceto, gestito in compartecipazione da autorità giudiziaria, un avvocato, carabinieri, Sisde e perfino mafia, per interposto fratello. Su Bonaceto il pubblico ministero Olindo Canali aveva costruito l’indagine e poi il processo per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. In contemporanea con Bonaceto, a collaborare con la giustizia era stato uno spacciatore di rango minore. Quasi quindici anni dopo era stata la volta addirittura di un giovane polacco, chiamato a ricostruire con le sue presunte rivelazioni il quadro di operatività della mafia barcellonese, conosciuto – così disse a verbale – in ragione di situazioni parecchio improbabili. Venne Bisognano, dunque. E tanto fu lo stupore per la dissociazione di un mafioso barcellonese che essa fu accompagnata da acuminati sospetti pure da parte delle autorità competenti. In poche settimane, però, Bisognano fece addirittura ritrovare i cadaveri di quattro vittime di lupara bianca, scomparse nel nulla da innumerevoli anni. Nessuno poté più avere riserve sulla genuinità della sua collaborazione con la giustizia. Le dichiarazioni di Bisognano, accompagnate a ruota dalle rivelazioni di un secondo pentito, Santo Gullo, che aveva emulato la scelta di Bisognano, il 24 giugno 2011 portarono all’arresto di tutti gli esponenti di vertice della mafia barcellonese. I boss della Corleone della Sicilia orientale, già in fibrillazione dopo la scoperta del cimitero della mafia, finirono tutti nelle patrie galere, come solo otto mesi prima nessuno di loro avrebbe mai pensato.
Non proprio tutti, in realtà, giacché, per esempio, Rosario Pio Cattafi in quella tornata rimase a piede libero. Cattafi, però, in quel periodo era già all’opera nel dipanare una gigantesca campagna calunniosa ai danni miei e, per l’appunto, di Carmelo Bisognano. La storia che costruì, e che mise nero su bianco in denunce, esposti, verbali di sommarie informazioni e perfino verbali d’interrogatorio quando, il 24 luglio 2012, venne finalmente arrestato, era semplicemente mostruosa: Cattafi disse non solo che le dichiarazioni che al suo riguardo Bisognano aveva reso ai magistrati erano false ma anche che io ero stato il puparo che aveva indottrinato il collaboratore di giustizia per distruggere Cattafi e così vendicarmi – giuro che ha sostenuto questa tesi – della sua indisponibilità a collaborare con me per abbattere i due personaggi più potenti di Barcellona Pozzo di Gotto negli ultimi decenni: l’ex Procuratore generale Antonio Franco Cassata e l’ex Vicepresidente del Senato Domenico Nania. Quella storia, che a dire il vero sarebbe dovuta sembrare un po’ il frutto di squilibri meritevoli di cure psichiatriche, divenne fra il 2011 e il 2012 una specie di campagna furiosa dalla quale dovetti difendermi. Cattafi non sarebbe mai finito sotto processo per questa gigantesca calunnia (un avvocato che insuffla falsi pentiti per accusare falsamente cittadini innocenti!), se il 9 agosto 2012 non avessi depositato alla Procura della Repubblica di Messina apposita denuncia. E, questo, nonostante la calunnia sia un delitto per il quale l’autorità giudiziaria dovrebbe procedere d’ufficio, non occorrendo la querela della vittima. Il fatto che quella fosse una colossale calunnia da mercoledì è un dato incontestabile della storia barcellonese e delle vicende del distretto giudiziario di Messina. A questo punto, la domanda viene spontanea: ma perché Rosario Cattafi – quel personaggio dall’antica militanza neofascista, dalle durature liaisons coi capimafia dell’intera Sicilia, dalla deferenza riservatagli pure dai soggetti di vertice dell’ala militare della mafia barcellonese, dalle frequentazioni d’alto bordo fra alti magistrati e presidenti della Consob e dirigenti delle industrie belliche e parlamentari e ministri – si determinò a calunniare giusto me e il pentito Bisognano? Io, che naturalmente ho ben chiari i motivi, mercoledì sera pensavo proprio a quella domanda e a come mi ero trovato in quasi assoluta solitudine a difendermi da quella calunnia, sostenuto solo dalla mia collega Mariella Cicero e da pochi amici. All’una e agli altri non sarò mai abbastanza capace di manifestare la mia gratitudine. Ma a quella domanda, che nella mia mente aveva ben delineata la compiuta risposta, si accompagnava nei miei pensieri un’altra domanda, che in fondo era nitidamente esplicativa della prima. Eravamo stati calunniati io e Bisognano perché a Cattafi non occorreva calunniare altri. Gli altri, tutti coloro che avrebbero dovuto essere altrettanto (e ancor più) invisi al compare d’anello del boss Giuseppe Gullotti, al compagno d’armi di quel Pietro Rampulla che fu l’artificiere della strage di Capaci, al sodale di Benedetto Santapaola e degli Ercolano e di Luigi Miano, al socio del circolo culturale (diciamo) Corda Fratres, al trafficante d’armi dei due mondi, ecco, tutti gli altri dov’erano finiti?

