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tribunale eff focus greIncoerenze e contraddizioni nelle motivazioni del gup Petruzzella
di Aaron Pettinari
La minaccia al corpo politico dello Stato? C'è stata ma bisogna comprendere chi l'ha messa in atto e chi ne ha preso parte “consapevolmente”. E' così che, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, il gup Marina Petruzzella motiva l'assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino, per “non aver commesso il fatto”, nel processo trattativa Stato-mafia.
La tesi dell'accusa, che aveva chiesto una condanna a nove anni di reclusione, viene respinta pur in presenza di “elementi di sospetto”. In quanto tali “non hanno quindi una grave e autonoma natura indiziaria” e “se considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi a interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale”.

Il valore di un processo
Rispondendo anche alla difesa Mannino, che aveva rilevato il problema dell’esatta configurazione della condotta descritta nel capo d’accusa, nelle sue conclusioni la Petruzzella spiega che “da un punto di vista naturalistico può affermarsi la sussistenza della minaccia al Governo in quanto l’omicido Lima e tutte le stragi di Cosa nostra che seguirono vollero realizzare ogni volta una pressione e una minaccia di violenze ulteriori, dirette anche al Governo. La sequenza degli eccidi conteneva il chiaro messaggio intimidatorio della vendetta e della pretesa di un trattamento di favore e della minaccia di ulteriori stragi. Il messaggio integrato dall’omicidio di Lima era indirizzato a chi conosceva la storia di Lima”. Nelle motivazioni il giudice da una parte ammette che “i timori di Mannino, le sue iniziative per ricevere tutela da organi di polizia giudiziaria, senza sporgere denunce, le confidenze da lui fatte a Padellaro e a Mancino, confermano che Mannino scorgesse negli eventi i segni della minaccia, proveniente dai vertici corleonesi e che avesse consapevolezza che la minaccia fosse diretta anche al governo ed ai politici, soprattutto a quelli che, secondo Cosa nostra, avevano rotto il patto o che pubblicamente si vantavano di essere degli antimafiosi (il 12 marzo 1992 Mannino era ministro in carica del governo Andreotti, con Scotti e Martelli)”. Dall'altra ha scritto che non c’è alcuna prova che leghi “l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa Nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governo” all’iniziativa di Mori e De Donno di interloquire con Vito Ciancimino.
Le contraddizioni iniziano se si considera che, in un altro passaggio sui contatti con il Ros, il gup scrive: “è ragionevole ritenere che i descritti comportamenti di Mannino con Guazzelli e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico”. E successivamente aggiunge: “non vi sono elementi sufficienti per escludere che Mannino si fosse limitato a chiedere ai Ros protezione dagli attentati e dalle indagini sul Corvo 2, anche con condotte non specchiate, perché ne volesse essere tutelato”. Dunque qual è secondo la Petruzzella la ricostruzione corretta? Per quale motivo di quei timori arriva a parlare con Mori, Subranni, Guazzelli e Contrada e non con figure che lui stesso definiva “amiche” come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Forse perché loro non sarebbero stati d'accordo ad intavolare una trattativa con la mafia, con il fine di fermare quegli attentati? Dunque, cosa portarono quegli incontri con il Ros? E' un dato di fatto che l'interlocuzione tra i carabinieri e Vito Ciancimino viene avviata nel giugno del 1992 così come è un dato di fatto che, dopo la morte di Lima, non vi furono altri politici a perdere la vita.
Rispetto all'operato dell'ex ministro della Dc il giudice non è coerente anche rispetto alla telefonata di Mannino a Di Maggio, oggetto della testimonianza di Cristella (affrontata dai pm nella requisitoria). “Sarebbe comunque suscettibile di rappresentare la volontà di Mannino di condizionare le scelte di non rinnovare i decreti ministeriali applicativi del 41 bis - scrive la Petruzzella - Il giudice non ha nessuna difficoltà ad immaginare un simile scenario, considerata la biografia politica di Mannino, rivelata dal compendio probatorio ben sintetizzato nell’ordinanza con cui il Gip di Palermo nel 1995 dispose nei suoi confronti la misura cautelare del carcere e nella sentenza che nello stesso processo lo giudicarono sull’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa”. Che significa che “il giudice non ha nessuna difficoltà ad immaginare”? Cosa vuole dire il giudice utilizzando questo termine? Gli elementi probatori ci sono o sono “immaginari”?
