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di Aaron Pettinari - 11 aprile 2015
Venticinque anni dopo una nuova lettura sul movente dell'omicidio
L'Italia è il Paese dei misteri. Da Portella della Ginestra, alle stragi del '92-'93, passando per casi meno noti al grande pubblico ma non per questo meno importanti per rileggere quanto avvenuto nel corso della nostra storia. Tra questi vi è la morte dell'educatore carcerario Umberto Mormile. Venticinque anni sono passati da quando, l'11 aprile del 1990, fu ucciso con sei colpi di pistola da due killer mentre era in colonna, all'altezza di Carpiano, a bordo della sua Alfa 33. Si stava recando verso il carcere di Opera quando un'Honda 600 con a bordo i due sicari (Nino Cuzzola e Tonino Schettini, ndr) affiancò l'auto. L’ultima cosa che Mormile vide in vita sua fu la canna della 38 special che si avvicinava al finestrino. Sul delitto si è scavato per anni ma nonostante la celebrazione di tre processi le reali motivazioni che hanno portato alla morte dell'educatore carcerario non sono mai state veramente chiarite.

Alla ricerca del movente
Così, nel corso degli anni, per il delitto vengono individuati i colpevoli ma si preferisce non andare fino in fondo e far piena luce su un caso che anche nella sua “evoluzione processuale” ha presentato non poche contraddizioni e depistaggi. “L’individuazione della singola specifica condotta del Mormile che ha fatto scatenare la voglia di vendetta, di punizione del Papalia non è affatto necessaria” scrivono i giudici nella sentenza emessa il 25 novembre 2008, con la quale venne condannato all’ergastolo Domenico Papalia e vennero assolti Antonio Musitano e Diego Rechichi. Per comprendere quanto avvenuto è però necessario fare un passo indietro. Tutto ha inizio quando, a partire dalla metà degli anni Novanta, Antonio Schettini sceglie di collaborare con la giustizia. Agli inquirenti disse di essere stato lui l’esecutore materiale e di aver agito su ordine del boss calabrese Antonio Papalia, il quale avrebbe dato all'educatore 30 milioni di lire per ottenere pareri favorevoli che servivano al fratello ergastolano, Domenico, a lavorare fuori dal carcere di Parma. Inoltre spiegò che Mormile, nonostante i soldi ricevuti, fu inadempiente tanto che “Mico” Papalia, giurò di vendicarsi. Una tesi giudicata dai familiari della vittima un vero e proprio depistaggio. E' così che ebbe inizio un processo, a carico di Antonio Papalia, Franco Coco Trovato, Antonino Cuzzola, Antonio Musitano e Diego Rechichi. Schettini, reoconfesso, scelse il giudizio abbreviato e venne condannato a a 14 anni di reclusione. Durante il processo, clamorosamente, Schettini, anziché accusare i suoi complici si avvalse della facoltà di non rispondere e la Corte d'assise di Milano fu costretta ad assolvere tutti gli imputati. E' a quel punto però che si verificò un colpo di scena. Antonino Cuzzola, il conducente della moto, decise di collaborare con la giustizia ed oltre a confessare il proprio coinvolgimento diede una nuova versione sui motivi che portarono Mormile alla morte. Secondo Cuzzola Antonio Papalia era infuriato perché Mormile aveva scoperto che “Mico”, nel carcere di Parma, aveva svolto colloqui, ovviamente abusivi, con esponenti dei servizi segreti, i quali entravano nel penitenziario con documenti falsi. Grazie al pentimento di Cuzzola al processo d'appello vennero condannati all'ergastolo Antonio Papalia e Franco Coco Trovato, mentre per Musitano e Rechichi ripartì tutto da zero, in quanto il ruolo assegnato a loro da Cuzzola non combaciava con l’originaria versione di Schettini. Successivamente venne scoperto che la collaborazione di quest'ultimo era stata concordata con i Papalia, i Flachi, i Coco Trovato, Luigi Miano ed il catanese Salvatore Cappello e doveva servire a intorbidare i processi, in favore dei vertici del consorzio criminale intermafioso del quale Schettini era stato fedele affiliato. Nacque così il processo a carico di Domenico Papalia, Antonio Musitano e Diego Rechichi (quest'ultimi due assolti mentre il primo venne condannato all'ergastolo, ndr).

