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di-matteo-toga-processodi Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 12 novembre 2014
Una “fonte attendibile” avrebbe fatto sapere che il tritolo per il pm palermitano sarebbe già in città. E nelle auto di scorta ancora non c'è traccia di “bomb jammer”
“È tutto pronto, e lo faremo in modo eclatante”.
Così si esprimeva Totò Riina nei suoi colloqui con la “dama di compagnia” pugliese, Alberto Lorusso, durante l'ora d'aria quando si trovava ancora al carcere Opera di Milano, riferendosi alla possibilità di un attentato nei confronti del pm Antonino Di Matteo. Dichiarazioni di appena un anno fa che oggi tornano alla memoria con prepotenza. La notizia viene da una “fonte” che sarebbe ritenuta “attendibile” e che avrebbe messo in allarme investigatori e forze di Polizia. Nei confronti del pm di punta del processo sulla trattativa Stato-mafia è pronto un attentato da fare a Palermo, o eventualmente a Roma. Si tratta di “indiscrezioni” che non sono “ufficiali”, ma la paura aumenta anche perché nel luglio 2013 un altro confidente aveva parlato di “15 chili di tritolo” arrivati a Palermo “per uccidere il pm della trattativa”. Paura che anche il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, ammette di provare per il clima esterno ed “interno”. Teresi ci tiene, però, a sottolineare che il vertice di ieri era prettamente mirato “a verificare se il sistema di sicurezza attorno a Di Matteo è perfetto”. “Poi – continua – non sappiamo se questo vertice deriva da una ‘fonte’. Se dietro all’incontro di ieri ci sono questioni riservate è chiaro che non ne parleremo mai. Se la fonte è riservata la riservatezza è strumentale anche alla sicurezza: più ne parliamo e più mettiamo a rischio la vita di Nino Di Matteo”.

Un “rischio” del tutto corroborato da dati oggettivi. Che non possono essere trascurati. Questo è solo l’ultimo degli eventi allarmanti che ruotano attorno a Di Matteo: lettere anonime del tutto “raffinate” inviate al suo domicilio privato, minacce ancora più sibilline recapitate via posta al suo ufficio, la condanna a morte, captata in una intercettazione ambientale in carcere, decretata dal Capo di Cosa Nostra, Totò Riina, così come le dichiarazioni del neo collaboratore di giustizia Antonino Zarcone, ex reggente del mandamento di Bagheria, che aveva raccontato della pianificazione di un attentato contro Di Matteo in cui sarebbe stata coinvolta pure la cosca di Bagheria. Episodi del tutto inquietanti ai quali si aggiunge la misteriosa incursione nell’ufficio del Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ad opera di altrettanto misteriosi soggetti che hanno lasciato una lettera intimidatoria. Che non è firmata da Cosa Nostra. Secondo quanto sarebbe trapelato dal vertice “interforce”, quindi, la preparazione dell’omicidio del pm Di Matteo sarebbe in fase organizzativa con tanto di tritolo disseminato in diverse parti della città di Palermo. Ma non sarebbe solo il capoluogo siciliano il possibile teatro di una nuova possibile strage. Anche Roma sarebbe candidata come seconda possibilità. Proprio il 7 novembre scorso il magistrato palermitano era stato invitato nel capoluogo laziale per ritirare il premio “Criminologia.it”.



Bomb jammer assente

E' esattamente nella Capitale che si gioca una partita fondamentale: quella del “bomb-jammer”, il noto dispositivo capace di disinnescare gli impulsi elettrici collegati ad eventuali ordigni. Un anno fa il Ministro dell’Interno Angelino Alfano (dopo l’incontro del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza che si era tenuto a Palermo), alla domanda sulla mancata risposta all’interrogazione parlamentare dell’on. Luigi Di Maio del 14 ottobre 2013 (relativa alla effettiva disponibilità del “jammer” per Nino Di Matteo), aveva risposto che per il dott. Di Matteo il dispositivo anti bomba “era stato reso disponibile”. In quella occasione, però, Alfano non aveva specificato che l’apparecchiatura proposta a Di Matteo era di quelle di prima generazione che portavano con sé pericolose controindicazioni per la salute umana e quindi lo stesso magistrato si era visto costretto a rifiutarla. Le evidenti contraddizioni di Alfano erano proseguite nei giorni a venire, precisamente durante la sua audizione davanti alla Commissione antimafia in trasferta a Milano nei giorni 16 e 17 dicembre 2013. Alla domanda dell’on. Giulia Sarti relativa all’effettivo utilizzo del “jammer” in Italia Alfano aveva risposto in tutt’altro modo.E’ altrettanto certo che un uso di questi dispositivi è stato già fatto anche in zone civili”, era stata la stringata risposta del ministro. “Riguardo al mezzo elettronico cui faceva riferimento l’onorevole Sarti – aveva specificato Alfano durante la sua audizione milanese – noi l’abbiamo già reso disponibile, salvo un’accurata verifica tecnica. Essendo dotato di una forte potenza elettromagnetica, può produrre effetti collaterali molto significativi alla salute e, quindi, è assolutamente da studiare”. Il Ministro aveva quindi evidenziato che si stava riferendo ad un’apparecchiatura “certamente utilizzata nei teatri di guerra, dove le zone frequentemente desertiche consentono di limitare al minimo i danni degli effetti collaterali”, per poi rimarcare che, secondo le sue previsioni, lo studio che si stava effettuando si sarebbe concluso presto. “Non posso dire l’ora o il giorno, ma mi sento di dire che si concluderà in un ristrettissimo lasso di tempo, certamente nei prossimi giorni”, aveva dichiarato con toni trionfalistici. Da quel giorno sono passati 12 mesi e di questi test non è stato fatto sapere alcunché. La domanda è secca: cosa aspetta il Ministro Alfano ad inviare a Di Matteo il dispositivo anti-bomba promesso? In quale altro Paese civile si assisterebbe a questo temporeggiare da parte delle istituzioni sulla pelle di un magistrato condannato a morte da Cosa Nostra e da quell’ibrido connubio di poteri ostili al raggiungimento della verità sul biennio stragista ‘92/’93? Al di là del fatto che alla scorta del pm più esposto d’Italia siano state recentemente fornite un paio di nuove macchine, che comunque sono di “media blindatura”, resta la gravissima responsabilità del mancato invio del “jammer” da parte del Viminale. Secondo fonti non ufficiali il dispositivo anti-bomba sarebbe pronto da tempo, ma sarebbe “parcheggiato” in un garage in attesa del via libera ministeriale. Di contraltare ad uno Stato che sottopone a questa pressione psicologica i suoi più fedeli servitori, già pesantemente segnati da concrete minacce, c’è una parte della società civile che continua a stringersi attorno al pm Di Matteo, ai suoi colleghi del pool che indaga sulla trattativa tra Stato e mafia, e a tutti i magistrati sovraesposti. “Scorta Civica”, il coordinamento di associazioni, movimenti, organizzazioni e semplici cittadini che dal 20 gennaio si riunisce in un presidio simbolico davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo, si è subito mobilitata. Per sabato prossimo è stata indetta una manifestazione per esprimere solidarietà a Nino Di Matteo finalizzata a dimostrare che “c’è una larga fetta di società civile decisa a fare di tutto per liberare il nostro Paese da una mafia sempre più infiltrata nei gangli vitali della nostra società”. L’appuntamento è a Piazza Croci alle 9:30. Nella stessa giornata, o nei giorni a seguire, sono ugualmente previste simili manifestazioni nel resto d’Italia.

DOSSIER Processo trattativa Stato-Mafia

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