Demolizione testimoni
Nelle oltre cinquecento pagine di motivazioni scritte dal giudice larghi tratti vengono utilizzati per demolire i contributi di Massimo Ciancimino e del pentito Giovanni Brusca entrambi ritenuti inattendibili. Per quanto riguarda il secondo, però, la valutazione non viene data su tutte le dichiarazioni ma in particolare su quelle “rilasciate da una certa epoca in poi, relative alla presenza di Mancino e di altri uomini della sinistra della DC dentro la trattativa di Mori e de Donno con Vito Ciancimino e allo sviluppo che la trattativa stato-mafia avrebbe avuto nel ‘93”. Al processo di Firenze, sulle stragi del 1993, Brusca, che già aveva parlato del “papello” di Riina, spiegò di aver fatto per la prima volta il nome di Mancino, nel 2001, al pm fiorentino Gabriele Chelazzi. E, sempre a Firenze, parlò per la prima volta di Ciancimino e Dell’Utri per “evitare strumentalizzazioni”. “'Nel 1994, con Bagarella ho un contatto con Dell'Utri, attraverso Mangano, per avere modo di ''arrivare'' a Silvio Berlusconi - disse il collaboratore di giustizia - A Dell'Utri fu detto che il governo, allora guidato dal centrosinistra, sapeva e che ''da li' in poi per avere benefici si era intavolato un altro rapporto politico. Mancino non c'era più''. Invece, parlando del ''committente finale'' del papello, Brusca aveva detto che Salvatore Riina gli fece il nome di Nicola Mancino. Riina gli disse ''si sono fatti sotto''. ''Non mi disse il tramite - aggiunse poi - ma il committente finale e mi fece il nome di Mancino”.
A Brusca il giudice Petruzzella riconosce, “in relazione al contesto generale degli eventi di cui si discute” un apporto di tutta validità processuale. “Appaiono del tutto condivisibili - scrive il gup - le valutazioni di piena attendibilità del collaboratore,  formulate nelle sentenze sull’omicidio Lima e in quelle, pure passate in giudicato, sugli eventi stragisti del ’92 in Sicilia e nel ’93 e ‘94, come in altre, relative alle plurime finalità della stategia deliberata da Riina sul finire del ’91 e in vista dell’esito del maxi processo in Cassazione: di vendetta verso i magistrati e altre figure istituzionali che avevano contrastato l’organizzione mafiosa, e di rottura delle alleanze con i vecchi uomini politici, a cui gli stessi capi della fazione corleonese attribuivano la responsabilità di avere infranto “il patto”, e di ricerca al contempo di nuove alleanze politiche, in grado di assicurare gli interessi di Cosa nostra”.
Sul figlio dell'ex sindaco di Palermo, invece, non viene lasciata aperta alcuna possibilità. Addirittura viene messa in dubbio l'intera mole di documenti presentata ai pm, bollandoli come dei falsi nella loro interezza, senza entrare nel merito delle perizie svolte che, diversamente, decretavano l’attendibilità dei documenti. I pm, da parte loro, avevano spiegato nella requisitoria come l'attendibilità di Massimo Ciancimino fosse “solo 'parziale', ma al tempo stesso significativa, perché relativa ad un testimone privilegiato di quel momento e di quelle vicende”. Appare poi insolito l’appunto fatto ai pm di non aver sottoposto al giudice i verbali illustrativi degli interrogatori di Ciancimino jr, “che avrebbero evidenziato e agevolato la lettura di tutte le numerose ‘criticità’ (così si è espressa la Procura nel giudicarle) ed insidie che si annidano nelle pieghe delle farraginose e fluviali dichiarazioni del Ciancimino”, ma solo quelli integrali. Insolito perché è la stessa Petruzzella a scrivere, nel medesimo paragrafo, che “la presenza di verbali di sintesi operate dagli inquirenti nell’immediatezza dell’atto, non avrebbero certamente esentato il giudice dall’esame integrale delle trascrizioni”.