Una nuova versione per il delitto
Nonostante le dichiarazioni di Cuzzola vennero ritenute attendibili nel suo complesso, al processo contro “Mico” Papalia spuntò un ulteriore pentito, Emilio Di Giovane (autorevole esponente dei clan calabresi insediati in Lombardia e in guerra col gruppo Papalia-Flachi-Coco Trovato), che diede una nuova versione sui motivi che portarono alla morte dell'educatore penitenziario. Il collaboratore di giustizia disse di aver conosciuto Mormile al carcere di Parma, di averlo corrotto a suon di denaro e di automobili, di averlo presentato a Papalia per far ottenere indebiti favori a pagamento anche a lui. Non solo. Anni dopo, al carcere di Cuneo, avrebbe incontrato Papalia il quale gli confessò di essere stato mandante dell'omicidio Mormile proprio per quei mancati benefici penitenziari. Anche se le dichiarazioni di Cuzzola non siano ritenute inattendibili la sentenza si basa esclusivamente sul dato che “l’omicidio doveva essere consumato nell’interesse di Domenico Papalia” in quanto “l’educatore non aveva aiutato il Papalia ad accedere a dei benefici carcerari”. Tutto il resto, sarebbe solo contorno , Poco importa se Mormile viene dipinto come un corrotto.

Rivendicazioni a scoppio ritardato
Tra le rivelazioni importanti di Cuzzola vi è un particolare tutt'altro che irrilevante: Antonio Papalia subito dopo l’omicidio Mormile si era adoperato perché quel crimine venisse rivendicato con la sigla della Falange Armata. Nell’immediatezza del delitto, c'era stato un preannuncio all'Ansa di Bologna: “I carabinieri e la polizia di Bologna stanno valutando l’attendibilità di una telefonata anonima giunta alla redazione bolognese dell’Ansa intorno alle 15,40. Una voce maschile, senza particolari inflessioni dialettali ha detto, facendo riferimento indiretto all’uccisione di un educatore del carcere lombardo di Opera avvenuto oggi non lontano da Lodi: “A proposito di quanto è avvenuto a Milano, il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi sono. Ci conoscerete in seguito”. La comunicazione è stata poi interrotta. Durante la telefonata, in sottofondo, si sentiva il rumore provocato dal traffico di autoveicoli”. Sei mesi dopo l’uccisione dell’educatore, il 27 ottobre 1990, ecco una nuova telefona all’Ansa di Bologna: “Con una telefonata alla redazione Ansa di Bologna uno sconosciuto ha rivendicato alla “Falange armata carceraria” l’omicidio di Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera (Milano) ucciso lo scorso 11 aprile, e ha annunciato che verranno “giustiziati” altri quattro educatori, dei quali ha fatto i nomi. La chiamata è arrivata verso le 12,20 ed è stata fatta da un uomo che parlava con accento straniero; questi prima ha chiesto che il suo messaggio venisse scritto o registrato e poi, dicendo di non avere tempo, ha letto in fretta un comunicato. “All’inizio di questo anno – ha detto – abbiamo individuato due fronti di lotta armata”, uno politico-finanziario e giudiziario e uno all’interno delle carceri. Rispetto a questa ultima, ha proseguito, “abbiamo individuato cinque educatori” che sono elementi operativi e cervelli dell’applicazione della legge Gozzini; “Mormile di Milano è già stato giustiziato, gli altri saranno colpiti al momento opportuno”. Poi l’uomo ha fatto i nomi di quattro educatori che lavorano rispettivamente nelle carceri di Porto Azzurro, Ancona, Pavia e Messina e ha annunciato un comunicato per domani sera, specificando la zona in cui verrà fatto trovare. Digos e Carabinieri stanno vagliando l’attendibilità della telefonata e svolgendo accertamenti sul nome della presunta organizzazione, che risulterebbe nuovo”.
E' quella la prima volta in cui la famigerata sigla della “Falange Armata” fa la sua comparsa in un momento storico piuttosto particolare. In quei giorni, infatti, l’opinione pubblica italiana è in fibrillazione perché il 24 ottobre l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti era intervenuto alla Camera dei Deputati, rivelando l’esistenza di Gladio. Forse proprio per quella ammissione dirompente la telefonata dei falangisti passò quasi inosservata. Diversamente accadde quando il 4 gennaio del 1991, la banda guidata dai fratelli Savi massacra tre carabinieri di pattuglia al quartiere Pilastro a Bologna. Ventiquattro ore dopo sul fatto vi fu la rivendicazione della Falange.

