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I destini incrociati di Rosario Cattafi e Giuseppe Graviano
E’ sicuro di sé. Sbatte in faccia ai giudici la sua intenzione di non parlare. Ha la consapevolezza di essere in una posizione privilegiata: dal 41 bis alla piena libertà. Unico caso in Italia. E chi glielo fa fare a rendere dichiarazioni? Eccolo Rosario Pio Cattafi, l’eminenza grigia, considerato l’anello di congiunzione tra mafia e Servizi (che deviati non sono). Al di là della sua odierna scena muta davanti alla Corte di Assise presieduta da Alfredo Montalto e delle sue precedenti deposizioni (monche) al processo Mori e al Capaci bis, resta quel verbale del 17 ottobre 2012 che vale la pena rispolverare.

L’incontro al Bar Doddis di Messina (maggio-giugno ‘93)
«In questa riunione – aveva raccontato Cattafi ai magistrati palermitani – avevano deciso di prendere la cosa in mano di essere operativi per quanto riguarda tutto questo schifo che c’era per… di queste stragi che erano accadute…». In quel verbale si parlava anche dell’incontro con il mafioso Salvatore Cuscunà, detto “Turi Buatta”, finalizzato ad una vera e propria trattativa. «Preciso che avrei dovuto contattare l’avvocato di Cuscunà – aveva evidenziato Cattafi – al fine di veicolare al Santapaola (Nitto, potente boss catanese all’ergastolo per stragi e omicidi eccellenti, ndr)  richiesta di bloccare le stragi in cambio di benefici in quel momento non meglio precisati». In quella occasione Cattafi aveva asserito che l’ex vicecapo del Dap Francesco Di Maggio gli aveva detto che bisognava “portare avanti una trattativa”. «Di Maggio disse: “Dobbiamo bloccarli questi porci” (…) egli si riferiva al fatto che voleva disinnescare e bloccare le stragi. Sempre in quel frangente, Di Maggio mi disse che bisognava mandare un messaggio a Santapaola e che “bisognava smetterla con questo casino” e che in cambio c'era la disponibilità da “parte nostra”, ossia da parte delle istituzioni, a concedere benefici». Nel ricordare l’incontro al bar Doddis Rosario Cattafi aveva specificato di aver trovato Francesco Di Maggio da solo al bar. «Ricordo che nel corso del colloquio Di Maggio fece riferimento ad una riunione che vi era stata poco prima presso il vicino comando dei Carabinieri adiacente alla Questura di Messina». A un certo punto Cattafi aveva ribadito che lo stesso Di maggio gli aveva detto «che era stato messo “in quel posto”, alludendo al Dap, proprio per avviare quei contatti». Secondo il boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Di Maggio gli aveva comunicato «che avevano deciso di essere operativi, riferendosi anche ai Carabinieri del Ros». «Di Maggio mi precisò che la risposta, a seguito del contatto con l’avvocato di Cuscunà, avrei dovuto comunicargliela al Ministero». Cattafi aveva raccontato ai magistrati che nel corso del colloquio l’ex vicecapo del Dap aveva ricevuto una telefonata, «precisando che di li a poco sarebbero giunti i Ros, cosa che effettivamente avvenne in quanto al bar giunsero cinque/sei persone, alcune delle quali in divisa ed altre in borghese». «Ricordo ancora che Di Maggio mi presentò nominativamente tutti i carabinieri presenti. Anzi aggiunse che per le eventuali esigenze avrei dovuto contattare due di essi». «Non ho lo stato di serenità per ricordare con certezza i nominativi dei due predetti Carabinieri – aveva messo a verbale Cattafi –, anche se ritengo di averli annotati, all’epoca, in qualche agenda. In ogni caso mi sarei dovuto presentare a nome del dr. Di Maggio». Sentito successivamente al processo Mori lo stesso Cattafi non aveva indicato nomi e cognomi in quanto non riteneva le sue condizioni «agevoli» per poterlo fare. Poi però aveva lanciato segnali obliqui dichiarando che il generale Mori l’aveva visto tante volte sui giornali e che in ipotesi avrebbe potuto anche indicarlo tra gli ufficiali del Ros presenti a quella riunione: «potrei anche riferirmi a quel verbale nel quale dicevo che c’era uno bassino che raccontava barzellette e potrei riconoscerlo in Mori… ma non ne sono sicuro…».