Poche parole

Se gli interrogatori e le dichiarazioni di Ciancimino jr vengono scansionate al millimetro dal giudice, altrettanto non si può dire per quel che riguarda le dichiarazioni della giornalista Sandra Amurri che il 21 dicembre 2011 si è trovata ad ascoltare un dialogo tra Mannino e l'onorevole Giuseppe Gargani. Un altro tassello ritenuto importante dai pm nel corso della loro requisitoria.
Sia al processo per la mancata cattura di Provenzano, così come dinnanzi alla Corte di Assise di Palermo presso la quale si celebra il processo sulla Trattativa in ordinario, la giornalista aveva ricostruito in aula gli istanti nei quali casualmente aveva captato quel dialogo. “Hai capito, questa volta ci fottono - aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri -, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva rimarcato che “quando Mannino disse a Gargani ‘la Procura di Palermo ha capito tutto’ diceva il vero. Si è riusciti a trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, ‘ora ci fottono’, ‘Ciancimino ha detto la verità su di noi’ vanno direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis allo stesso Di Maggio. E’ lui l’istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra, ma anche con altri esponenti istituzionali, perché bisogna scegliere la via dell’accordo mentre gli uomini dello Stato avrebbero dovuto cercare la strada per distruggere Cosa Nostra, non quella di conviverci e coesisterci”.
Secondo il giudice, però, la testimonianza della Amurri “anche ove fosse completamente attendibile e non frutto dell’enorme suggestione mediatica creatasi intorno al processo e di cui il giornale per cui lavorava era al centro, proverebbe soltanto che Mannino temesse di essere sbugiardato su qualcosa di interesse dei Pm e si porrebbe quindi il problema di accertare su che cosa”. “Le ipotesi - prosegue - visto l’ampio raggio dei sospetti sollevati dagli inquirenti anche intorno alla sostituzione di Scotti ed alla nomina di Nicola Mancino, le situazioni più direttamente riferite a Mannino, sarebbero tanto numerose quanto inconducenti”.  
Evidentemente al gup non interessava approfondire il tema così come non ha voluto sviscerare il tema “mafia-appalti”, limitandosi a dire nelle sue considerazioni che “l'argomento, come posto dal pm, appare un'asserzione pura e semplice e per giunta mal posta, dal momento che al giudice non sono stati forniti gli strumenti per valutare autonomamente l’operato dei Ros, né vi è stato un contraddittorio con i diretti interessati, la cui versione dei fatti non è dato conoscere”. Eppure se avesse voluto, a norma di legge, avrebbe anche potuto citare testimoni, per andare fino in fondo a questa storia che non le appariva chiara per mancanza di contraddittorio. Non solo. Successivamente scrive che “le informazioni che è dato ricavare già soltanto dalla lettura dei documenti acquisiti indicano che la vicenda dell’indagine ‘mafia-appalti’, e dello scontro intimamente connesso tra la Procura e i ROS, fu molto più articolata di come illustrata dal Pm… Non può nemmeno trascurarsi che Massimo Ciancimino, nel rispondere alle domande postegli dai Pm nel corso dei suoi interrogatori (nel presente procedimento), afferma che il padre non si fidava dell’influenza di De Donno e Mori e voleva per la sua trattativa migliori garanti, ricordando che una telefonata del Procuratore della Repubblica Giammanco era bastata ad affossare quell’indagine mafia-appalti che era costata loro anni di lavoro”. Secondo quest’ultima considerazione dunque dobbiamo intendere che in questo caso il figlio di don Vito è attendibile?