La domanda, nella mia mente, assunse esattamente la forma del titolo di un romanzo di uno dei migliori scrittori italiani delle ultime generazioni. Di mio ci aggiunsi solo il punto interrogativo. Perché questo, alla fine, col carico di angoscia di anni e quasi decenni (certo, non ancora cent’anni) di solitudine, fu ciò che mi chiesi: dove eravate tutti? Davvero: dove eravate?

Dove eravate tutti quando io e Piero Campagna, il fratello di Graziella, ci ritrovammo destinatari di assalti furiosi e minacce oblique di magistrati e ufficiali dell’Arma e scagnozzi di complemento, solo perché ci impegnavamo senza remore per far condannare i killer di Graziella e disvelare le contiguità di Stato che avevano provocato il delitto e che avevano imposto i depistaggi nelle indagini e l’aggiustamento del primo processo? Io venni messo nel mirino da un magistrato (e da un’intera corte di personaggi da operetta, tutti al servizio del gran capomafia massone) che non ero ancora avvocato, solo praticante. Piero fu adocchiato dalla prima di tante lettere anonime barcellonesi e costretto a lasciare Barcellona Pozzo di Gotto. Si era permesso di relazionare perfino sull’incontro fra il Procuratore generale e la moglie del boss latitante. E quel boss, Giuseppe Gullotti, era stato infine ammanettato da Piero, come aveva promesso ai familiari di Beppe Alfano.

E dove eravate tutti quando io, Sonia Alfano e pochi altri iniziammo a denunciare certe verità nascoste dell’omicidio Alfano e i depistaggi da film che ne avevano accompagnato le indagini fin dall’inizio? Il revolver calibro 22 preso in consegna dal pm, Olindo Canali, in sacrestia a Tindari e mai periziato e poi restituito dal pm nei comodi locali del ristorante di Portorosa (dell’amico dell’amico), l’altro revolver calibro 22 lasciato fuori dal fascicolo, la riunione romana sull’omicidio fra soggetti che non si sa a quale titolo si incontravano, il successivo utilizzo di Benedetto Santapaola come un burattino dalla barcellonese mafia di Stato, le intercettazioni attivate con preveggenza nell’ufficio ancora da aprire (ma non nella villetta, perché il titolare dell’ufficio poteva essere sacrificato, il titolare della villetta no), il tentato omicidio di Stato nella persona del giovane Imbesi (o del padre?), il nascondimento degli atti relativi alla latitanza di Santapaola scoperta da Alfano e sciaguratamente da lui confidata al pm, l’interrogatorio romano del pentito barcellonese alla presenza di un pm e un capitano e un avvocato, la cattura di Santapaola opportunamente effettuata a centinaia di chilometri di distanza da Barcellona Pozzo di Gotto, le intercettazioni che per gli investigatori non si sentivano ma che finivano pubblicate sui giornali, quegli atti che erano lì visibili a tutti e non venivano utilizzati né dall’accusa né dalla difesa, quell’aggravante della premeditazione non contestata dal pm all’organizzatore del delitto. L’elenco potrebbe forse proseguire e mai finire. Di certo, quando tirammo il velo sui depistaggi, altri ne intervennero, pure da quell’avvocato che più di tutti per decenza avrebbe dovuto tacere e da quel sito internet che per anni giocò il ruolo dell’agenzia OP del rito peloritano.

