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pizzolungo-monumentodi AMDuemila - 1° aprile 2015
E’ il 10 novembre del 1987, a Caltanissetta inizia il processo per la strage di Pizzolungo. La Corte di Assise è presieduta da Placido D’Orto, giudice a latere Giovanni Bulfamante, con loro sei giudici popolari, la pubblica accusa è rappresentata dal pm Ottavio Sferlazza. Gli imputati accusati di aver organizzato ed attuato l’attentato sono: Vincenzo Milazzo, alcamese, enologo, figlio di Giuseppe Milazzo, ucciso a Gambassi Terme nel 1981, delitto di cui si era occupato il giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto; Gioacchino Calabrò, il meccanico di Castellammare del Golfo arrestato pochi giorni dopo la strage e Filippo Melodia, un alcamese residente a San Miniato, in provincia di Pisa. Con loro, coinvolti a vario titolo nell’organizzazione ci sono tra gli altri Pietro Montalbano, Antonino Palmeri, Mariano Asaro e Vincenzo Cusumano, tutti trapanesi.
Milazzo, per l’accusa, è anche l’uomo che gestisce gli affari della raffineria (di droga, ndr). Con lui ci sono Pietro Montalbano, Giuseppe Ferro, Nicolò Melodia, Antonino Melodia, Vincenzo Melodia e Sebastiano Vaccaro, tutti di Alcamo, e altre sette persone accusate di favoreggiamento e falsa testimonianza.
Il 19 novembre 1988 arriva la sentenza. Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia e Gioacchino Calabrò vengono condannati all’ergastolo per strage. Gli altri vengono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. La Corte condanna anche quattro dei sei accusati coinvolti nella gestione della raffineria (di droga, ndr) di Alcamo. Vincenzo Melodia è condannato a 19 anni insieme al latitante Giuseppe Ferro. Diciotto anni vengono inflitti ad Antonino Melodia e 12 al padre Nicolò. Gli altri vengono assolti. Il 15 marzo del 1989 viene depositata la motivazione della sentenza. Per i giudici Vincenzo Milazzo è l’organizzatore della strage e il principale responsabile della gestione della raffineria di eroina di Alcamo. La strage sarebbe stata decisa per proteggere la fabbrica della droga dall’azione investigativa di Carlo Palermo. Calabrò avrebbe fornito le auto per la strage e avrebbe poi collaborato all’organizzazione dell’attentato. Filippo Melodia avrebbe affiancato entrambi nelle varie fasi dell’attentato.
Il 16 ottobre 1989 si apre a Caltanissetta il processo di secondo grado. La corte è presieduta dal giudice Gaetano Costanza. L’accusa è rappresentata dal pm Salvatore Cardinale.
La sentenza arriva il 12 marzo 1990 dopo 5 giorni di camera di consiglio. Tutti assolti.
L’11 marzo 1991 il procuratore generale della Cassazione chiede l’annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado per quanto riguarda l’assoluzione di Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia e chiede ancora conferma della competenza territoriale dei giudici della Corte d’Appello di Caltanissetta. “La sentenza della Corte d’Assise d’Appello - spiega il pg durante la sua requisitoria - è un esempio di come non si debba valutare la serie di elementi indiziari emersi nel corso del processo. Mai come in questo caso, infatti, sarebbe stato importante procedere ad un esame complessivo e globale dei fatti senza limitarsi, come è avvenuto in secondo grado, ad una valutazione individuale dei singoli elementi processuali”. La sua richiesta viene rigettata.
Il 12 marzo 1991 la prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, conferma il giudizio di appello.
A maggio del 2002 la Procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio per quattro imputati. Alla sbarra finiscono i boss di prima grandezza di Cosa Nostra: il capo indiscusso Totò Riina, il referente del mandamento di Trapani Vincenzo Virga, Antonino Madonia, uno dei killer più spietati dei corleonesi e Baldassare Di Maggio, già ai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato, neo collaboratore di giustizia. La prima udienza si svolge nel giugno del 2002 e in quella sede Riina e Virga scelgono il rito abbreviato. Il 22 novembre di quello stesso anno il Gup di Caltanissetta Francesco Antoni condanna all’ergastolo Totò Riina e Vincenzo Virga riconoscendoli come mandanti della strage di Pizzolungo. Accolte in pieno le tesi della pubblica accusa esercitata dal pm Luca De Ninis. Fondamentale l’apporto dei pentiti, tra cui il palermitano Giovan Battista Ferrante.