Colpo di spugna

Ma il “colpo di spugna” sulla ricostruzione offerta dai pm è totale quando il giudice “ribadisce che comunque nei confronti di Mannino gli elementi indiziari per affermare che vi fu da parte sua il genere di interferenza di cui è accusato risultano non adeguati” indicando la necessità dell'elemento psicologico per la realizzazione del reato per cui “la responsabilità della minaccia sarebbe certamente attribuibile a coloro che intendessero trattare per far cessare l’attacco stragista ove ciò implicasse la consapevolezza e la volontà di partecipazione al ricatto della prosecuzione della linea stragista”. Diversamente “non potrebbero considerarsi compartecipi e corresponsabili della suddetta minaccia coloro che pur volendo in qualche modo assecondare le pretese mafiose non intendessero condividerne (l’elemento essenziale) della minaccia della prosecuzione delle stragi”. Così, in un colpo solo, si cerca di dare una spiegazione unica, non solo riguardo all'operato di Mannino, ma anche degli altri coimputati coinvolti nel processo con rito ordinario. Poco importa se si tratta di due procedimenti distinti per forma e sostanza.
Se da una parte è vero che le prove “iniziali” sono le medesime è innegabile che nel corso del procedimento in corso di fronte alla Corte d'Assise è stato possibile approfondire il quadro indiziario con tutti gli elementi forniti dai numerosissimi testimoni ascoltati. Per sopperire ai “limiti” del rito abbreviato, i pm hanno depositato numerose decine di faldoni.
A fronte della presenza di un così grande numero di atti la stessa Petruzzella sostiene che “nemmeno il giudice può avere la pretesa di fornire in questa sede un’esposizione sistematica del patrimonio di informazioni sulle precedenti indagini, tracciate nelle migliaia di atti riversati nel processo, accanto tra l’altro a interessanti articoli di stampa e di documentazione storica e giornalistica di varia natura”. Tutti atti che sono stati via via sviscerati e collegati tra loro nel corso della requisitoria dei pm Teresi e Tartaglia e che la Petruzzella giudica persino “sovrabbondanti”, quando il giudizio abbreviato si basa, per l’appunto, solo ed esclusivamente sugli atti.
Così il timore di Mannino, i suoi incontri con Guazzelli, il Ros e Contrada, i suoi pregressi rapporti con i Ros, la falange armata, l’anonimo e l’indagine “Corvo 2”, l’indagine “mafia-appalti”, la sostituzione del ministro degli interni Scotti con Nicola Mancino e di Martelli con Conso, la sostituzione di Nicolò Amato al vertice del Dap, le interlocuzioni tra Vito Ciancimino, Mori e De Donno, vengono considerati dal giudice come “notori”, “pacifici” o “irrilevanti”. Nonostante gli stessi vengano comunque affrontati con una visione non complessiva ma frazionata e, in alcuni casi, vengono solamente citati. Ad esempio, leggendo la sentenza, appare evidente come il giudice abbia deciso di non esprimersi su una serie di prove documentali che dimostrano proprio come, a livello istituzionale, si fosse ben consapevoli della natura delle stragi e quali fini le stesse nascondessero. Non una parola, se non quelle dei pm, viene spesa sulle note della Dia (10 agosto '93) e dello Sco (11 settembre '93), in cui si parla delle stragi di Cosa nostra come il tentativo di “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo” e che dunque non bisognava cedere di un millimetro sul 41-bis.
Si prosegue così a frazionare le azioni condotte non solo da Mannino, ma anche dagli altri coimputati e persino di alcuni “testimoni smemorati”.
In questa maniera il giudice, ovviamente senza riconoscere il dato di fatto che a dare origine a svariati “flussi di coscienza” erano state proprio le dichiarazioni di Ciancimino jr, evidenzia la possibile presenza di “una serie di fattori” che possono aver deformato i ricordi di figure come il presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante (come lui Liliana Ferrara e Claudio Martelli), e che, a parere del giudice “non hanno valenza indiziaria dell’assunto del coinvolgimento, anche indiretto, di Mannino”. Poco importa se per quasi vent'anni non avevano mai proferito alcuna parola su certi episodi. Elementi che i pm avevano portato all'attenzione del giudice anche per contestualizzare i passaggi storici dei fatti avvenuti.
Ma di ciò non si tiene conto e tutto viene giustificato. Persino la reticenza di Mancino, imputato di fronte alla Corte d'assise per falsa testimonianza. Questa, secondo il giudice, “potrebbe essere ragionevolmente riferibile ad un suo stato d’animo di timore, d’altra parte dimostrato nell’eloquente dialogo telefonico che ebbe con Loris D’Ambrosio l’1 dicembre 2001, o anche dall’acquisita consapevolezza di essersi trovato all’epoca dei fatti in mezzo a situazioni torbide dei cui contorni magari allora aveva una cognizione approssimativa”.
