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alfano beppe big0Il pentito Carmelo D’Amico parla anche di un basista a piede libero
di Aaron Pettinari
“So chi è il mandante e so chi è l'esecutore dell'uccisione del giornalista Beppe Alfano (in foto). Non posso dire di più perché ci sono indagini in corso”. Questo aveva dichiarato il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, lo scorso maggio, all'udienza del processo trattativa Stato-mafia. Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Francesco Romito, legale dell’imputato Giuseppe De Donno, il pentito aveva anche aggiunto che “non sono stati i servizi segreti”. Oggi sulle pagine della Gazzetta del Sud viene svelato il nome del killer, Stefano “Stefanino” Genovese, attualmente in carcere perché deve scontare una pena definitiva a poco più di 26 anni per l’uccisione del “fraterno” amico Carmelo Martino Rizzo, assassinato il 4 maggio 1999, in un’area di sosta a Lauria sull’autostrada Salerno Reggio Calabria.
L'ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto, ha parlato dell'omicidio Alfano per la prima volta il 23 luglio 2014 rispondendo alle domande dei magistrati della Dda di Messina Vito Di Gregorio ed Angelo Cavallo, per poi tornare sull'argomento il 30 settembre, il 15 ottobre ed il 27 novembre 2014. “Quella sera, 8 gennaio 1993, - ha raccontato il pentito - mi trovai a passare sopra il ponte di Barcellona direzione Palermo. Io mi trovavo a bordo della mia Fiat Uno colore verde e vidi Stefano genovese che si trovava a piedi e che indossava un cappellino. Specifico che io ero solo in auto. Una volta incontrato genovese gli domando: 'che cosa stai facendo, sei rimasto a piedi, hai bisogno?'. Genovese per tutta risposta mi disse: 'Vattinni subito che staiu travagghiannu' e non aggiunse altro. Io capii che Genovese doveva compiere un omicidio anche perché conoscevo la sua abitudine di uccidere le persone agendo in solitaria”. Quindi D'Amico ha riferito agli inquirenti che tra le 22.30 e le 23 è tornato a transitare sul “ponte”, perché stava per rientrare a casa, notando in lontananza, nei pressi del luogo dove in precedenza avrebbe visto Genovese, un’auto circondata da carabinieri e polizia (“ho tirato dritto ed ho realizzato che Stefanino Genovese aveva commesso il delitto”). Ma D'Amico, interrogatorio dopo interrogatorio, avrebbe aggiunto anche ulteriori particolari come il fatto che Genovese, con il quale il pentito asserisce di aver commesso un altro omicidio, avrebbe avuto all’epoca il possesso di una “pistola calibro 22”. Non solo. L'ex killer della famiglia “Barcellonese” ha anche parlato dell’esistenza di un complice che, nascosto nell’auto di Stefano Genovese, parcheggiata vicino alla stazione degli autobus, avrebbe fatto da basista per coprire la fuga. Quest'uomo sarebbe ancora a piede libero. 
Nel ruolo di mandante, invece, viene confermato il ruolo di Giuseppe Gullotti: "Di Salvo ebbe a confermarmi che il mandante di quell’omicidio era stato Pippo Gullotti. Infatti, in quella occasione ricordo che Sem Di Salvo mi disse testualmente: ‘Gullotti cumminau un macelli cu st’omicidio che ci fidi fari’”. Tutte le dichiarazioni del collaboratore di giustizia sono confluiti nel fascicolo “Alfano ter” aperto dalla Procura di Messina. Per l’omicidio del giornalista già sono stati condannati in via definitiva Giuseppe Gullotti come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale dell’agguato ma sul caso restano aperti tanti aspetti a cominciare dai motivi che hanno portato Cosa nostra a compiere questo omicidio eccellente. D'Amico ha riferito di aver saputo da Salvatore “Sem” Di Salvo che il giornalista era uno che “parlava assai”. Quel che è certo è che Alfano era un cronista con la “C” maiuscola che conduceva inchieste su mafiosi latitanti, politici, amministratori locali e massoneria. 




