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napolitano-capaci-via-palermoIl Presidente della Repubblica al processo trattativa: percepimmo un ricatto per destabilizzare il sistema
di Miriam Cuccu - 31 ottobre 2014

Le bombe del ’92 e ’93 furono un “aut-aut” allo Stato, un “ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema” quando già ci si aspettava un suo cedimento. A parlare è il Presidente della Repubblica che qualche giorno fa, testimoniando al processo trattativa Stato-mafia, ha ricordato di una “strategia stragista” ordita “dall'ala più aggressiva della mafia”, quella dei “corleonesi”. Fu questa la “percezione più immediata” avvertita dagli ambienti istituzionali. Le parole di Napolitano, riportate nero su bianco agli atti del processo in corso a Palermo, spazzano via qualsiasi perplessità sull’effettiva esistenza di un braccio di ferro tra Stato e mafia, il primo per far cessare le stragi, la seconda per vedere esaudite le richieste del “papello” e sopravvivere così alla pioggia di ergastoli del maxiprocesso. Una trattativa che, ormai, non può essere più essere accompagnata dall’aggettivo “presunta” o “cosiddetta”. “Probabilmente” aggiunge il Presidente, il ricatto ci fu “presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle Autorità dello Stato”. Ormai era chiaro che la strategia delle bombe pagava.

Così, quando venne avanzata la “richiesta di alleggerimento” del carcere duro per i boss rinchiusi a Pianosa e all’Asinara i mafiosi già sapevano di poter trovare un compromesso con chi, dall’altra parte della barricata, cercava di scendere a patti per evitare che si avverassero le minacce che in quel periodo fioccavano contro le personalità politiche più in vista. E quando il pm Di Matteo domanda al Presidente della lettera che i familiari dei capimafia inviarono al presidente Scalfaro, lamentando le condizioni di detenzione dei loro congiunti, Napolitano commenta: “Se ne parlò molto anche sulla stampa”. “Della lettera si è venuti a conoscenza soltanto molti anni dopo” ribatte Di Matteo. “Credo di avere una discreta memoria, ma non una simile memoria di elefante” è la risposta del teste.
Napolitano cita poi come “particolarmente inquietante l'episodio di un black out al Quirinale” la notte tra il 27 e il 28 luglio ’93, a ridosso della strage di via Palestro a Milano. “Poteva considerarsi un classico ingrediente di Colpo di Stato” che aveva “in modo particolare impressionato Ciampi - ricorda il Presidente della Repubblica - il fulcro della responsabilità era senza alcun dubbio il Governo e non a caso il black out i presunti eversori l'avevano fatto a Palazzo Chigi o non a Palazzo Montecitorio, né a Palazzo Madama”.
Napolitano ricolloca all’interno dello stesso quadro di “pressione” l’allarme lanciato da una nota del Sismi nell’estate ’93 su un attentato contro di lui: “Fui informato che c'erano voci, erano state raccolte da confidenti notizie circa un possibile attentato alla mia persona o a quella del Senatore Spadolini” allora presidente del Senato, mentre l’attuale Capo dello Stato rappresentava la Camera. “Il giorno prima della mia partenza - per Parigi, ndr - che avvenne il 24 di agosto, io fui richiesto in un colloquio dal Capo della Polizia, Prefetto Parisi, il quale molto gentilmente mi informò” della notizia “da prendere naturalmente con molta cautela, ma non palesemente incredibile”. Per questo Parisi gli disse “di predisporsi all'avere una particolare vigilanza” durante il viaggio. L’allarme, conferma Napolitano rispondendo al pubblico ministero, era stato ricollocato nello stesso quadro dei precedenti attentati già compiuti: “Evidentemente era il prolungamento di una strategia, soprattutto di una strategia di attacco frontale allo Stato” contraddistinta da “una certa unicità di contesto”.
Già all’epoca l’ex ministro Conso parlava - senza che la “pubblicistica”, secondo Napolitano responsabile di aver diffuso la notizia, ne fosse a conoscenza - di una “spaccatura” in Cosa nostra tra ala riiniana e provenzaniana. Il Presidente etichetta la profetica analisi di Conso - in un periodo in cui nemmeno l’allora capo della Dia era a conoscenza degli equilibri interni alla Cupola mafiosa - “non straordinariamente originale”: “Lo si capiva benissimo, non c’era bisogno di essere politologi o sapienti giuristi”. Poi Conso lasciò scadere i 41bis per 334 boss di primissimo piano nonostante il parere contrario della Procura di Palermo. La “reazione di sbandamento” che Cosa nostra attendeva.

DOSSIER Processo trattativa Stato-mafia

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