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04Fotogallery e audio integrale
di Lorenzo Baldo - 21 aprile 2015

L’incontro con una scuola pugliese all’interno del progetto “Mafia… in itinere”
Palermo. Eppure esiste. C’è la scuola che (nonostante tutto) fa la lotta alla mafia. E’ il caso del liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Bisceglie (Bt). Un team di insegnanti capitanati dai professori Tatulli e Papagni realizza il progetto “Mafia… in itinere” e porta gli studenti a conoscere le storie delle vittime delle mafie, e soprattutto le storie di chi continua a consacrare la propria vita allo Stato. Quello vero. Nell'Aula Magna della ex facoltà di Giurisprudenza decine di studenti ascoltano l’appassionata testimonianza del prof. Antonio Scaglione, figlio del magistrato Pietro Scaglione ucciso dalla mafia il 5 maggio 1971 (era presente anche il figlio dell’agente Antonio Lorusso), già preside della medesima facoltà. E’ un viaggio nel passato che si intreccia con l’attualità della condanna a morte da parte di Cosa Nostra nei confronti del pm Nino Di Matteo. Accanto a lui è seduto l’ex magistrato, ora avvocato, Antonio Ingroia. Anche su di lui pendono pesanti minacce mafiose. E non solo. Sullo sfondo compaiono le “entità esterne” che costituiscono l’ossatura di quei “sistemi criminali” di cui Ingroia e Di Matteo sono profondi conoscitori. E’ lo stesso Ingroia a esordire ricordando che l’impunità della mafia è strettamente legata ai suoi rapporti con la politica e le istituzioni. Il suo racconto ripercorre gli anni trascorsi alla Procura di Palermo, dal ’92 al 2012. L’ex pm individua le tre fasi nelle quali muta il fenomeno mafioso e di conseguenza la sua conoscenza.
Vent’anni nei quali la sua consapevolezza delle ingerenze “esterne” a Cosa Nostra nella realizzazione delle stragi acquisisce sempre di più elementi di riscontro. Sono gli anni dell’inchiesta sui “sistemi criminali” che purtroppo viene archiviata ma che getta le basi per quello che sarà il processo sulla trattativa Stato-mafia. Ingroia affronta quindi il nodo dell’economia criminale dove il confine tra lecito e illecito è del tutto sfumato. Gli attacchi violenti, strumentali - del tutto bipartisan - (subiti in passato, ma anche nel presente) ritornano nelle parole dell’ex procuratore aggiunto di Palermo: per lui e per chi ha osato indagare sui legami tra mafia e Stato esiste una sorta di fatwa politico-mafiosa. Che non ha scadenza, e che attende solo il momento migliore per poter essere messa in pratica attraverso l’extrema ratio. Che di fatto avviene quando lo Stato isola e delegittima chi mette in pratica il principio della legge uguale per tutti. Ieri come oggi le storie si ripetono. Ingroia mette a nudo uno Stato che ha il volto di un Giano-bifronte. Da una parte i veri servitori, dall’altra lo Stato-mafia che prepara il terreno per gli assassinii dei suoi figli migliori. Siamo un Paese dalle “molteplici trattative”, spiega l’ex componente del pool di Palermo che traccia una linea di continuità a partire dallo sbarco degli alleati nel ’43 così da comprendere il “legame” di Giulio Andreotti con gli Stati Uniti. “Lo Stato ha sempre scelto di trattare con la mafia”, sottolinea senza tergiversare. Per replicare ai “giustificazionisti” della trattativa Stato-mafia, che continuano ad attaccare il processo sulla trattativa, Ingroia introduce un concetto semplice e oggettivamente riscontrato a livello storico: “trattare con la mafia rafforza la mafia stessa e questo costituisce reato”.


