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mori inchino effdi Aaron Pettinari e Francesca Mondin

Iniziata l'arringa difensiva al processo d'appello
“Questo è un processo 'teorematico'. La Procura generale ha portato elementi funzionali a sostenere un teorema precostituito con poca, o per meglio nulla, attenzione alle prove che confutano e smontano inequivocabilmente il teorema accusatorio”. E' con queste parole che il legale del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, Basilio Milio, inizia la propria arringa difensva al processo d'appello che vede i due ex ufficiali dei Carabinieri del Ros, imputati per favoreggiamento per la mancata cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano nell'ottobre del 1995.
Nell'udienza dello scorso 18 gennaio, al termine della requisitoria, il procuratore generale Roberto Scarpinato e il pg Luigi Patronaggio avevano chiesto la condanna a quattro anni e sei mesi di carcere per l’ex generale del Ros Mori, e a tre anni e sei mesi per il colonnello Obinu. Una richiesta dimezzata rispetto a quella avanzata nel processo di primo grado, quando la procura chiese nove anni per Mori e sei e mezzo per Obinu, poi conclusosi con l’assoluzione dei due imputati, in quanto l'accusa ha deciso di rinunciare all'aggravante dell'art. 7, contestata agli imputati in primo grado e cioè aver agito per favorire Cosa Nostra ed anche l'aggravante di cui all'art. 61 n. 2, con riferimento al processo Bagarella + altri, quello sulla trattativa Stato-mafia, che invece sanziona l’aver commesso il reato per assicurare a sé o ad altri il prodotto o l’impunità di un altro reato.
Secondo l'avvocato Basilio Milio, che con Enzo Musco rappresenta la difesa dei due imputati, la sentenza di primo grado “è un risultato 'storico', che smonta i teoremi della pubblica accusa, e anche la seconda farà la storia”, ecco perché annuncia la richiesta di assoluzione piena per Mori e Obinu, entrambi presenti in aula, ancora una volta rappresentando come i due stessi ufficiali abbiano rinunciato alla prescrizione. Come se l'accertamento della verità fosse una “grazia” ricevuta dagli stessi e non un fatto normale.

Il “teorema” di Milio su Mezzojuso
Come era ovvio la difesa si è concentrata in particolare nel tentativo di screditare il teste principale dell'accusa, Michele Riccio, il colonnello che raccoglieva le parole del confidente Luigi Ilardo.
Quest'ultimo, poi ucciso nel maggio 1996 (e sulla cui morte è in corso il processo a Catania, ndr), avrebbe indicato agli inquirenti del Ros la possibilità di fare arrestare Provenzano. Ma il suo superiore di allora, cioè Mori, non avrebbe dato seguito all'indicazione della fonte. Mori si è sempre difeso sostenendo che lo stesso “procuratore Giuseppe Pignatone ha dichiarato nel processo che Riccio non gli parlò mai di contrasti sorti con la dirigenza del Ros o che emergessero problemi nelle operazioni volte alla cattura del Provenzano”. Tuttavia, proprio Pignatone, al processo trattativa Stato-mafia che si celebra davanti alla corte d'Assise, sulla vicenda aveva riferito: “Il colonnello veniva a riferire della gestione della fonte periodicamente. Si lamentava del fatto che le sue informative alla Procura venivano controfirmate o trasmesse con nota a firma del colonnello Obinu”.
Il legale di Mori ed Obinu torna poi sull'incontro in Procura del 1 novembre '95 tra Riccio e l'allora sostituto procuratore Giuseppe Pignatone. Per Milio le dichiarazioni rese da Pignatone sono inoppugnabili ma resta comunque il dato che Pignatone capisce l'importanza di quell'incontro tanto che, ricorda il Pg nella requisitoria, “a distanza di anni ricorda l'episodio tira fuori dal suo computer questa annotazione e la mette a disposizione del Tribunale”.
Secondo Milio “Riccio ha continuato a sostenere le tesi del primo grado in modo confuso, senza aggiungere niente, così come niente hanno aggiunto anche gli altri teste esaminati”.
In realtà, però, Riccio, ha permesso di accertare che la strumentazione tecnica messa a sua disposizione dagli agenti della Cia per procedere alla cattura di Provenzano era assolutamente affidabile per localizzare il latitante senza far correre alcun pericolo all’informatore. Il pg aveva già evidenziato l'errore della sentenza di primo grado nella quale vi è scritto che questa attrezzatura, che sarebbe stata posta dentro ad una normale cintura, “non era stata sperimentata”. Al contrario era stato dimostrato che era stata utilizzata nell'operazione “Piña colada” (e non solo) e che lo stesso Mori ne era a conoscenza.

