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montana-antiochia-cassaradi Jole Garuti* - 6 agosto 2015
Sono passati trent’anni da quel 6 agosto terribile, in cui sono stati uccisi in via Croce Rossa il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, ma il ricordo di quella tragedia scuote ancora le coscienze e le menti. L’uccisione del commissario Beppe Montana a Porticello, il 28 luglio, era stato il segnale che anche la vita del vicequestore Ninni Cassarà stava per finire. La Questura era in subbuglio per la morte di Beppe Montana, colui che aveva creato la Squadra Catturandi, convinto com’era – a ragione – che i latitanti non fossero all’estero ma rimanessero abbarbicati al territorio in cui avevano sempre vissuto e dove avevano acquisito capacità intimidatoria e quindi potere. Beppe con la sua allegra vitalità era molto amato dai suoi uomini, con i quali viveva ogni ora della giornata. Per stanare i latitanti considerava fondamentale stare nelle strade, partecipare alle feste, conoscere i frequentatori dei bar e mescolarsi tra la gente, rigorosamente in borghese e con gli orecchi ben aperti per captare segnali, mentalità, notizie interessanti.

Gli uomini della Catturandi, giovani e simpatici, si facevano voler bene da tutti. Basti ricordare che il funerale di Roberto fu seguito da un gruppetto di ragazzini, poco più che bambini, in lacrime per la morte del loro amico ‘sbirro’ che tutte le mattine li portava al bar a fare colazione.
La rabbia per la morte del commissario Montana innescò un’altra tragedia. La ricerca dei colpevoli portò infatti a un calciatore del Pro Bagheria molto ben voluto dagli abitanti di Porticello e dei quartieri popolari di Palermo, Salvatore Marino. Si presentò in Questura con l’avvocato ma andò all’antirapine, non alla Catturandi. Gli trovarono in casa 34 milioni avvolti in un giornale con la notizia della morte di Montana, lo interrogarono brutalmente, lo torturarono fino a provocarne la morte. Cassarà non era in questura quella notte, ma venne detto che era sua la responsabilità della morte di Marino. Questa atmosfera plumbea avvolge Roberto Antiochia, arrivato sconvolto da Roma, dov’era in ferie, per i funerali dell’amico fraterno Beppe. Lui si rende conto della situazione, telefona a casa e racconta che Ninni è in pericolo, che non gli hanno neppure assegnato le indagini sulla morte di Montana, che tutti stanno andando via per ferie o trasferimento, che è rimasto solo. I suoi lo supplicano di tornare, ma lui insiste per rimanere a fargli da scorta, volontariamente, anche se Cassarà non vuole essere scortato per la consapevolezza di essere ormai ‘un morto che cammina’, come si erano detti qualche tempo prima lui e Beppe. Roberto è irremovibile, dice a sua
madre: “Se gli succedesse qualcosa e io non avessi fatto il possibile per proteggerlo non me lo potrei mai perdonare”.
Così, con una piccola bugia a Ninni (“Natale Mondo mi ha invitato ad andare a mangiare con lui, l’accompagnamo a casa, dato che è sulla nostra strada”) si avviano insieme all’appuntamento con le bocche di fuoco dei Kalashnikov che avrebbero sputato su di loro quasi duecento colpi.
L’isolamento, l’emarginazione, la solitudine di Cassarà erano stati preparati abilmente. Era stata fatta circolare la voce che Montana e Cassarà in una riunione di poliziotti avevano detto che i boss Pino Greco e Mario Prestifilippo, responsabili di molti omicidi e soprattutto della morte dell’agente Calogero Zucchetto, amico carissimo di Ninni, non dovevano essere presi vivi. Nella riunione c’era ovviamente chi poi era andato a riferirlo agli interessati. Ma era una menzogna macroscopica, sia perché il senso dello Stato e del dovere dei due poliziotti non avrebbe mai permesso una simile ipotesi, sia perché Cassarà e i suoi agenti sapevano che nella Questura c’erano delle talpe. Infatti Roberto aveva detto al telefono a sua madre “le cose importanti ce le scriviamo su bigliettini che poi stracciamo, perché qui anche i muri hanno orecchie” . Non per nulla la Squadra mobile era allora diretta da Ignazio D’Antone, poi condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’è un elemento non ancora chiarito, di quel 6 agosto.
Come hanno fatto i mafiosi a sapere il momento esatto in cui Cassarà sarebbe entrato nel mirino dei loro Ak-47? Loro erano pronti, avevano preparato l’agguato dentro un palazzo posto di fronte al portone di Ninni, ma il vicequestore era prudente. Dopo la morte di Montana non era andato a casa per giorni, dormendo su un lettino alla Mobile, come faceva anche Roberto. Oppure telefonava che andava a casa e poi non lo faceva e aspettava la notte per andare a salutare la moglie e dare un bacio ai figli. Un vita da bandito, è stato detto, lui che i banditi li combatteva.
Qualcuno ha ipotizzato che i mafiosi avessero disposto lungo il tragitto dalla Questura a via Chiesa Rossa delle automobili civetta che si passavano via radio il messaggio che stava arrivando l’Alfetta bianca del Vicequestore. Ma non potevano stare lì intere giornate. E’ più probabile che ci sia stata una talpa che dopo la telefonata di Ninni alla moglie, fatta dalla Questura, abbia fatto sapere che Cassarà stava finalmente arrivando a casa.
Nell’estate 1985 si stava organizzando il maxiprocesso e preparando l’aula bunker. Dopo l’uccisione di Montana e Cassarà, Falcone e Borsellino furono catapultati
all’Asinara per completare in sicurezza la documentazione. Nel rapporto sui 162 Cassarà aveva contribuito a inserire molti nomi importanti, come quello di Michele Greco, chiamato ‘il papa’ . Non è certamente un caso che anche la sua agenda, dopo la sua morte, sia sparita dai cassetti del suo ufficio, come accadde per quella di Borsellino.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Infine, vale la pena di ricordare che sia Bruno Contrada che D’Antone, entrambi condannati per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ hanno fatto carriera con la stessa trafila:​dalla S​quadra Mobile di Palermo alla Criminalpol, all’ Alto commissariato antimafia, al Sisde. Come è stato possibile?
Forse il processo sulla trattativa tra Stato e mafia può riuscire a rendere chiaro anche questo.

* Direttrice Centro studi SAO (Saveria Antiochia Osservatorio antimafia)

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