Lo stesso Ferrante sottolinea il ruolo di primo piano di Antonino Madonia nella strage e ricorda una riunione che ebbe luogo un mese prima nel magazzino del boss Mariano Tullio Troia tra Calcedonio Bruno, mafioso della famiglia di Trapani e lo stesso Antonino Madonia. “Alcuni giorni dopo l’attentato di Pizzolungo – spiega Ferrante – nel corso di un’altra riunione di capi mafia, svoltasi sempre nel magazzino di Troia, Pippo Gambino, sottocapo del mandamento di Partanna-Mondello chiese a Calcedonio Bruno come era andata e lui allargò semplicemente le braccia come per dire che l’obiettivo, il giudice Carlo Palermo, purtroppo era stato mancato”. Dal canto suo il collaboratore di giustizia Nicolò Lazio dichiara che “dopo la strage di Pizzolungo Vincenzo Milazzo, uomo d’onore della famiglia di Trapani, chiese a Baldassare Di Maggio di procurargli un vetro per sostituire quello della sua Fiat Uno, rimasto distrutto durante la deflagrazione di Pizzolungo. Milazzo proprio con quell’auto si era appartato nelle vicinanze dove era stata piazzata la Golf imbottita di tritolo per assistere all’esplosione”.
L’11 febbraio del 2003 inizia il processo per Antonino Madonia e Balduccio Di Maggio. La Corte di Assise di Caltanissetta è presieduta da Letterio Aloisi, giudice a latere Fabrizio Nicoletti, l’accusa è rappresentata dal pm Luca De Ninis. Nella sua requisitoria De Ninis ricostruisce il contesto logistico-criminale della strage. “Evidentemente – spiega il pm – il ruolo di vertice dal punto di vista decisionale è quello di Riina, Virga è interessato in quanto rappresentante provinciale del territorio in cui l’attentato doveva aver luogo. Antonino Madonia è un personaggio di vertice dell’organizzazione con una particolare esperienza nella predisposizione dei telecomandi e degli ordigni insieme a Di Maggio che aveva il compito specifico di procurare e fornire agli esecutori materiali l’esplosivo con il quale è stato realizzato l’attentato. Questi due imputati, Madonia e di Maggio, fungevano più specificatamente da raccordo e da collegamento tra le decisioni dei corleonesi e della cupola e l’esecuzione materiale affidata alle cellule del trapanese.” De Ninis sottolinea che “al di là del movente localistico relativo a quella raffineria di droga scoperta ad Alcamo appena un mese dopo, si delinea un movente di più ampio respiro, che coinvolge gli interessi della commissione regionale e che si ricollega ad una strategia stragista comune ad altri episodi delittuosi, un movente di attacco frontale allo stato di eliminazione preventiva di quei soggetti che per le loro esperienze, al di là delle indagini in corso, rappresentano un simbolo, una personificazione della volontà dello Stato di annientare gli interessi criminali curati dall’organizzazione, in particolare attraverso l’incentivazione del fenomeno della collaborazione e quindi attraverso la rottura dall’interno dei meccanismi solidaristici su cui l’organizzazione si fonda. Carlo Palermo, secondo l’impostazione di questo processo rappresentava proprio questo e per tale motivo, al di là degli interessi delle fazioni locali di Trapani, anche Cosa nostra siciliana e il suo gruppo di gente corleonese e di San Giuseppe Jato aveva interesse alla sua eliminazione fisica”.
Il 29 maggio 2004 la Corte di Assise condanna Baldassare Di Maggio all’ergastolo e assolve Antonino Madonia. Nel processo di Appello arriva anche la condanna per Antonino Madonia. I giudici di secondo grado di Caltanissetta accolgono la richiesta del procuratore generale e condannano anche lui quale concorrente nella strage di Pizzolungo. L’ergastolo sarà confermato anche dalla corte di Cassazione. I giudici di appello inseriscono a pieno titolo la strage di Pizzolungo “all’interno della strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra elaborata da Totò Riina e dalle famiglie palermitane a esso alleate tra le quali la famiglia Brusca, la famiglia Gambino e la famiglia Madonia. (…) Riina è stato indicato dalle stesse fonti di prova esaminate in questo processo come mandante della strage mentre le altre indicazioni dirette o indirette che sono state fornite indicano nei Brusca, nei Gambino, nei Madonia alcuni dei capi famiglia coinvolti nella deliberazione ed esecuzione della strage di Pizzolungo il cui movente, plurimo e articolato, ha comunque alla base la sfida di Cosa nostra alle istituzioni dello stato e in particolare a quegli uomini che manifestavano la precisa volontà di svolgere fino in fondo e senza tentennamenti il proprio ruolo istituzionale di contrasto e repressione nei confronti dell’organizzazione mafiosa, la cui ragione d’essere storica sta nella strutturale collusione con settori importanti dello stato ed in definitiva nella garanzia di poter lucrare