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di Miriam Cuccu

Quando una città fa da specchio al Paese: presentazione del libro “Catania bene” a Palermo

“Un libro scritto da un magistrato competente, ma soprattutto da un uomo appassionato di giustizia e innamorato del suo ruolo di servizio e della sua terra”. Antonino Di Matteo, pm di Palermo, descrive così il libro “Catania bene” scritto dal collega e amico Sebastiano Ardita, attualmente magistrato a Messina, durante la presentazione organizzata alla libreria Mondadori di Palermo e moderata dallo scrittore e giornalista del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco.
“Con coraggio ed analisi lucida, a volte spietata – dice il pm – Ardita racconta i difetti, le violenze, le deviazioni, le miserie della sua terra ma anche dell’Italia, che continuano a caratterizzare in maniera inaccettabile il presente. Non si rassegna a vedere questo paese sempre più contaminato dalla mentalità mafiosa. Questo libro ha tanti grandi meriti: il primo è il contributo alla memoria in un paese che la sta perdendo. Non possiamo accettare senza indignarci che la scorsa legislatura la Commissione antimafia, dopo aver dedicato tanto impegno in decine di audizioni sulla vicenda della trattativa, non abbia avuto la forza di arrivare a delle conclusioni di nessun tipo con un documento finale. Il secondo merito è che il libro parte da Catania, ma è la foto di quello che è la mafia in questo momento in Sicilia e nell’intero paese. La mafia di oggi parla la lingua di Nitto Santapaola, cerca il rapporto con le istituzioni, punta agli affari e non attacca lo Stato per ottenere vantaggi, il suo obiettivo è far dimenticare le stragi”.


Nel volume di Ardita, sottolinea l’avvocato Fabio Repici, “vi è la centralità di Catania nelle vicende di Cosa nostra e nelle dinamiche nazionali della criminalità organizzata” citando come episodio emblematico “la mancata cattura del capomafia latitante Benedetto Santapaola, che consente di verificare lacune e inerzie da parte di apparati statali che hanno prodotto benefici ai capimafia”. Santapaola, aggiunge Giorgio Bongiovanni, direttore della rivista Antimafia Duemila, “è riuscito a rimanere latitante grazie alla protezione dello Stato. Oltre la trattativa si è verificato un patto tra Cosa nostra della Sicilia orientale e Stato italiano, rappresentato da vertici regionali della Democrazia cristiana e del Partito socialista. Prima dell’arresto sappiamo che Marcello D’Agata, braccio destro di Santapaola, fece una soffiata perché il boss poteva essere ucciso. La storia di Cosa nostra catanese non è disgiunta da quella palermitana e lo dimostrano particolari come la grande intuizione di Giovanni Falcone, il quale deduce che l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa sia stato suggerito dai catanesi”. Fu proprio dalla Chiesa, intervistato da Giorgio Bocca quando era prefetto di Palermo, ricorda Repici, “a descrivere le mutazioni interne di Cosa nostra e rassegnando parole significative sul potere del gruppo Santapaola e sulle sue proiezioni imprenditoriali, quei grossi imprenditori che il giornalista Giuseppe Fava definì ‘i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa’ (Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo, ndr). Dalla Chiesa spiegò come perfino Cosa nostra palermitana avesse dovuto abbozzare all’intervento sempre più massiccio negli appalti pubblici del capoluogo. Quell’intervista creò tanti sconquassi a Catania, dove la mafia era riuscita a mettere le mani anche sul quarto potere, l’informazione. La presenza mafiosa catanese è stata un po’ il modello al quale poi si ispirarono i ‘viddani’ di Corleone. Non c’è dubbio – continua Repici – che la mafia trattativista di Provenzano abbia trovato una sintonia con quella di Santapaola, saldando una strategia di alleanze interne a Cosa nostra. La descrizione che fa Ardita di Catania e della mafia 2.0 è anche una rappresentazione profetica di quello che sarà” perché “ciò che non avrà fine in tempi brevi è quel fenomeno di mafiosizzazione di certi apparati”.

“Abbiamo creato i ceppi resistenti agli antibiotici perchè abbiamo sospeso la cura a metà – spiega il magistrato Piercamillo Davigo, che negli anni Novanta fece parte del pool Mani Pulite – In Italia per vent’anni è stato fatto l’impossibile per impedire indagini e processi su corruzione, mentre negli ultimi due o tre anni abbiamo assistito a delle finte leggi. La sensazione è che non si voglia fare sul serio di fronte ad una corruzione seriale e diffusiva, che viene invece trattata come un caso singolo. È quando non vedo più omicidi di mafia – prosegue il magistrato – che mi preoccupo perché tutti si allineano. Negli ultimi mesi abbiamo affrontato il problema della mafia silente, caratteristica dei processi di ‘ndrangheta al Nord, dove è stata creata una struttura analoga a quella calabrese. È un problema serio, nelle regioni settentrionali, l’assenza di anticorpi, perché chi si associa non pensa che da quella corsa non scenderà più”. Infine, si chiede Davigo: “Perchè vengono uccisi solo in Italia i magistrati? Perchè altrove la politica fa il suo mestiere ma da noi no, e allora si attaccano gli avamposti più temerari”. Oggi più di allora i rischi sono tanti. Di Matteo, magistrato all’interno di uno degli avamposti più temerari, la Procura di Palermo, allerta il pubblico in sala: “Corriamo il rischio che anche in magistratura la perdita della memoria possa provocare effetti dannosi, vogliono attaccare le garanzie dei cittadini attraverso la compressione delle indipendenze e dell’autonomia della magistratura, e alcune volte avverto il pericolo che si facciano troppe valutazioni di opportunità delle scelte piuttosto che di doverosità. Molte colpe sono anche nostre – riflette il pm – quando abbiamo permesso la degenerazione del sistema delle correnti trasformandolo in sistema di spartizione dei posti direttivi. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare questo andazzo”. Il pubblico ministero minacciato di morte si dichiara fortemente preoccupato anche per “alcune strumentalizzazioni dell’antimafia, da parte di alcuni politici e associazioni, perfino di magistrati. Ho una paura – confessa – noto che è molto attivo un movimento che vuole far credere che mafia e antimafia in fondo siano la stessa cosa, dei centri di interesse e di potere, così si alimenta l’eterno alibi per non impegnarsi. Ma l’antimafia vera c’è, e parte dai giovani studenti, dai cittadini comuni”.

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