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via damelio sentenzaEscono di scena i tre ufficiali di Polizia accusati dai falsi pentiti
di Lorenzo Baldo
E archiviazione fu. Nessuna sorpresa, certo. Solamente la consapevolezza di trovarsi in un Paese sempre più lontano dalla verità sui mandanti “esterni” delle stragi. Cala (per il momento) il sipario sui tre ex poliziotti del pool Falcone e Borsellino Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera indicati dai tre falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura come gli autori delle pressioni e delle violenze nel loro confronti al fine di ottenere dichiarazioni pilotate. Dominus di quella squadra investigativa era stato l'ex questore Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), affiliato per un periodo ai Servizi segreti con il nome in codice di “Rutilius”.

La richiesta di archiviazione
“Non può infatti sottacersi – avevano scritto i magistrati di Caltanissetta nella loro richiesta di archiviazione inoltrata questa estate – come l’intera vicenda che ha avuto come epilogo la celebrazione dei primi due processi per la strage di via D’Amelio sia tra le più gravi, se non la più grave in assoluto, della storia giudiziaria di questo Paese. E non può che conseguentemente essere ritenuta grave ed inqualificabile la condotta di quegli investigatori che hanno significativamente contribuito ad allontanare la verità processuale, costruendo un castello di menzogne che ha condotto a risultati che lasciano davvero attoniti”. Nel documento veniva specificato che con quella istanza di archiviazione “non significa che si sia maturata la convinzione che soggetti come il Candura, l’Andriotta e lo Scarantino possano essere ragionevolmente riusciti, da soli e senza alcun tipo di ausilio, ad imbastire una trama tanto complessa e, in fin dei conti, risultata convincente in più gradi di giudizio”.
Proprio in merito alle prime indagini sul depistaggio, lo scorso 6 luglio era stata addirittura depositata un'interrogazione parlamentare per capire a che punto si fosse arrivati dopo alcuni anni di silenzio. Sullo sfondo rimaneva la scelta degli inquirenti nisseni di aver voluto investigare sulla vicenda giudiziaria “più grave in assoluto della storia giudiziaria di questo Paese” - dopo un iniziale avvio in DDA - attraverso un iter “ordinario” e non di DDA. Tre settimane dopo la presentazione dell'interrogazione parlamentare il Ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva risposto all'on Giulia Sarti anticipando così la notizia della richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta.
Lo scorso mese di settembre Natale Gambino, uno dei condannati nei precedenti processi per la strage di via D'Amelio, accusati ingiustamente da Scarantino, si era opposto alla richiesta di archiviazione per i tre ex poliziotti.

L’archiviazione
Con l'attuale decreto di archiviazione il Gip nisseno Alessandra Giunta cristallizza la propria analisi partendo dalla caratura di Scarantino, Andriotta e Candura definendoli “sfuggenti e ambigui” le cui rivelazioni sarebbero di conseguenza “non genuine”. “Deve evidenziarsi – scrive il giudice – come il contegno processuale tenuto dai dichiaranti sia privo di spontaneità. Solo posti di fronte all’evidenza degli elementi di prova acquisiti dalla procura, hanno dichiarato dopo varie resistenze di aver reso in passato dichiarazioni del tutto false e calunniatorie, cercando di giustificare il proprio operato accusando alcuni funzionari di polizia che, sotto la guida di Arnaldo La Barbera, li avrebbero sottoposti ad indebite pressioni accompagnate da promesse di benefici di varia natura cui non sarebbero stati capaci di sottrarsi”. “Trattasi di dichiarazioni caratterizzate da contraddizioni – specifica quindi la Giunta –, prive della pur minima convergenza, rispetto alle quale oltre a non potersi formulare una prognosi positiva sulla tenuta dibattimentale non si intravede alcun percorso investigativo idoneo a far chiarezza oltre a quelli già svolti dalla procura”. “Occorre poi sottolineare – prosegue sempre il Gip – come le dichiarazioni in esame non siano state rese in maniera unitaria sviluppandosi piuttosto attraverso una progressione in base alla quale è legittimo prospettare dubbi sulla reale genuinità delle stesse dichiarazioni che rivela la natura sfuggente e a tratti ambigua di tali fonti dichiarative che in passato hanno supportato la celebrazione di giudizi oggi sottoposti al processo di rivisitazione alla luce della collaborazione di Gaspare Spatuzza e che adesso dovrebbero assunte quale piattaforma probatoria sulla cui base si dovrebbe sostenere l’accusa nei confronti degli odierni indagati”.
Certo è che la stessa Procura di Caltanissetta nella precedente richiesta di archiviazione si era detta convinta che “sulla intrinseca fragilità psicologica di questi soggetti (i falsi pentiti, ndr), si sia innestata la condotta spregiudicata di chi conduceva le indagini e che, attraverso un perverso gioco di allusioni, promesse e, forse, minacce, si sia imbastita una trama funzionale a dare sostanza a certezze nascenti in maniera preconcetta dalla piega originaria”. Gli inquirenti avevano quindi ritenuto “innegabile” che “tutti i protagonisti della vicenda” avessero “subìto un insistente pressing investigativo”. Di fatto i magistrati avevano constatato amaramente come non fosse giunto “alcun contributo utile” da parte di “quegli appartenenti alle Istituzioni che il dott. Borsellino e gli agenti di scorta periti nell’eccidio avevano servito con dedizione e senso del dovere fino all’ultimo giorno”. Vere e proprie reticenze da parte di chi “con ragionevole certezza appare perfettamente a conoscenza del reale svolgimento dei fatti”. “Un esito infausto di un eventuale vaglio dibattimentale – concludevano i pm nella loro richiesta di archiviazione – precluderebbe, di fatto, la possibilità di scandagliare utilmente fatti che, laddove accertati, sarebbero di inaudita gravità, così compromettendo definitivamente la possibilità di comprendere appieno le ragioni sottostanti alla creazione di quelle false verità processuali”.
In una sorta di collegamento virtuale con l'istanza della Procura - riferendosi alla questione del depistaggio - il Gip sottolinea infine che se ci fu, “fu posto in essere da non meglio identificate posizioni di potere per finalità da individuare”. Fine primo atto.
Ripartire da nuovi elementi investigativi per individuare - una volta per tutte - quelle “posizioni di potere” che, con multiple complicità, hanno realizzato un vero e proprio depistaggio di Stato resta più che mai un dovere morale.

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