Per Ingroia è del tutto plausibile che Paolo Borsellino sia stato ucciso “sull’altare della trattativa” posta in essere da quel Giano Bi-fronte artefice dei peggiori depistaggi. Per quanto riguarda la strage di Capaci, Ingroia ritiene di avere “meno certezze” in merito alle ingerenze “esterne”, ma di essere ugualmente convinto che le finalità di quell’eccidio rientrino comunque all’interno di “una medesima cornice” che vede sullo sfondo il patto scellerato tra mafia e Stato. “Oggi gli effetti della trattativa si sono realizzati – sottolinea –. La mafia convive con lo Stato e si è fatta Stato. E lo Stato si è fatto mafioso. Si è realizzato inoltre un processo di saldatura del sistema criminale della mafia e del sistema criminale della corruzione”. Ma è anche “l’irresponsabilità” e la colpevole “intenzionalità” del Csm che ha bocciato la nomina di Nino Di Matteo alla Dna a finire sotto i riflettori. Quella stessa responsabilità che grava sulla coscienza dell’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che “ha avuto un ruolo deleterio rispetto alle indagini sulle stragi”. “Fino a quando non avremo una vera politica antimafia non avremo una magistratura che potrà fare davvero dei passi avanti su quella stagione che costituisce la vergogna della nostra storia”, afferma con profonda amarezza l’ex pm. Il ricordo di quel 5 maggio 1971 riaffiora nel primo intervento del pm Di Matteo. Quella data segna uno spartiacque nella sua vita e lo illumina sul “senso della drammaticità di quello che viveva la Sicilia”. Per rispondere agli attacchi nei confronti di Ingroia (in merito al suo passaggio dalla magistratura alla politica), Di Matteo rivendica “l’autonomia e l’indipendenza” del suo ex collega che “ha pagato con il dileggio e l’isolamento” rimanendo comunque “un uomo di legge appassionato della verità e della giustizia”. Quella stessa passione civile che, secondo il pm del pool, deve far parte dei principali obiettivi di chi vuole diventare magistrato. E’ un appello accorato quello che il magistrato palermitano rivolge ai ragazzi, l’esortazione è diretta: non restate indifferenti nei confronti di un potere criminale “che condiziona la vita dell’intero Paese”. Il contrasto all’indifferenza che sfocia nella più becera complicità diviene quindi prioritario. Per narrare la storia di quei politici che hanno condizionato in negativo la nostra storia vengono citate le due sentenze della Cassazione nei confronti di Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Per quest’ultimo, attualmente in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, c’è l’aggravante di aver fondato il partito di Forza Italia il cui leader, Silvio Berlusconi, discute amabilmente di riforme con l’attuale Premier Matteo Renzi. “Cosa Nostra è anche e soprattutto costituita dai rapporti con la politica, l’imprenditoria, l’economia e le istituzioni”, sottolinea Di Matteo. Che ribadisce ulteriormente la necessità di combattere il “metodo mafioso” che ipoteca il nostro futuro. Per quanto riguarda le “causalità” delle stragi di Capaci e via D’Amelio, il pm evidenzia che “in tutti i delitti eccellenti commessi da Cosa Nostra è accertato che la stessa Cosa Nostra non ha mai agito senza valutare le conseguenze che quei delitti avrebbero avuto ad alti livelli”. Quando la mafia agisce, quindi, lo fa “nella piena consapevolezza” che un determinato delitto è “gradito ad ambienti di potere”. “Un dato certo lo troviamo nella sentenza per la strage Chinnici”, specifica il pm. “Il mandato di fare quella strage viene dato a Totò Riina dai cugini Salvo, la cui potenza economica di allora li portava tra l’altro ad essere vicinissimi all’ala andreottiana della Dc”. Per parlare del tema nodoso della trattativa, Di Matteo cita di seguito la sentenza irrevocabile di Firenze per le stragi del ’93, così come altre sentenze delle Corti di Assise di Firenze e di Caltanissetta che “ci impongono di andare avanti per trovare i mandanti esterni di Cosa Nostra, i loro complici…”. “Ogni volta che lo Stato ha cercato di colloquiare con la mafia l’ha rafforzata, anche perché uno Stato ricattato cederà sempre di più”. “La consapevolezza di Riina di essere stato ‘cercato’ da uomini di Stato ha rafforzato in lui la certezza che mettere altre bombe lo avrebbe reso più forte”, sottolinea con forza il pm citando la sentenza della Corte di Assise fiorentina.

L’ulteriore appello ad una vera e propria “rivoluzione culturale” capace di scardinare dalle fondamenta la mentalità mafiosa viene successivamente lanciato dal magistrato palermitano. Che non risparmia critiche a quei disegni di legge che mirano a far scomparire del tutto le intercettazioni (telefoniche o ambientali) ad un’opinione pubblica a dir poco anestetizzata. Il pm specifica di riferirsi particolarmente a quelle intercettazioni che hanno una rilevanza pubblica dal punto di vista etico. Se saranno censurate sarà come fornire “un alibi” a quella politica che non vuole essere processata, incapace di assumersi le proprie responsabilità per rimuovere “le mele marce”. Per il magistrato palermitano sullo sfondo c’è sempre quella grave “responsabilità di tipo politico di chi accetta un dialogo con la mafia” ed è del tutto assodato che la mafia “vuole un potere parallelo a quello istituzionale”. Di seguito viene posta l’attenzione su quel sistema economico che “usa la mafia come un’agenzia di servizi”. Di Matteo evidenzia quindi la necessità di una vera e propria “visione allargata” del pianeta mafia e dei suoi tanti satelliti che gli gravitano attorno. “Quello che è fondamentale, non soltanto nelle indagini di mafia, ma anche per la vostra comprensione del fenomeno mafioso, è volgere lo sguardo al passato e collegare tutti i singoli fatti che non sono mai completamente autonomi. La mafia di oggi è figlia della mafia di ieri, le coperture istituzionali di cui può godere la mafia oggi sono figlie e nipoti della copertura istituzionale di cui la mafia ha goduto ieri e l’altro ieri. E’ questa la visione di insieme che consente un’analisi seria e lucida da parte del magistrato, ma anche da parte del cittadino”.

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