Finta di non vedere
Nel minare il rapporto di confidenza tra Ilardo e Riccio il legale dei due ex ufficiali del Ros dimentica la lunga serie di arresti di boss latitanti a cui si è giunti proprio grazie alle confidenze del primo. Non solo. Al contrario di quanto sostiene la difesa dei due ufficiali del Ros Riccio ha anche fornito ulteriori elementi rispetto a quanto disse Mori sulla “necessità di smantellare la credibilità dei collaboratori di giustizia” e sull’“auspicio” di “un nuovo assetto politico che, grazie anche a personaggi politici come il Senatore Marcello Dell’Utri, definito punto di riferimento, stabilisse rapporti di egemonia dell’Arma dei Carabinieri nella direzione delle indagini rispetto alla magistratura, nonché il divieto impostogli da Mori di effettuare indagini su taluni esponenti politici.
E sempre sul mancato blitz di Mezzojuso Milio parla di scelte operative differenti, di battaglia ideologica, di un modus operandi “per evitare rischi nella speranza di un ulteirore incontro con Provenzano”. Nel corso del primo grado gli stessi imputati avevano detto che “C’erano troppe pecore e troppi pastori, per arrestare Provenzano”. Giustificazioni che non stanno in piedi di fronte alla possibilità di catturare il superlatitante corleonese.
Come se non bastasse, partendo da un'attenta rilettura dell'infromativa 'Grande Oriente' nel corso del processo è stato evidenziato che potevano essere effettuati servizi di osservazione sui luoghi frequentati da Provenzano nel circondario di Mezzojuso, così come verificato dallo stesso Riccio, in totale sicurezza. Proprio l'accusa aveva evidenziato come “Nessuno sviluppo investigativo fu però effettuato dagli uomini dell’Anticrimine di Caltanissetta nonostante già dal servizio di osservazione del 31 ottobre al bivio di Mezzojuso potessero essere effettuate identificazioni di uomini e mezzi di trasporto” e, soprattutto, vi furono “omissioni e ritardi nella identificazione e nello sviluppo investigativo di soggetti di sicuro interesse”, boss mafiosi come: Salvatore Ferro, Simone Castello, Giovanni Napoli, Nicola La Barbera, Salvatore La Barbera, Antonino La Barbera, Lorenzo Vaccaro, Domenico Vaccaro e Antonino Cinà. Dati di fatto che non possono trovare giustificazione alcuna se si considera che la prima richiesta di accertamenti alla Sezione anticrimine di Palermo, arriva soltanto quattro mesi e mezzo dopo i fatti, ovvero il 12 marzo 1996. Accertamenti specifici, inerenti notizie di reato, che verranno compiuti e comunicati a Mori ed Obinu nel maggio successivo ma che non verranno divulgati tanto che nella stessa informativa Grande Oriente non ne verrà fatto riferimento.
Ma resta ancor più grave l'attacco del tutto “gratuito” nei confronti della persona umana Michele Riccio. “Il colonnello – dice Milio - nell'immediatezza della morte di Ilardo, accusò Mori e Obinu, cioè i suoi superiori di allora, dicendo loro 'lo avete ucciso voi', un classico caso di lavarsi le proprie responsabilità morali. In quanto aveva appreso della fuga delle notizie da Damiano ed anziché precipitarsi da Ilardo va a Genova”. Parole che si commentano da sole.