E dove eravate tutti quando intorno all’incompatibilità ambientale del Procuratore generale davanti al Csm furono recitati copioni da teatro dell’assurdo, con il finto accusatore che, di proposito, si smentiva da solo e l’intero Stato che si adoperava in difesa del magistrato, Antonio Franco Cassata, il quale evidentemente era insostituibile nel suo ruolo? Solo per una ragione potei rallegrarmi di quella vicenda, perché fu proprio nell’anticamera della Sala Bachelet del Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, che l’11 marzo 2002 per la prima volta io e Adolfo Parmaliana ci stringemmo la mano, per non lasciarcela più fino al 2 ottobre 2008.
E dove eravate tutti quando a investigare sulla presenza a Barcellona del latitante Bernardo Provenzano dovevamo essere solo io e i genitori di Attilio Manca e sol per questo io e la signora Angela venimmo spudoratamente querelati (tralasciamo, per carità di patria, di dire con l’assistenza di quale avvocato) da quel frate, figlio, doppiamente nipote, bisnipote e fratello di tutti i possibili mafiosi di Canicattì e della contea dorata di Provenzano? E tralascio qui le altre querele e gli atti di citazione che sempre io e la signora Angela a seguire collezionammo. Come tralascio pure l’isolamento nel quale la signora e suo marito furono relegati dalla migliore (per così dire) società barcellonese, allorché denunciarono gli anomali comportamenti di Ugo Manca al riguardo della morte del proprio adorato figlio.

E dove eravate tutti quando il secondo governo Prodi si dimenticò, per puro sortilegio, di disporre lo scioglimento per condizionamento mafioso del Comune di Barcellona Pozzo di Gotto? Eppure la relazione della commissione prefettizia, redatta anche dal funzionario della Squadra mobile di Messina Giuseppe Anzalone, fondata per metà sulle malefatte dell’imprenditore Maurizio Sebastiano Marchetta (vicepresidente del consiglio comunale) e per un quarto sulle malefatte del commercialista Luigi La Rosa (assessore al bilancio, per stanziare i pagamenti in favore dell’ente assistenziale da lui presieduto), aveva detto che il livello del condizionamento della mafia barcellonese sull’amministrazione guidata dal cugino omonimo del senatore Nania era «inquietante». Ricordo come fosse oggi i silenzi imbarazzati riservatimi da tutti coloro (i buoni, o presunti tali, fra coloro democraticamente impegnati in società) ai quali mi rivolsi per contrastare quello scempio di democrazia e legalità. Ricordo i vaniloqui di quel presidente cialtrone dell’antimafia, che in contemporanea mi insultava sostenendo, con scientifica spudoratezza, la balla secondo cui l’assassino di Graziella Campagna non sarebbe stato scarcerato grazie all’indulto sponsorizzato da un piccolo Stato extracomunitario e dai tanti garantisti all’italiana (cioè garantisti per i potenti, e chi se ne frega degli altri). La pratica per lo scioglimento dell’amministrazione comunale dev’essere ancora aperta, in qualche cassetto del Viminale, visto che mai nessuna decisione venne presa, in quell’improvvisa afonia della democrazia italiana.

