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Colpo di spugna

Ma il “colpo di spugna” sulla ricostruzione offerta dai pm è totale quando il giudice “ribadisce che comunque nei confronti di Mannino gli elementi indiziari per affermare che vi fu da parte sua il genere di interferenza di cui è accusato risultano non adeguati” indicando la necessità dell'elemento psicologico per la realizzazione del reato per cui “la responsabilità della minaccia sarebbe certamente attribuibile a coloro che intendessero trattare per far cessare l’attacco stragista ove ciò implicasse la consapevolezza e la volontà di partecipazione al ricatto della prosecuzione della linea stragista”. Diversamente “non potrebbero considerarsi compartecipi e corresponsabili della suddetta minaccia coloro che pur volendo in qualche modo assecondare le pretese mafiose non intendessero condividerne (l’elemento essenziale) della minaccia della prosecuzione delle stragi”. Così, in un colpo solo, si cerca di dare una spiegazione unica, non solo riguardo all'operato di Mannino, ma anche degli altri coimputati coinvolti nel processo con rito ordinario. Poco importa se si tratta di due procedimenti distinti per forma e sostanza.
Se da una parte è vero che le prove “iniziali” sono le medesime è innegabile che nel corso del procedimento in corso di fronte alla Corte d'Assise è stato possibile approfondire il quadro indiziario con tutti gli elementi forniti dai numerosissimi testimoni ascoltati. Per sopperire ai “limiti” del rito abbreviato, i pm hanno depositato numerose decine di faldoni.
A fronte della presenza di un così grande numero di atti la stessa Petruzzella sostiene che “nemmeno il giudice può avere la pretesa di fornire in questa sede un’esposizione sistematica del patrimonio di informazioni sulle precedenti indagini, tracciate nelle migliaia di atti riversati nel processo, accanto tra l’altro a interessanti articoli di stampa e di documentazione storica e giornalistica di varia natura”. Tutti atti che sono stati via via sviscerati e collegati tra loro nel corso della requisitoria dei pm Teresi e Tartaglia e che la Petruzzella giudica persino “sovrabbondanti”, quando il giudizio abbreviato si basa, per l’appunto, solo ed esclusivamente sugli atti.
Così il timore di Mannino, i suoi incontri con Guazzelli, il Ros e Contrada, i suoi pregressi rapporti con i Ros, la falange armata, l’anonimo e l’indagine “Corvo 2”, l’indagine “mafia-appalti”, la sostituzione del ministro degli interni Scotti con Nicola Mancino e di Martelli con Conso, la sostituzione di Nicolò Amato al vertice del Dap, le interlocuzioni tra Vito Ciancimino, Mori e De Donno, vengono considerati dal giudice come “notori”, “pacifici” o “irrilevanti”. Nonostante gli stessi vengano comunque affrontati con una visione non complessiva ma frazionata e, in alcuni casi, vengono solamente citati. Ad esempio, leggendo la sentenza, appare evidente come il giudice abbia deciso di non esprimersi su una serie di prove documentali che dimostrano proprio come, a livello istituzionale, si fosse ben consapevoli della natura delle stragi e quali fini le stesse nascondessero. Non una parola, se non quelle dei pm, viene spesa sulle note della Dia (10 agosto '93) e dello Sco (11 settembre '93), in cui si parla delle stragi di Cosa nostra come il tentativo di “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo” e che dunque non bisognava cedere di un millimetro sul 41-bis.
Si prosegue così a frazionare le azioni condotte non solo da Mannino, ma anche dagli altri coimputati e persino di alcuni “testimoni smemorati”.
In questa maniera il giudice, ovviamente senza riconoscere il dato di fatto che a dare origine a svariati “flussi di coscienza” erano state proprio le dichiarazioni di Ciancimino jr, evidenzia la possibile presenza di “una serie di fattori” che possono aver deformato i ricordi di figure come il presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante (come lui Liliana Ferrara e Claudio Martelli), e che, a parere del giudice “non hanno valenza indiziaria dell’assunto del coinvolgimento, anche indiretto, di Mannino”. Poco importa se per quasi vent'anni non avevano mai proferito alcuna parola su certi episodi. Elementi che i pm avevano portato all'attenzione del giudice anche per contestualizzare i passaggi storici dei fatti avvenuti.
Ma di ciò non si tiene conto e tutto viene giustificato. Persino la reticenza di Mancino, imputato di fronte alla Corte d'assise per falsa testimonianza. Questa, secondo il giudice, “potrebbe essere ragionevolmente riferibile ad un suo stato d’animo di timore, d’altra parte dimostrato nell’eloquente dialogo telefonico che ebbe con Loris D’Ambrosio l’1 dicembre 2001, o anche dall’acquisita consapevolezza di essersi trovato all’epoca dei fatti in mezzo a situazioni torbide dei cui contorni magari allora aveva una cognizione approssimativa”.
Secondo il gup, dunque, “ciascuno dei fatti 'politici' valorizzati dal Pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis o.p. (come quella che, in realtà, veniva all’epoca propugnata da Nicolò Amato, rivelata dalle note che questi all’epoca scriveva al ministro), ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa. E ciò sia se le medesime situazioni si considerino autonomamente l’una dall’altra sia se si considerino nel loro insieme”. Così per assurdo viene ridotta ad una semplice scelta “politica” l'allontanamento di Amato dal Dap “in quanto d'accordo con l'eliminazione del 41 bis” (nella nota del 6 marzo, in realtà parlava anche di una serie di provvedimenti alternativi come la necessità di registrazione dei colloqui tra mafiosi e familiari o anche la partecipazione in videoconferenza ai processi). Lo stesso discorso vale  per le sostituzioni dei ministri Scotti e Martelli con Mancino e Conso con quest'ultimo che “in perfetta autonomia”, dopo gli attentati del luglio 1993, a novembre, “prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41 bis” prese quella decisione “sotto la pressione del senso di responsabilità che gravava sulla sua coscienza”. Tutti questi elementi, se presi singolarmente, possono sicuramente avere diverse spiegazioni. Ma allargando l’orizzonte ed osservandoli nella loro interezza, come dovrebbe fare un giudice, resta difficile non vedere la concatenazione logica degli eventi.

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