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bla bla bladi Lorenzo Baldo
A volte ritornano. Opinionisti, speaker e compagnia cantante. Tutti assieme appassionatamente. Nemmeno la pietas più ovvia fa capolino in mezzo alle loro gesta. Un magistrato viene condannato a morte dal capo di Cosa Nostra e il tritolo per lui arriva a Palermo, che si fa? Si traccia una sorta di parallelismo con alcune vicende legate a Paolo Borsellino e si parla di “tragedie che non possono ripetersi se non come farse”. E che problema c'è? Tanto è lo sport nazionale. Stavolta è la penna di Massimo Bordin. Nel suo editoriale di oggi sul Foglio il direttore di Radio Radicale sintetizza le motivazioni che hanno spinto il Csm a ipotizzare un trasferimento di urgenza del pm Nino Di Matteo da Palermo. Analisi cruda sul significato profondo delle nuove intercettazioni che attestano l'attualità del progetto stragista nei confronti dei magistrato che ha in mano il processo sulla trattativa Stato-mafia assieme ai colleghi Teresi, Tartaglia e Del Bene? Macchè: uno stringatissimo riepilogo della vicenda con un finale a effetto. Bordin ritiene che a fronte della possibilità che Di Matteo possa entrare alla Direzione Nazionale Antimafia attraverso una nomina extra ordinem “sarebbe inevitabile il parallelo con la nomina, nel dicembre 1986, di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala, malgrado magistrati più titolati di lui avessero avanzato la loro candidatura. La cosa fu notata da Leonardo Sciascia e per questo lo scrittore fu linciato. Nel caso di oggi è perfino auspicabile che finisca per valere la nota frase di Marx secondo cui le tragedie non possono ripetersi se non come farse”. Parlare di “farse” quando c'è di mezzo la vita di uomo qualifica immancabilmente lo spessore etico di chi pronuncia simili frasi. E se a Bordin è tanto caro l'esempio di Sciascia, è bene mettere tutti i tasselli al loro giusto posto ricordando cosa provocò quel suo famoso articolo sul Corriere della Sera dal titolo “I professionisti dell'antimafia”. Per farlo basta riprendere un intervento di Gian Carlo Caselli di alcuni anni fa. L'ex Procuratore di Torino ricordava che poco dopo la conclusione del Maxi-processo Paolo Borsellino aveva fatto domanda di trasferimento dal Tribunale di Palermo per essere nominato procuratore capo a Marsala. Di fatto la spaccatura all’interno del Csm riguardava “i criteri di nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari in terre di mafia”. “Concorrente di Borsellino - spiegava Caselli - era un magistrato molto più anziano ma inesperto di criminalità organizzata. All’interno del Consiglio si crearono due fronti, uno a favore dell’anzianità di servizio, allora principale criterio di assegnazione degli incarichi 'ordinari', un altro a favore delle specifiche attitudini antimafia di Paolo Borsellino. Questo secondo orientamento poggiava su una delibera adottata dal Csm il 15 maggio 1986, contenente l’impegno di nominare i dirigenti degli uffici interessati nella lotta alla mafia in modo 'mirato', tenendo conto del criterio della professionalità specifica. Alla fine, la maggioranza del Csm si espresse in favore di Borsellino”. L'ex Procuratore di Palermo evidenziava che nel momento in cui sembrava tutto finito era sceso in campo il Corriere della Sera con l'editoriale di Sciascia. “Sciascia è un gigante - sottolineava Caselli - in assoluto uno dei miei scrittori preferiti, ma questo articolo fu un errore clamoroso, causa di danni permanenti. Parlare di Borsellino come di un 'professionista dell’antimafia' nel senso di un arrivista che sgomita per buttare fuori dalla carreggiata colleghi più meritevoli è cosa assurda, destituita da ogni plausibilità. Tanto più se i meriti del concorrente erano (oltre all’anagrafe) il non aver mai fatto neppure un processo di mafia e ammetterlo 'con schiettezza e lealtà' da 'magistrato gentiluomo' (così nell’articolo di Sciascia)”. “Anni dopo - proseguiva il magistrato piemontese - proprio parlando con Borsellino, Sciascia riconoscerà di essere stato male informato (e che ci sia stato un 'informatore' interessato lo si intuisce dall’incipit dell’articolo, che cita il 'Notiziario straordinario n. 17 del 10 settembre 1986 del Csm', che certo non era in vendita nelle edicole di Racalmuto...). Ma tant’è, l’autorevolezza dell’autore e della testata avevano centrato l’obiettivo e fatto male”. A quel punto Caselli entrava ulteriormente nello specifico specificando che la polemica sui “professionisti dell’antimafia” aveva proseguito la sua folle corsa. “Non tardò a produrre altri effetti - sottolineava -, e a farne le spese fu Giovanni Falcone. Nel 1987 Antonino Caponnetto decise di rientrare a Firenze. Aveva dato molto. Quattro anni di vita 'blindata' a Palermo gli erano bastati per mettere a punto il pool (completando il lavoro avviato da Rocco Chinnici) e ottenere lo straordinario risultato del Maxi-processo, la fine del mito dell’impunità di Cosa Nostra. Lasciò la Sicilia nell’assoluta convinzione che il suo successore naturale alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo sarebbe stato Giovanni Falcone, uomo di punta del pool. Non fu così. Alla candidatura di Falcone si contrappose (come nel caso Borsellino) quella di un magistrato di ben maggiore anzianità ma digiuno di processi di mafia. L’articolo di Sciascia ebbe un peso fortissimo e venne ampiamente strumentalizzato. Nel Csm, spesso richiamandosi proprio a tale articolo, molti di quelli che avevano votato per Borsellino cambiarono idea, pur in una situazione tutt’affatto identica. Risultato: questa volta la maggioranza si espresse non per il più bravo nell’antimafia, ma per il più anziano, anche se non esperto di mafia”. Strumentalizzazione dei media a discapito di determinati magistrati ieri come oggi? Gioco al massacro sulla pelle di quei giudici già condannati a morte? Tragedie che possono ripetersi? Ma forse per qualcuno queste sono solo “farse”.

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