E dove eravate tutti in quella tremenda estate del 2008, allorché si avviava la rappresaglia contro il migliore dei cittadini della provincia di Messina, Adolfo Parmaliana, colpevole di parresia e di onestà, e pure di aver inneggiato al decreto del Presidente Ciampi che (non erano ancora i tempi del secondo governo Prodi) aveva sciolto per condizionamento mafioso il Comune di Terme Vigliatore? Capitò pure che subito dopo quel 2 ottobre 2008, giorno maledetto nel quale Adolfo si tolse la vita, i muri del palazzo di giustizia di Messina furono tappezzati da manifesti dell’Anm del distretto che, con sicuramente involontaria citazione di manifesti e volantini di altra epoca, puntava il dito contro di me con tanto di nome, indicandomi come bersaglio, peraltro attribuendomi con menzogna scriteriata parole dette da tutt’altro avvocato. Chi si mosse in mia difesa, a parte l’indimenticato Titta Scidà e uno scrittore libero, Carlo Lucarelli, che, già memore delle conferenze nel far west barcellonese di anni precedenti, con immeritata generosità mi gratificò delle sue parole dal Venerdì di Repubblica? Proprio nessuno. Troppo forte era il vento contrario, amplificato oltre misura dalla necessità di fermare preventivamente gli effetti dell’ultima lettera di Adolfo, che insieme a Mariella Cicero, al senatore Lumia, al maggiore Cristaldi e a Biagio Parmaliana, mi designava esecutore del suo testamento morale.

E dove eravate tutti l’anno dopo, quando contro la memoria di Adolfo Parmaliana e nello scellerato tentativo di impedire l’uscita della sua biografia ad opera di Alfio Caruso («Io che da morto vi parlo», ed. Longanesi) addirittura il Procuratore generale di Messina (e alcuni suoi complici rimasti impuniti, per quanto palesi) ricorse al fango del dossier anonimo? Al solito, solo io, Mariella Cicero e Biagio Parmaliana (e alcuni testimoni dalla schiena dritta, per primo lo scrittore Alfio Caruso) ci trovammo a difendere la memoria di Adolfo, per una volta avendo la fortuna di incontrare dei pubblici ministeri intenti a fare niente più che il loro dovere, nelle persone del procuratore di Reggio Calabria (al tempo) Giuseppe Pignatone e del sostituto procuratore Federico Perrone Capano. E cosa dovemmo scoprire, però, analizzando i tabulati dei telefoni del Procuratore generale Cassata e di Olindo Canali (al tempo ancora alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto), del network relazionale di cui Cassata e Barcellona potevano godere? Eravamo davvero soli contro tutti. Eppure alla fine la memoria di Adolfo ebbe ragione e Cassata diventò un pregiudicato.

E dove eravate tutti in quello stesso 2009 nel quale il giudizio d’appello del processo alla mafia barcellonese, Mare Nostrum, divenne peggio di un far west, allorché la difesa del boss Gullotti invocò a propria difesa la testimonianza di Olindo Canali, mettendo nel mirino, more solito, me e Piero Campagna, evidentemente indimenticati nemici? Riferii a verbale alla D.d.a. di Messina per giorni ogni dettaglio di quel che stava accadendo intorno a quel processo e quali paurose alleanze si erano saldate. E cosa di osceno era successo in quegli anni a Barcellona Pozzo di Gotto, coi boss all’improvviso divenuti frequentatori di caserme, era evidentemente qualcosa da tenere occultato, se non venni mai chiamato come testimone nel processo Mare Nostrum né altrove.