comunque attraverso manovre, contatti, alleanze e scambi ‘latu sensu’ politici l’assoluta impunità”. “La convinzione di Riina – scrivono i giudici – e dei suoi alleati di un sostanziale isolamento degli uomini dello stato che rifiutavano il tradizionale atteggiamento che è stato definito di convivenza con la mafia, indusse Cosa nostra negli anni Ottanta a pensare di poter sfidare lo stato e questi suoi fedeli servitori deliberandone l’eliminazione fisica al duplice scopo di dissuadere dal seguirne l’esempio e dall’indurre lo stato a venire a patti con Cosa nostra mantenendone una sostanziale impunità. L’attentato di Pizzolungo diretto contro il dottor Carlo Palermo costituisce l’ennesima azione terroristica di Cosa nostra contro un magistrato che aveva osato sfidarla così come aveva sfidato in precedenza altri poteri forti, subendone pesanti ritorsioni. Non è escluso che con la soppressione di Carlo Palermo il vertice siciliano di Cosa nostra pensasse di rendere un favore non solo a se stesso”. E a chi doveva rendere conto la mafia? “Al contempo – si legge ancora nel documento –, collocandosi la strage a distanza temporale di soli pochi mesi dagli arresti ordinati dal pool dell’ufficio istruzione di Palermo, a seguito delle propalazioni di Tommaso Buscetta, l’attentato costituiva una risposta terroristica a quelle iniziative giudiziarie e doveva servire ad alzare il livello dello scontro e ad annunciare la prospettiva terroristica alla quale l’organizzazione si stava indirizzando come reazione al venir meno delle tradizionali protezioni e garanzie di carattere “politico”, un messaggio in funzione intimidatoria rivolto soprattutto a Caponnetto, Falcone e Borsellino che della rinnovata vitalità dell’iniziativa giudiziaria antimafia erano protagonisti ma anche un messaggio ai propri referenti politici perché valutassero le conseguenze di quelle scelte sul piano della rottura degli equilibri instaurati negli anni precedenti nei rapporti mafia-politica”. All’interno della motivazione della sentenza di Appello vi sono anche alcune dichiarazioni dell’ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca e le relative considerazioni dei giudici. I giudici scrivono che lo stesso Brusca aveva raccontato che “proprio a lui era stato demandato il compito di far ‘aggiustare’ il processo sulla strage che era in corso davanti alla corte d’Assise di appello di Caltanissetta; tale attività l’aveva svolta tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990. Per questo si era recato a Caltanissetta per prendere contatti con Giuseppe Piddu Madonia che a sua volta si avvaleva della collaborazione di tale Salvatore Ferraro, ‘uomo d’onore’ della famiglia di Caltanissetta”. I giudici evidenziano che entrambi avrebbero tentato di avvicinare il presidente della Corte d’Assise di Appello. Poi Brusca prosegue “riferendo che, prima di lui, anche il Di Maggio era stato impegnato in tale attività (per la quale aveva costretto uno dei testimoni, tale Mariano Saraceno, a fornire una testimonianza diretta a scagionare alcuni degli imputati e facendo anche pressioni su giudici)”. I giudici ritengono “attendibili” le dichiarazioni di Brusca per poi evidenziare “le innumerevoli anomalie che palesa il percorso argomentativo seguito dai giudicanti”; in sostanza la motivazione della sentenza che il 12 marzo del 1990 aveva assolto tutti gli imputati viene definita “espressione di un procedimento di formazione del giudizio assolutamente non corretto”.
“Mi piacerebbe sapere se qualcuno ha indagato sull’esito di quel processo dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca”, si chiede ancora oggi Margherita Asta.

Fonte bibliografica “Sola con te in un futuro aprile” (Fandango ed.)


Gian Giacomo Ciaccio Montalto e Carlo Palermo
“La sola speranza è che chi ne prenderà il posto sappia lavorare con altrettanta fermezza”, aveva dichiarato Carlo Palermo dopo aver saputo dell’omicidio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto avvenuto il 25 gennaio 1983. I due magistrati si erano incontrati poche settimane prima del delitto. In quella occasione si erano scambiati alcune informazioni in loro possesso ed avevano approfondito diverse piste investigative. Ciaccio Montalto aveva capito bene che per indagare sulla mafia occorreva ricostruire il flusso di denaro proveniente dalle attività̀ illegali. E per farlo aveva studiato gli ambigui movimenti all’interno del mondo degli affari e delle banche di Trapani. Il piombo mafioso aveva però interrotto il suo prezioso lavoro. Il 20 febbraio ’85 Carlo Palermo aveva fatto il suo ingresso nel palazzo di giustizia trapanese, quel giorno gli era stata assegnata la stanza del giudice Ciaccio Montalto.

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