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mori-gr-effdi Lorenzo Baldo - 31 ottobre 2014
Trattativa Stato-mafia, le dichiarazioni del Presidente della Repubblica al controesame
“Io sono legato ad un principio che è quello della riservatezza dei colloqui con i miei Consiglieri ein generale dei colloqui che io tengo nell'esercizio delle mie funzioni”, ma “non voglio opporre questo diniego per riservatezza”. Esordisce così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al controesame previsto durante la sua audizione al Quirinale. Il Capo dello Stato inizia a rispondere alle domande dell’avvocato di Parte civile del Comune di Palermo Giovanni Airò Farulla. “Se lui (Loris D’Ambrosio, ndr) avesse avuto in mano degli elementi che non fossero solo ipotesi (quegli “indicibili accordi” a cui il suo consigliere giuridico si riferiva nella sua lettera del 18 giugno 2012, ndr), lui sapeva benissimo quale era il suo dovere, andare all'Autorità Giudiziaria competente e fornire notizie di reato o elementi utili a fini processuali. Evidentemente queste cose non le aveva, tanto meno le disse a me”.

Napolitano smentisce Mancino
Nel successivo intervento l’avvocato di Nicola Mancino, Massimo Krogh, si accinge ad approfondire la questione delle minacce di attentati (nell’agosto del ’93) a Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Camera e a Giovanni Spadolini in quel periodo Presidente del Senato, chiedendo quali erano state le reazioni da parte dei “politici competenti”. La replica del Capo dello Stato è decisamente diretta: “ebbi questa comunicazione dal Capo nella Polizia e non avevo dubbi che la facesse sì personalmente lui, ma che la facesse a nome del Ministero dell'Interno, non c'è dubbio, il Capo della Polizia iniziative di questo genere non può che prenderle di concerto con il suo Ministro. Non ricordo che mi sia stata comunicata alcuna ulteriore precisazione da parte del Ministro dell'Interno che in quel momento era esattamente il Ministro Mancino, ma certamente sapeva benissimo che... O aveva addirittura autorizzato lui, il Prefetto Parisi, a venire da me per parlarmene”. L’avv. Krogh incassa l’autogol e chiede se quanto dichiarato sulla regola di riferire al Ministro dell'Interno da parte della Polizia fosse legata ad una sua “conoscenza normativa” o se fosse frutto di una sua “conoscenza diretta”. Napolitano è alquanto esplicito: “per conoscenza diretta del mestiere di Ministro dell'Interno che ho esercitato per due anni e mezzo”. A tutti gli effetti si tratta di una sonora smentita “presidenziale” a quei tanti “non ricordo” di Nicola Mancino relativi alla sua presunta mancata conoscenza del pericolo di nuovi attentati nella seconda metà del ’93.

Il silenzio dei Carabinieri
“Il rispetto istituzionale del Presidente della Repubblica e della persona del Capo dello Stato induce la difesa del Generale Mori e del Generale Subranni a non porre alcuna domanda al Presidente”, decisamente asettico l’intervento dell’avvocato Basilio Milio, al quale si associa immediatamente l’avvocato di Giuseppe De Donno, Francesco Romito. Il Presidente della Corte, Alfredo Montalto, non fa una piega e introduce l’intervento successivo.

L’avvocato del capo di Cosa Nostra
Rispondendo alle domande dell’avvocato di Totò Riina, Luca Cianferoni, Giorgio Napolitano ricorda le conversazioni avute con Loris D’Ambrosio relative ai rapporti tra la Procura di Salerno e quella di Catanzaro all’epoca degli scontri per l’inchiesta “Why not”. “Di fronte a questi contrasti (D’Ambrosio, ndr) invocava appunto il principio del coordinamento”, sottolinea Napolitano. Certo è che una sorta di quel “principio di coordinamento” sarebbe stato successivamente al centro di ambigue manovre istituzionali finalizzate a far togliere alla Procura di Palermo le indagini sulla trattativa. Cianferoni si rivolge quindi a Napolitano domandandogli si ricordi del fallito attentato all’Addaura del 1989. Il Presidente annuisce definendolo “un fatto enorme, clamoroso”. “Ha mai avuto notizie specifiche di rapporti tra Servizi Segreti e Cosa Nostra?”, insiste il legale di Riina. “Non ruberò il mestiere alla Procura – risponde laconico il Capo dello Stato –, alla Pubblica Accusa, avventurandomi in temi come quello dei rapporti tra Servizi Segreti...”.