E dove eravate tutti in quel giugno 2012, quando, ormai nell’imminenza della misura cautelare in carcere per Cattafi, fu tentata l’ennesima manovra velenosa con uno scandaloso esposto anonimo inviato a varie autorità e pure – ma tu guarda il caso – al Commissario Ceraolo di Barcellona, all’avvocato Ugo Colonna e a Rosario Cattafi? In quel vomitevole documento si sosteneva una tesi – ma tu guarda ancora il caso – coincidente con le calunnie di Cattafi, per cui io ero il puparo di un complotto quasi planetario ai danni del povero Cattafi. E di sicuro il mio potere doveva essere davvero incontenibile, se riuscivo – come recitava l’anonimo – a dare ordini nelle mie pratiche complottistiche al dottor Pignatone, al dottor Lo Forte, al dottor Ardita, a ufficiali dei carabinieri, alla Procura di Palermo, al senatore Lumia, alla Dia e pure a un noto avvocato di Barcellona. Mi sarebbe dovuta venire quasi una sindrome da complesso di superiorità. E però quell’anonimo non era altro che il concentrato dei veleni che per anni io e pochi altri avevamo dovuto sorbire grazie al foglio ufficiale di Cassata e Cattafi, il settimanale messinese Centonove (poi divenuto Centonove press, oggi 100Nove, domani magari 009 e, chissà, un giorno perfino 007), che in particolare nei miei confronti aveva sparato articoli che al paragone i comunicati delle Brigate Rosse dei (non proprio) bei tempi erano dichiarazioni d’amore. Ancora oggi non so con quali forze riuscimmo a resistere. Forse, anche la forza dell’ironia, se capitò (e capitò) che addirittura dalla testata che stampava quel foglio armato io venni addirittura querelato per diffamazione: come si dice, il bue che dà del cornuto all’asino.

E dove eravate tutti quando l’imprenditore più colluso con la mafia barcellonese, proprio quel Maurizio Sebastiano Marchetta che aveva fatto rischiare al sistema barcellonese lo scioglimento del Comune per condizionamento mafioso, divenne – niente di meno – simbolo dell’antiracket e denunciante (al cospetto del poliziotto di sua fiducia Giuseppe Anzalone, dimentico della sua vecchia relazione sul Comune) di mafiosi estorsori che avevano la non casuale caratteristica di essere diventati nemici degli storici leader della mafia barcellonese? Mai la giustizia messinese funzionò così rapidamente come in quell’occasione, in cui si era tramutata in Marchetta. E vennero, ça va sans dire, le feroci condanne contro gli imputati, fra le risate a quattro ganasce dei capimafia ancora liberi. In appello a difendere Bisognano, nel frattempo divenuto da mesi collaboratore di giustizia, intervenimmo io (e lasciamo perdere le minacce che ricevetti per non assumere quella difesa) e Mariella Cicero. E di nuovo fu guerra, noi contro tutti, con una Procura generale che chiese la conferma della condanna nonostante al contempo sostenesse che, in effetti, non si poteva nascondere, non c’era modo, era proprio evidente, sì, insomma, Marchetta era colluso col vertice della mafia barcellonese. E però Marchetta evidentemente è un colluso atipico se, dopo essere stato accompagnato nei suoi movimenti dalla scorta della Polizia di Stato, a breve affronterà il processo a piede libero (a differenza degli altri imprenditori collusi con la mafia barcellonese, che il processo se lo sono visto celebrare in costanza di detenzione carceraria), se la settimana scorsa gli è finalmente stato notificato dalla D.d.a. di Messina l’avviso di conclusione delle indagini preliminari per concorso esterno in associazione mafiosa.

E dove eravate tutti quando, una volta arrestato, Cattafi dal 41 bis si inventò addirittura testimone (testimone!) della trattativa Stato-mafia, naturalmente dopo aver avuto certezza che le sue spalle erano coperte da apposito protocollo? E nessuno volle fare caso alle balle sesquipedali che Cattafi vomitava senza tregua, col racconto di una trattativa en plein air ai tavolini di un bar di Messina fra lui, il suo amico magistrato Francesco Di Maggio, forse Canali e ufficiali del Ros, uno dei quali in divisa ma gran barzellettiere. Quando invece proprio Cattafi nell’estate del 1993, proprio quella della pacificazione sul 41 bis, aveva avuto suo ospite a Taormina (in concomitanza con la presenza nello stesso albergo del «mammasantissima» di Finmeccanica) il capo dell’ufficio detenuti del Dap, che sul 41 bis vigilava (per così dire). Ma – pensa tu la sfortuna – Cattafi cosa facesse quell’estate il suo amico Filippo Bucalo nel Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che parlava barcellonese proprio non se lo ricordava. E si arrivò al punto che, per farlo testimoniare al processo contro Mori e Obinu, Cattafi, contro la legge, fu sottratto al 41 bis e portato in aula, dove ebbe modo pure di incontrare fuori programma la sua servizievole compagna, ex moglie del suo socio d’affari che in quel periodo scorrazzava fra Milano, la Svizzera e la Romania.

