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rostagno-mauro-web11di Aaron Pettinari - 29 luglio 2015
Depositate le motivazioni della sentenza “sfidava le trame dei boss ecco perché fu ammazzato”

Fu la mafia ad uccidere a colpi di fucile Mauro Rostagno, il 26 settembre 1988, a pochi passi dalla comunità Saman in contrada Lenzi. Da quando lo scorso 15 maggio 2014 sono stati condannati all'ergastolo il killer Vito Mazzara ed il boss trapanese Vincenzo Virga è stato fissato questo punto fermo. Oggi, leggendo le tremila pagine di motivazioni della sentenza scritta dal Presidente della Corte d'Assise Angelo Pellino e dal giudice a latere Samuele Corso, depositate nei giorni scorsi, si comprendono le ragioni del delitto.
“L’omicidio di Mauro Rostagno - scrivono i giudici - volto a stroncare una voce libera e indipendente, che denunziava il malaffare, ed esortava i cittadini trapanese a liberarsi della tirannia del potere mafioso, era un monito per chiunque volesse seguirne l’esempio o raccoglierne l’appello, soprattutto in un area come quella del trapanese dove un ammaestramento del genere poteva impressionare molti”.
A ventisette anni di distanza dalla morte del giornalista-sociologo-attivista di Lotta Continua viene fatta chiarezza sulle modalità dell'omicidio e viene ricostruito il movente che ha portato la mafia ad agire in prima persona.
A confermare il movente e le responsabilità del capomafia Vincenzo Virga e al suo sicario prediletto Vito Mazzara, incastrato anche da una impronta genetica ritrovata su un fucile, sono diversi pentiti.
“Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia - si legge nelle motivazioni della sentenza - dopo una doverosa scrematura di quelli meno affidabili, convergono su una duplice indicazione: l’omicidio fu deciso dai vertici di Cosa Nostra trapanese o comunque con il loro assenso e dopo che fu vanamente esperito il tentativo di indurre il giornalista a più miti consigli con pressioni e minacce per interposta persona”.
E poi ancora: “Bisognava mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere”.
Proprio il contesto trapanese di quegli anni viene ricostruito dal Presidente della Corte d'Assise: “La torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale”.
“Ne scaturisce - continua Pellino - una rete di relazioni pericolose, fatte di intese e scambi di favori reciproci e protezioni. Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici”.
Rostagno, che già era “socialmente impegnato” nell'attività di recupero di persone tossicodipendenti all'interno della comunità Saman, creata con Ciccio Cardella, dava fastidio per le sue molteplici inchieste e quell'opera di “sensibilizzazione della coscienza civile sul temi della corruzione, della lotta alla mafia e al traffico di droga. Andava quindi messa in conto non solo un moto di reazione e dell’opinione pubblica, ma soprattutto un possibile inasprimento dell’azione repressiva dello Stato”.
Davano fastidio quegli editoriali su Rtc così come il suo lavoro d'inchiesta “sommerso”, come rivelato da alcuni suoi appunti, sulla massoneria deviata ed il “Circolo Scontrino”. Ed è proprio questo uno degli aspetti gravi che fa presagire come la morte di Rostagno fosse “comoda” anche per altri poteri.
Per i giudici proprio quel lavoro d’inchiesta del sociologo torinese “attesta la profondità e l’acutezza del suo sforzo di approfondimento e di studio del fenomeno mafioso come concrezione violenta di un sistema di potere di cui egli indagava, con metodo scientifico e da sociologo qual era le radici strutturali, ma senza trascurare l’immersione nell’attualità e nella concretezza del fenomeno criminale. E con questa profondità visiva che gli veniva dal possesso degli strumenti e delle attitudini di studioso egli stava approfondendo una sua personale ricerca dei retroscena dei più eclatanti delitti che avevano insanguinato la provincia trapanese negli ultimi anni, nella convinzione che vi fosse un filo che li legava gli uni agli altri, rimontando indietro fino alla strage di via Carini, all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, intravedendo nell’omicidio Lipari un delitto di rilevanza strategica, rivelatore di una competizione in atto con una nuova mafia che contendeva con crescente successo alla vecchia guardia l’egemonia”. Tra i lavori svolti da Rostagno, vengono evidenziate nelle tremila pagine le “autonome inchieste giornalistiche che miravano a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale come era all’epoca la rete di circuiti massonici che faceva capo al Centro studi Antonio Scontrino a Trapani”. “Su questo versante - continua la motivazione della sentenza – Rostagno poteva essere una minaccia, dopo che aveva scoperto gli strani traffici che avvenivano a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani”.

