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dimatteo teresi tartaglia c michele naccari studio cameraRicorso in appello della Procura. Evidenziato il contrasto tra motivazioni e formula del dispositivo
di Aaron Pettinari
Una motivazione della sentenza “illogica”, “incongruente”, “confusa” che “appare percorsa da un singolare furore demolitorio”. E’ questo il parere della procura di Palermo che questa mattina ha depositato il ricorso in appello alla sentenza con cui è stato assolto Calogero Mannino, imputato di minaccia a corpo politico dello Stato nella tranche in abbreviato del processo Sato-mafia. Un documento vistato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che porta le firme del procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dei pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene.
Dopo aver letto le motivazioni del gup Marina Petruzzella i pm del pool trattativa hanno deciso di presentare il ricorso ravvisando una serie di criticità. “La prima, macroscopica, incongruenza - scrivono - si coglie nella palese contraddizione logica tra la motivazione (interamente volta a smantellare la sussistenza del fatto) e la formula assolutoria prescelta (art. 530 cpv. c.p.p., per non aver commesso il fatto come ascrittogli), formula che evidentemente postula il convincimento, da parte del giudicante, che, pur in presenza del ‘fatto di reato’ così come contestato, è risultata incompleta la prova del consapevole contributo causale del singolo imputato alla realizzazione di quello stesso fatto”.
Nelle motivazioni della sentenza, però, ciò non si ravvisa palesando “un'evidente e insuperabile contraddittorietà e illogicità intrinseca della pronuncia stessa, posto che si pone in insanabile contrasto con la formula assolutoria scelta dal giudice nel suo dispositivo". "Se il giudice ha scelto di assolvere - proseguono i pm - non perché il fatto non sussiste, ma perché l'imputato non lo ha commesso, la motivazione della sentenza sarebbe dovuta essere fondata (se non esclusivamente, almeno) in via del tutto prevalente sull'analisi del materiale probatorio concernente lo specifico contributo concorsuale contestato a Mannino, lasciando invece in secondo piano (in virtù della gerarchia delle formule assolutorie) ogni valutazione sulla sussistenza del fatto e, a maggior ragione, sulla responsabilità di altri imputati non sottoposti al giudizio abbreviato. E' questo, tuttavia, l'esatto e lampante contrario di quanto è avvenuto con la sentenza che si appella".

Venti pagine su cinquecento
I pm sottolineano come in una sentenza di circa cinquecento pagine, solo poco più di venti sono quelle "effettivamente valutative". "Tutto il resto della sentenza - continuano - si esaurisce in una asettica trascrizione di altre sentenze emesse da altre autorità giudiziarie, di verbali integrali di interrogatorio di (soltanto alcuni) collaboratori di giustizia, dell'intera trascrizione della requisitoria del pm, che il Giudice spesso riporta senza alcun tipo di valutazione critica (ovvero limitandosi a considerazioni estemporanee e sganciate da ogni riferimento critico concreto). La sentenza, in altri termini, è sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente".

Questione di metodo
Una sentenza, dunque, che “è costruita in modo piuttosto confuso, perché le argomentazioni che vengono poste di volta in volta in confutazione del Giudice appaiono affrontate senza un preciso ordine di trattazione ma episodicamente, al punto che lo stesso estensore è costretto a ripetere, anche più volte, i medesimi argomenti e la stessa ricostruzione di molti dei fatti rappresentati dall'accusa, offrendo di volta in volta le proprie valutazioni in modo estremamente sintetico e apodittico”.
“La semplice lettura dell’indice della sentenza impugnata - continuano i pm - dà conto di quanto sopra; così come la constatazione dello sbilanciamento tra la parte descrittiva dei fatti (costituita esclusivamente nella pedissequa trascrizione di verbali di interrogatori, di ampi brani di sentenze pronunciate da altre autorità giudiziarie e della requisitoria del PM) e la parte valutativa di tali emergenze: tutto ciò denota la gravissima lacuna denunciata in premessa, e cioé la sostanziale mancanza di una motivazione congrua e comprensibile che attraversa tutto l’elaborato del Giudice".

Un anno d’attesa
Nel ricorso in appello i pm sottolineano anche "la singolare durata di gestazione dell'elaborato (un anno circa dal giorno della lettura del dispositivo). Questa poteva essere "giustificata dalla complessità determinata dalla necessità di enucleare la sola posizione processuale di Mannino dal contesto generale del processo originario" ma "le aspettative maturate durante la lunga attesa sono state tradite da una motivazione che è risultata estremamente lacunosa, piuttosto confusa nella ricostruzione dei fatti e priva di argomenti di valutazione critica realmente collegati alle emergenze processuali prospettate dall'accusa".

Il segnale di Lo Voi
Se c’è un segnale che va sicuramente colto dal ricorso è proprio la firma di Francesco Lo Voi. Il “visto” non era un atto formalmente necessario, dato che anche un singolo pubblico ministero avrebbe potuto appellare la sentenza. L’atto del procuratore Capo, più unico che raro se si considera quanto fatto da altri illustri predecessori (vedi l’ex Procuratore Grasso per il processo Andreotti, ndr), ha scelto di dare un segnale di compattezza dell’intera Procura. Anche l’ex Procuratore capo Francesco Messineo firmò la richiesta di rinvio a giudizio ma in un primo momento non firmò l'avviso di conclusione delle indagini sulla Trattativa.

In foto da sinistra: i magistrati di Palermo Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Nino Di Matteo
(© Michele Naccari/Studio Camera)

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