E dove eravate tutti quando, durante la celebrazione del processo a carico di Cattafi, accadde che sotto traccia il Commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto, con tempismo davvero encomiabile, puntò la sua attenzione sul pentito Bisognano e tutti coloro che gli stavano intorno? La colpa di Bisognano era di aver reso (invero lievissime) accuse nei confronti di Cattafi? Di certo a settembre 2013 quel funzionario di Polizia mirò su Bisognano, proprio quando si era pronti alla sentenza di primo grado per Cattafi. Gli andò male. La D.d.a. di Messina ancora resistette alle sollecitazioni e la condanna per Cattafi fu rigorosa. Quasi due anni dopo ci si avvicinava alla sentenza d’appello. Stavolta il poliziotto fece centro, in concomitanza con l’intervento, in altra veste, di uno dei difensori di Cattafi, e la D.d.a. si adeguò alle sue sollecitazioni e pure alle sue molto parziali rappresentazioni e richieste. Finì che, mentre partecipava come parte civile al processo nel quale l’imputato era Cattafi, Bisognano veniva intercettato, anche in violazione di legge, mentre discuteva con i suoi difensori dei propri processi e delle iniziative deviate dei suoi nemici, si chiamassero Cattafi o Marchetta o Anzalone o Ceraolo ecc. ecc.. Le conseguenze sono visibili oggi, in una realtà davvero straniante: Cattafi, pregiudicato per calunnia e imputato per mafia circola a piede libero (naturalmente è solo un caso se dalla sua scarcerazione – dicembre 2015 – più nessun boss della mafia barcellonese abbia deciso di collaborare con la giustizia); Bisognano, vittima delle calunnie di Cattafi, pentito che ha fatto ammanettare il gotha della mafia barcellonese, è ristretto in carcere. Perché chi deve capire capisca.

Insomma, la risposta è perfino banale: semplicemente in questi quindici anni e più intorno alle vicende barcellonesi c’è stata la diserzione di massa. Lo Stato ha spesso abdicato e l’impegno nella ricerca di verità e giustizia se lo sono sobbarcati privati cittadini che non ne avevano alcun onere. Per primo fu Adolfo e per ultimo chi scrive. Ma di certo lo Stato ha spesso lasciato scarsa traccia di sé. Anzi, quando ha lasciato traccia quasi sarebbe stato meglio che continuasse a disertare. E l’attenzione delle istituzioni centrali e dei grandi organi d’informazione? Non pervenuta. Mica c’erano puericidi e madri assassine da raccontare, a beneficio delle viscere analfabete del paese. No, intorno a Barcellona il cono d’ombra è stato scientifico, garantito pure dal grande giornalismo democratico, come una volta, con una significativa smorfia sul viso mi segnalò il Procuratore Pignatone, senza che io nulla potessi obiettare. Ed è stato per questo, in fondo, che per tutti questi anni, oltre a svolgere con le mie modeste capacità il lavoro di avvocato, ho dovuto assumere su di me pure il ruolo del bambino della fiaba di Andersen, per dire, con la mia flebile voce e però impertinente, che a Barcellona il re era (ed è) nudo. Da mercoledì scorso la Cassazione si è incaricata di aggiungere che a Barcellona il re ha anche calunniato il bambino. Il quale, tuttavia, è sopravvissuto e continua a puntare l’indice. Non sarà la dimensione della fiaba ma, tutto sommato, viste le condizioni e i fatti di questi anni e il potere della nuova Corleone, non è nemmeno il peggiore degli esiti possibili.

* Avvocato

Tratto da: stampalibera.it

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