Punto di contatto
Proprio quella rivendicazione della Falange Armata (che ne dica la Corte di Milano nella sua sentenza, ndr) rappresenta un punto di contatto tra l'omicidio Mormile e la strage del Pilastro della Uno Bianca. Ben più delle perizie balistiche sui bossoli dell'omicidio. In un primo momento avevano dimostrato come una delle pistole utilizzate dalla Banda della Uno Bianca nella strage del Pilastro fosse la stessa che aveva messo fine alla vita di Mormile. Successivamente venne però accertato che “i proiettili sequestrati in occasione dell’omicidio Mormile non erano stati esplosi da nessuna delle armi sequestrate ai fratelli Savi ed ai loro complici.”. Un dato, quest'ultimo, che avvalora ulteriormente le dichiarazioni di Cuzzola, il quale aveva spiegato fin dalle sue prime rivelazioni che Schettini si era disfatto dell’arma utilizzata per l’omicidio Mormile già nella fase della fuga.

Ulteriori elementi
Seguendo la pista oscura lasciata dalla Falange armata e che porta fino in Sicilia quando, negli anni delle stragi dei primi anni Novanta la sigla fa la sua ricomparsa. Racconta il pentito Maurizio Avola che che nelle riunioni del dicembre 1991, quando Cosa nostra decide di “togliersi i sassolini dalle scarpe” e, in vista della sentenza definitiva del maxi processo che sarebbe stata loro sfavorevole, si decise di organizzare “azioni di tipo terroristico anche tradizionalmente estranee al modo di operare e alle finalità di Cosa Nostra. Queste azioni secondo una prassi che erano già in atto da tempo dovevano essere rivendicate con la sigla Falange Armata”.
Altro fattore inquietante è poi il riferimento a Domenico Papalia che viene fatto nella sua lettera di addio dal mafioso Nino Gioè, vittima di un misterioso suicidio a Rebibbia nel luglio ‘93. Un nome, il suo, che viene inserito anche all'interno di un’informativa della Dia, che nel 1994 lo indica tra gli ‘ndranghetisti in contatto a Milano con ambienti legati alla massoneria. Pochi giorni dopo l'agguato dell'11 aprile 1990 Armidia Miserere, direttrice al carcere di Lodi e compagna di Mormile (trovata morta il 19 aprile del 2003 con un colpo di pistola alla testa), scrisse ai pm che curavano le indagini sull'omicidio che “L’ipotesi più logica è che Umberto sia stato ucciso perché ostacolo a un grande progetto”. A cosa si riferiva? Riguardava i rapporti di Papalia con i servizi? O l'educatore penitenziario aveva scoperto dell'altro ancora? Oggi pomeriggio di questo si parlerà a Palermo (appuntamento a partire dalle 16 a Casa Professa), in una conferenza in cui interverranno Giovanni Spinosa, il magistrato che si occupò delle indagini sulle stragi della Uno Bianca, Fabio Repici, l'avvocato che ha seguito alcune delle famiglie delle vittime della mafia e dei depistaggi delle indagini sulla loro morte e Giuseppe Lo Bianco, giornalista de Il Fatto Quotidiano e autore di diverse inchieste sulle più oscure stragi di mafia. Interverrà all'incontro, per la prima volta pubblicamente, anche Stefano Mormile (fratello dell'educatore penitenziario).
L'evento, promosso dal Movimento Agende Rosse e da Scorta Civica Palermo, non sarà una semplice commemorazione ma un tentativo di affermare la verità dei fatti sulla persona di Umberto Mormile e sarà anche occasione per presentare un documento (a cura di Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria e Fabio Repici), scaricabile gratuitamente in PDF, che analizza la commistione tra criminalità organizzata, cultura eversiva e brandelli infedeli dello Stato e associa - documenti alla mano - avvenimenti apparentemente non collegati tra loro e propone una nuova lettura della storia degli ultimi 40 anni della nostra Repubblica.

Documento PDF
La morte di un uomo di Stato e la nascita di depistatori di Stato
di Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria e Fabio Repici

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