“Scivolone” Terme Vigliatore
Se c'è un esempio lampante di quel modus operandi contro le regole da parte del Ros di allora questi è il caso di Terme Vigliatore. Nel 1993, a pochi mesi dalla mancata perquisizione del covo di Riina, un ulteriore episodio che portò, secondo l'accusa, al mancato arresto del boss catanese Nitto Santapaola. In particolare le nuove indagini condotte dalla Procura hanno messo in evidenza una serie di incongruenze rispetto alla versione “ufficiale” fornita da alcuni membri del Ros (il capitano Sergio De Caprio, alias Ultimo, e il capitano De Donno) su determinate dinamiche come l'inseguimento finito a colpi d'arma da fuoco, dell'incensurato Giacomo Fortunato Imbesi, scambiato per il boss Pietro Aglieri.

Su questa vicenda contesta la tesi della pubblica accusa secondo la quale la sparatoria avvenuta contro il giovane, e la contemporanea perquisizione della casa dalla quale il giovane era uscito, sarebbero state messa a punto per far scappare il latitante catanese.

Secondo Milio la ricostruzione reale sarebbe quella di De Carpio “che ha affermato di essere di ritorno assieme a De Donno da Messina e mentre si stavano recando a Palermo diede l’ordine a Mangano di pedinare e fermare il soggetto che poi si scoprì essere Imbesi”. In realtà è stato dimostrato in aula come non vi fosse “nessuna somiglianza fisica (si legge nella memoria, ndr), con il boss Pietro Aglieri”.
Nella sua arringa il legale dei due ex ufficiali del Ros parla di “errore” e di “imbarazzo” da parte dei protagonisti nel parlare di una vicenda per cui si era “consci di aver rischiato di ammazzare una persona”. Poi, a suo dire “per assurdo”, si mette nei panni dell'accusa nel tentativo di fornire una ricostruzione che però non appare così convincente. “Se fosse valida la tesi dell'accusa, ovvero che il Ros fosse consapevole della presenza nei lughi di Santapaola, dalle azioni svolte si evince che era intervenuto per arrestare il boss latitante e non farlo fuggire. Se volevano farlo fuggire significa che avrebbero già dovuto mettere in conto che Fortunato Imbesi avrebbe forzato il posto di blocco. E, poi, Mori perché sarebbe dovuto intervenire dando ordini se neanche conosceva i luoghi?”. Quindi il Ros era presente in quei luoghi per catturare Santapaola? E' questa la chiave di lettura che si vorrebbe dare in alternativa all'azione casuale, condita dall'errore ("grave") di un inseguimento con tanto di spari ad altezza d'uomo?

Ma in questa vicenda vi sono anche fatti documentali e incontestabili che evidenziano vere e proprie anomalie. La pubblica accusa lo scorso gennaio nella requisitoria aveva sottolineato che nella sentenza del processo di primo grado la versione del Ros era stata sì ritenuta attendibile ma c’era anche scritto che “se davvero l'intento era quello di far saltare l'operazione dell'arresto di Santapaola si sarebbe dovuto eseguire un'irruzione in una delle villette vicine al covo”. Blitz che, dopo ulteriori approfondimenti, è infatti emerso.

Giuseppe Fortunato Imbesi è stato visto uscire dalla villetta del padre, l'imprenditore Mario, che si trovava ad appena 50 metri dai locali in cui era stata udita la voce di Santapaola. Da lì iniziò l'inseguimento e, contestualmente, ebbe luogo proprio una perquisizione che a quel punto diventa anche un punto centrale.
Della stessa non vi è infatti traccia in alcun atto ufficiale tranne un verbale di perquisizione in cui non è indicato il nome dei militari e dove manca la sottoscrizione delle persone che subirono la perquisizione. L’unica firma presente è quella del carabiniere Pinuccio Calvi il quale inizialmente, sentito dagli inquirenti, aveva negato di aver firmato il documento e di aver partecipato alla perquisizione poi, sentito a processo un anno fa, si era barricato dietro una sfilza di non ricordo. Proprio per questo motivo il Pg Patronaggio, al termine dell'udienza, chiese che l’esame del teste fosse trasmesso alla Procura. Il processo è stato quindi rinviato al prossimo 14 marzo, quando proseguirà l’arringa.

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