Secondo il gup, dunque, “ciascuno dei fatti 'politici' valorizzati dal Pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis o.p. (come quella che, in realtà, veniva all’epoca propugnata da Nicolò Amato, rivelata dalle note che questi all’epoca scriveva al ministro), ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa. E ciò sia se le medesime situazioni si considerino autonomamente l’una dall’altra sia se si considerino nel loro insieme”. Così per assurdo viene ridotta ad una semplice scelta “politica” l'allontanamento di Amato dal Dap “in quanto d'accordo con l'eliminazione del 41 bis” (nella nota del 6 marzo, in realtà parlava anche di una serie di provvedimenti alternativi come la necessità di registrazione dei colloqui tra mafiosi e familiari o anche la partecipazione in videoconferenza ai processi). Lo stesso discorso vale  per le sostituzioni dei ministri Scotti e Martelli con Mancino e Conso con quest'ultimo che “in perfetta autonomia”, dopo gli attentati del luglio 1993, a novembre, “prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41 bis” prese quella decisione “sotto la pressione del senso di responsabilità che gravava sulla sua coscienza”. Tutti questi elementi, se presi singolarmente, possono sicuramente avere diverse spiegazioni. Ma allargando l’orizzonte ed osservandoli nella loro interezza, come dovrebbe fare un giudice, resta difficile non vedere la concatenazione logica degli eventi.







Ragion di Stato

Il processo di “normalizzazione” delle azioni “discutibili” svolte in quegli anni dai rappresentanti delle istituzioni riguarda anche i vertici del Ros ed il contatto che quest'ultimi hanno portato avanti con Vito Ciancimino. Per analizzare questa azione il giudice ha fatto particolare riferimento alla sentenza della Corte d'assise di Firenze. Quest'ultima aveva sollevato alcune contraddizioni logiche nel racconto fatto da Mario Mori e Giuseppe De Donno (“Non si comprende infatti come lo Stato in ginocchio nel ‘92 - secondo Mori - si sia potuto presentare a cosa nostra per chiederne la resa, non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18 ottobre 92, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri e non si comprende come il generale Mori e de Donno siano rimasti sorpresi da una richiesta da show dawn giunta addirittura in ritardo a quanto pare logico”). Tuttavia per il gup Petruzzella “le contraddizioni colte dalla Corte di Firenze non appaiono scontate. Non pare infatti potersi aprioristicamente escludere che l’approccio di Mori fosse poco meditato e meramente esplorativo delle possibilità che attraverso Ciancimino si potessero aprire spiragli investigativi, né l’ipotesi che Mori fosse convinto che all’interno di Cosa nostra, nonostante le difficoltà delle forze statali, vi fosse chi pensasse che quello scontro frontale stragista, adottato contro le istituzioni, prima o poi si sarebbe ritorto contro l’organizzazione criminale”. Il giudice non tiene però conto che, sempre in quella sentenza, viene scritto come quell'iniziativa del Ros “aveva tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa’ e fu pertanto che ebbe sui capi mafiosi l’effetto di convincerli definitivamente che la strage portava vantaggi all’organizzazione”.
E' un dato di fatto che proprio di trattativa avevano parlato direttamente sia De Donno che Mori (quest'ultimo poi in diretta tv ha parlato persino di baratto).
Non solo. Fu proprio De Donno, nella sua deposizione, a spiegare il fine di quell'interlocuzione con Ciancimino indicando la volontà di “porre fine alle stragi”. Di quali stragi se fino a quel momento (giugno 1992) c'era stata solo quella di Capaci? E a che titolo il Ros aveva intrapreso quell'iniziativa?
Il gup scrive: “resta il fatto che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerarsi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi di ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina”.