Molteplici interessi e 007
Parlando di quei “sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale” i giudici affrontano una questione chiave: “Se Cosa Nostra sapeva che i servizi segreti, certamente annidati anche all’interno degli apparati che, in ipotesi, avrebbero dovuto attuare la paventata risposta repressiva dello Stato, da tempo attenzionavano Rostagno non come personalità da proteggere, ma come target, cioè come obbiettivo ostile da sorvegliare... Se davvero tutto ciò era a conoscenza dei capi mafia locali - e non era difficile saperlo, considerato il sistema di vasi comunicanti che permetteva la circolazione di informazioni nei diversi ambienti collegati da quel sistema - allora non occorre immaginare chissà quali indicibili accordi collusivi per concludere che i vertici dell’organizzazione mafiosa ben potevano presumere di poter contare, se non su un’attiva complicità, quanto meno su una proficua acquiescenza degli apparati repressivi e di sicurezza dello Stato, ove si fossero determinati a mettere in atto il proposito di sopprimere Rostagno”. Il Presidente Pellino si spinge anche oltre: “Tale acquiescenza, unita all’interesse dei servizi a non bruciare rapporti di collaborazione e di scambio già avviati, poteva anche lasciar prevedere interventi utili ad addomesticare le indagini, evitando che si andasse a fondo sulla pista mafiosa. Naturalmente una simile ricostruzione, in mancanza di elementi certi in ordina all’effettiva instaurazione di proficui rapporti di collaborazione tra Cosa Nostra e alcuni settori degli apparati di sicurezza, sarebbe solo ipotetica e congetturale. Se non fosse per il fatto che, come vedremo, i depistaggi vi furono davvero. E se per qualcuno può concedersi che sia stato involontario e inconsapevole, per altri aspetti e momenti appare assai più difficile negarne la volontarietà, o dubitarne”.

I depistaggi
Proprio i depistaggi condotti sul caso vengono affrontati con accuratezza. Viene messo in evidenza come, quando ancora il corpo di Rostagno era riverso sul volante della sua Fiat Duna, scattarono subito “colpevoli ritardi e inspiegabili omissioni” da parte di chi doveva indagare.
Secondo la corte vi è stata “la soppressione o dispersione di reperti, la manipolazione delle prove e reiterai atti di oggettivo depistaggio”. E' cosa nota che dalla sede di Rtc scomparve la videocassetta su cui Rostagno aveva scritto “Non toccare”. Lì, probabilmente, c’era il suo ultimo scoop, la registrazione con le riprese del presunto traffico d'armi nei pressi della pista d'atterraggio di Kinisia.
Un elemento di prova scomparso così come non si ritrovano le lettere che Rostagno si scambiava con il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, il memoriale sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, o la partizione del proiettile calibro 38 estratto dal corpo del sociologo durante l’autopsia.
Tra i documenti svaniti nel nulla c'è anche una relazione degli 007 del centro Scorpione, una delle 5 basi della VII divisione del Sismi, da cui dipendeva “Gladio”, che riguardava il centro Saman.
I giudici sottolineano anche “l'inconsistenza delle piste alternative” che avevano cercato di classificare l’omicidio Rostagno come una “questione di corna” o come un delitto maturato all’interno della Saman coinvolgendo elementi della sua stessa famiglia, viene resa giustizia mettendo nero su bianco che la pista mafiosa, seguita inizialmente dalla polizia e subito abbandonata dai carabinieri che la sostituirono nelle indagini, era invece quella giusta. “L’indagine sul movente dell’omicidio che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale - scrive Pellino - ha consentito di misurare tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e l’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, è emerso come Cosa Nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di Rostagno. E il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose”.
“Il suo sforzo - continuano i giudici - di ridisegnare la mappa degli organigrammi del potere mafioso e di individuare le figure emergenti che potevano avere preso il posto degli esponenti della vecchia guardia di Cosa Nostra, decimati da arresti ma ancora di più dai colpi messi a segno dalle cosche antagoniste che nuovo slancio traevano dalla loro capacità di inserirsi nella gestione del narcotraffico o in altre redditizie attività”.
Nonostante la giustizia resa ai familiari di Rostagno a 27 anni di distanza, per ora con un giudizio di primo grado, resta tanta amarezza che cresce se si considera che la corte ha anche trasmesso alla procura antimafia di Palermo le deposizioni di dieci testimoni, tra cui i due sottoufficiali che fecero le prime indagini (il carabiniere Cannas e il finanziere Voza, ndr) che avrebbero detto il falso in sede processuale. 

Foto © A3/Contrasto

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