Similitudini
L’epopea di Rosario Cattafi ricorda singolarmente una vecchia storia legata al boss stragista di Cosa Nostra Giuseppe Graviano plurieragastolano. Era l’11 dicembre del 2009 e si stava celebrano il processo di appello nei confronti di Marcello dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Quel giorno Giuseppe Graviano, assieme al fratello Filippo, era stato chiamato a confermare o smentire le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Che, ripercorrendo gli anni delle stragi, aveva raccontato di una “trattativa” in corso tra i boss di Brancaccio e pezzi delle istituzioni identificate dallo stesso Giuseppe Graviano in Silvio Berlusconi e nel “paesano nostro” Marcello Dell'Utri. La trattativa, aveva spiegato, sarebbe proseguita anche negli anni successivi e almeno fino al 2004 quando all'interno del carcere di Tolmezzo Filippo Graviano gli aveva rivelato: “Dobbiamo far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove arrivare è bene che anche noi cominciamo a trattare con i magistrati”. Nel corso di quell’udienza dell'11 dicembre, i fratelli Graviano quelle dichiarazioni non le avevano ovviamente confermate. Ma il loro atteggiamento “affettuoso” nei confronti del pentito non era passato inosservato: niente accuse di infamità, nessuna presa di distanza, ma tanto rispetto nei confronti della scelta del “figlioccio” di passare dalla parte della Giustizia. E quella frase pronunciata da Filippo Graviano, che pur smentendo i fatti specifici raccontati da Spatuzza in riferimento al colloquio nel carcere di Tolmezzo aveva dichiarato: “Non ti dico che stai mentendo”. Dal canto suo Giuseppe Graviano si era avvalso della facoltà di non rispondere, ma aveva chiesto al Presidente che fosse letta in udienza una lettera inviata in mattinata alla Corte. Il giudice aveva negato la possibilità e il boss, in una sola frase, il suo “messaggio a buon intenditor” lo aveva lanciato comunque: “Per il momento non sono in grado di essere sottoposto a interrogatorio”. Vedremo “quando il mio stato di salute me lo permetterà”. Nella missiva, successivamente pubblicata sui giornali, poche righe per descrivere un profondo stato di malessere: 16 anni di detenzione al 41 bis, più di 10 di isolamento, una serie di problemi fisici e un trattamento che “viola articoli dell'Ordinamento Penitenziario, Carta Costituzionale, Convenzione dei Diritti Umani, ed anche diritti dell'infanzia e dell'adolescenza per il motivo che mio figlio di anni 12 chiede perché non possiamo scambiarci baci e carezze, perché ci permettono di incontrarci solo 1 ora al mese attraverso un vetro divisorio?”. Al termine dell'elenco, la stoccata finale: “Sarà mio dovere quando il mio stato di salute lo permetterà di informare l'Illustrissima Corte d'Appello per rispondere a tutte le domande che mi verranno poste”. Giuseppe Graviano aveva di fatto lasciato intendere che se non fosse arrivato qualche segnale lui avrebbe potuto anche iniziare a parlare. E il segnale era immancabilmente arrivato. Bastava solo rimettere insieme i pezzi. A settembre del 2009 era pervenuta in Cancelleria l’istanza degli avvocati di Giuseppe Graviano che chiedevano di revocare l’isolamento diurno che il boss scontava dal 24 ottobre 2001. Secondo quanto prevede la legge, la “separazione coattiva” può essere prorogata ogni sei mesi per un massimo di tre anni e riapplicata in caso di eventuale commissione di ulteriore reato. Il provvedimento per Graviano sarebbe quindi dovuto terminare il 23 ottobre 2004 ma, nonostante le richieste dei legali, era stato sempre prorogato. Il 17 dicembre 2009, una settimana dopo che Giuseppe Graviano aveva lasciato intendere di mal tollerare la sua condizione e di essere disponibile a parlare, era stato prontamente accontentato: l'isolamento diurno era stato revocato. Per ben cinque anni il suo avvocato aveva invano perorato la causa, poi, però, erano bastate poche parole – non dette – per far passare al boss, depositario di tanti segreti sulle stragi del ’93, di cui è stato regista, e sui mandanti “esterni” dal volto coperto, la tentazione di parlare.
Un parallelismo con il passaggio di Cattafi dal 41 bis alla piena libertà? A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

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