Ma non si ferma a questa considerazione: “resta pure il fatto che, soprattutto dagli approfondimenti, a suo tempo espletati dal Pm della DDA di Firenze, sulla vicenda del 41 bis nel carcere di Pianosa, emerse non il sospetto che i Ros favorissero la revoca del regime del 41 bis, ma il diverso sospetto che in quei contesti utilizzassero, dentro le carceri o attraverso il ricorso a confidenti, informali metodi polizieschi per ottenere sbrigativamente i risultati desiderati, o quanto meno che i loro capi, e Mori era uno dei capi, mantenessero un particolare riserbo su questi sistemi, magari per una sorta di ritegno ad affrontare il problema o di ragion di Stato interna”. Di quale ragione di Stato si parla? E, soprattutto, di quale Stato, tenuto conto l’obbligo giuridico di un ufficiale di polizia giudiziaria a riferire alla magistratura i contenuti dei colloqui investigativi? Interrogativi gravi che restano appesi e che, forse, potranno trovare risposta non in questo processo ma in quello in corso di fronte la Corte d'Assise di Palermo.
Tutto il contrario di tutto
Ma il giro di valutazioni a volte anche contraddittorie che il giudice mette in atto nelle motivazioni della sentenza si evincono anche nelle conclusioni. “In ultima analisi - scrive la Petruzzella - resta accertato che l’omicidio di Lima, la strage di Capaci, la strage di via d’Amelio e tutti gli eccidi posti in essere da Cosa nostra  fino al ’94,  assunsero un’indubbia finalità politico eversiva ed implicarono una minaccia anche al Governo, che era diretta a condizionare l’azione repressiva contro la stessa organizzazione. Resta inoltre accertato che Mannino fu ben in grado di comprendere, almeno fin dalla fine del 1991, che i corleonesi nutrissero propositi di vendetta anche nei suoi confronti (ne ebbe conferma anche dagli atti intimidatori subiti, di tipico stampo mafioso), e che in tale contesto si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi  a Subranni, Mori, a Contrada ed altri, per ottenerne protezione”.
“Può d’altra parte considerarsi altamente probabile - aggiunge - stando alla sua biografia politica descritta negli atti del processo in cui fu giudicato sull’accusa di concorso in associazione mafiosa, che Mannino caldeggiasse una linea politica di non contrasto alla mafia. E bisogna dar atto inoltre che le dichiarazioni di Violante e quelle della Ferraro, a proposito del fatto che anche Borsellino fosse informato dei contatti tra Mori e Ciancimino, ed altresì le dichiarazioni di Violante (allora presidente della commissione parlamentare antimafia) sulla insistenza di Mori perché Vito Ciancimino venisse ascoltato, indicano un tentativo di Mori stesso di assecondare le pretese del Ciancimino”. Poi però smonta nuovamente l’impianto accusatorio: “Ma si è visto per quali ragioni, comunque, gli elementi concreti per connettere tale fatto all’iniziativa di Mannino di chiedere protezione ai Ros e la 'trattativa' tra Mori e Ciancimino appaiono fragili, come pure, si ribadisce, gli elementi per attribuire a Mori una volontà di patteggiare, attraverso Ciancimino, benefici per Cosa nostra”.
Sentenza già scritta, dunque, anche per il generale. Alla fine quel che resta, però, è l'amarezza di chi, come Giovanna Maggiani Chelli (Presidente dell'Associazione Familiari Vittime dei Georgofili) attende ancora giustizia: “E' vero che le sentenze si applicano, ma oggi come oggi non è più possibile non discuterle visto quanto l'ingiustizia debordi: una cosa è certa Calogero Mannino doveva essere ucciso da "cosa nostra" subito dopo Salvo Lima, è una prova oggettiva. Purtroppo a morire sono stati i nostri figli. Piaccia o no è così, il resto è lana caprina, che poi non ci sia prova penale che Calogero Mannino abbia tentato di proteggersi muovendosi per se e contro tutti gli innocenti è un altro fatto. Quando mai c'è prova penale oltre la mafia quando viene raggiunto il potere politico?”. “A questo punto - conclude - buon per lui, ci mancherebbe altro. Ma non si parli di giustizia bensì dei limiti di riparazione del torto verso quei cittadini che hanno pagato un prezzo senza pari, perché piaccia o no ai giudici, siamo stati messi nelle mani della mafia e travolti per interesse dei potenti”.

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