Il mistero della Colt 22
Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è poi il mistero della Colt 22 mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. 
E' sempre l'avvocato Repici a scoprire l'esistenza di un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. Di quelle riunioni, inoltre, vi è anche traccia nell’agenda del generale Mario Mori dove il 27 febbraio 1993 è registrato il nome storpiato “Canari” proprio accanto a quello di Di Maggio. Il 5 aprile, poi, la voce di Nitto Santapaola viene intercettata in una pescheria di Terme Vigliatore ed il giorno dopo Terme VIgliatore diventa teatro di un inseguimento con protagonisti i militari del Ros guidati da Sergio De Caprio, alias Ultimo. Questi avevano scambiato Fortunato Imbesi, figlio dell’imprenditore proprietario della colt 22, per il boss allora latitante Pietro Aglieri. In quell’incredibile caccia all’uomo, ricostruita nel dettaglio al processo contro Mori ed il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano nel 1995, Ultimo arrivò pure a sparare al giovane Imbesi.

Latitanza Santapaola

Un filone d'inchiesta sull'omicidio Alfano guarda persino alla latitanza nel barcellonese del boss catanese Nitto Santapaola. Secondo l'ipotesi investigativa Alfano sarebbe venuto a conoscenza della presenza del capomafia in quei luoghi. La stessa figlia del giornalista, Sonia Alfano, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali della presenza di Santapaola a Barcellona.
Canali, sentito lo scorso giugno al processo trattativa Stato-mafia, di fronte alla Corte d'assise di Palermo ha raccontato che “Beppe Alfano mi disse che secondo lui il boss catanese Nitto Santapaola trascorreva la sua latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto. Questo avvenne intorno all’otto dicembre 1992. Eravamo rimasti che, al mio rientro, mi avrebbe dato informazioni più precise. Dovevamo incontrarci intorno tra il 9 e il 10 gennaio 1993, a pranzo”. Secondo Canali la notizia sulla latitanza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, Beppe Alfano ebbe modo di condividerla anche con i Carabinieri e la Polizia. E proprio sulla presenza del boss catanese nel barcellonese anche lo stesso D'Amico aveva fornito delle indicazioni.
“Attendiamo che le dichiarazioni del pentito barcellonese siano riscontrate e verificate dall'attività d'indagine della Dda di Messina – commenta l'avvocato della famiglia Alfano, Fabio Repici – Se quanto da lui detto sarà accertato è chiaro che andrebbe riscritta una parte della vicenda dell'omicidio Alfano e, soprattutto, andrebbero approfondite le ragioni del depistaggio che è stato messo in atto al momento delle dichiarazioni del pentito Maurizio Bonaceto (primo accusatore del killer Antonino Merlino, condannato definitivamente per il delitto, ndr). Inoltre c'è un'ulteriore particolarità. D'Amico accusa Stefano Genovese che era un soggetto ancora più vicino a Giuseppe Gullotti (condannato a trent'anni come mandante del delitto, accusato da uno stuolo di pentiti, ndr) che assieme all'avvocato Rosario Pio Cattafi si trovava al vertice dell'organizzazione criminale barcellonese”.

“D'Amico e Bonaceto – prosegue l'avvocato - fanno un racconto simile dove entrambi dicono di aver visto il killer transitando nei pressi dei luoghi dove si è poi consumato il delitto. Tuttavia è chiaro che D'Amico, se attendibile, porta ad una sorta di certificazione della falsità di quanto dichiarato in precedenza dallo stesso Bonaceto. E' lecito quindi domandarsi il perché si sia reso necessario depistare e far individuare un killer diverso. La risposta potrebbe trovarsi proprio nella copertura della presenza di Santapaola nel barcellonese. Che Alfano sapesse ciò è oggi confermato dallo stesso pm Canali ma c'è anche un altro dato che meriterebbe di essere approfondito. Aurelio Salvo, cognato di Domenico Orifici, tra i favoreggiatori di quella latitanza di Santapaola nelle zone di Barcellona Pozzo di Gotto e Terme Vigliatore, aveva anche un immobile propri a Barcellona in via Tento. Questo si trovava a trenta metri dalla casa di Alfano ed è lo stesso luogo dove poi venne arrestato il latitante Giuseppe Gullotti. E' possibile che è lì che Santapaola ha trascorso parte della sua latitanza?”.

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