Cercate i collaboratori di D’Ambrosio
“Lui (Loris D’Ambrosio, ndr) – ricorda inoltre Napolitano – certamente, anche scrivendo quell'articolo per il libro curato dalla Maria Falcone, pensava di fornire elementi in proposito e quindi anche ad altri. E poi ne parlava a me nella lettera, quindi oltre a lei, a lei Presidente cui sto scrivendo in questa lettera del possibile, atroce dubbio di essere stato utile scriba per coprire indicibili accordi, l'ho detto anche ad altri. Ad altri poi... Il dottor D'Ambrosio ha avuto molteplici collaboratori, soprattutto quando era al Ministero della Giustizia, e c'erano persone a lui molte legate anche da un rapporto di collaborazione”. L’avv. Cianferoni chiede lumi su chi fossero questi collaboratori. “Si legga l'articolo per il libro della signora Falcone – replica il Capo dello Stato – in cui lui cita, nome e cognome, le persone con le quali lavorava strettamente nell'ambito della Direzione Affari Penali sotto la guida di Giovanni Falcone. Lui lì dice con chi collaborava e quindi per esempio... Chiaramente sono persone con le quali ha avuto un rapporto abbastanza intenso, di dimestichezza”. Riferendosi alla lettera di D’Ambrosio del 18 giugno 2012 il legale di Riina prosegue il controesame domandando a Napolitano se il suo consigliere giuridico, con riferimento all’essere stato considerato un “utile scriba”, gli avesse mai parlato di aver percepito che “era tutto un inganno”. “Le posso dire stia tranquillo – risponde placidamente il Presidente della Repubblica – che (D’Ambrosio, ndr) non mi ha dato nessun elemento di riferimento”.

Quel colpo di Stato
Ripercorrendo i timori dell’allora Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, a seguito del black-out a Palazzo Chigi la notte del 27 luglio 1993, Napolitano ribadisce che c’erano concreti “elementi” per “formulare l’ipotesi o per usare l’espressione Colpo di Stato”. “Per effetto della crisi di partiti, si stava rarefacendo la partecipazione all'attività parlamentare”, con conseguente “inevitabilità dello scioglimento anticipato delle Camere”. In quel contesto, però, per il Presidente della Repubblica “non c'entra niente tutta la tematica delle stragi di mafia”. “Si vedrà – commenta Cianferoni –, questo non è oggi che si deve dire se c'entra o non c'entra”. “Siamo nel periodo tra l'estate e l'inverno, cioè agosto-dicembre del 93 – prosegue il legale di Riina –. Il Presidente Scalfaro ricorda se sentii il bisogno di fare un discorso a televisioni riunite sul problema del ‘non ci sto’?”. Quanto chiesto dal legale non viene, però, ammesso dalla Corte.

Mai parlato con Gianni De Gennaro
La successiva domanda dell’avvocato del capo di Cosa Nostra riguarda la possibilità che Napolitano avesse potuto accennare al prefetto Gianni De Gennaro degli allarmi dell’agosto ’93 sui possibili attentati nei suoi confronti e nei confronti di Giovanni Spadolini. Dalle trascrizioni emerge una sorta di irritazione del Capo dello Stato: “ma perché mai? – replica il Capo dello Stato –. (…) Perché quando era semplicemente un funzionario dell'Amministrazione dell'Interno, settore Polizia di Stato, io avrei dovuto parlare con lui? Le sue competenze in materia di Servizi vengono molti e molti anni dopo, certamente non nel 93, nel 93 non aveva nessuna responsabilità specifica nei rapporti con i Servizi”. “E successivamente?”, domanda ancora Cianferoni. “Lei pensa che io dieci anni dopo gli avrei dovuto chiedere: ‘a proposito, nel 1993 lei che faceva, che ne sapeva?’”, risponde infastidito il Presidente della Repubblica.

Con Emanuele Macaluso forse ho parlato
“Ha parlato con Emanuele Macaluso mai dei problemi degli attentati”, chiede successivamente Cianferoni. “Di questi problemi specificamente non so – risponde Napolitano –. Con il Senatore Macaluso parlo da una vita. Ma di questa vicenda non ricordo di avergli parlato”.

Non sono un mafiologo
“Le chiedo ancora – conclude il legale di Totò Riina –, sempre nel corso del suo esame lei ha usato l'espressione ‘gli attentati del ‘93 costituivano espressione di una logica unica e incalzante’. A fronte di questa valutazione, l'ipotesi di attentato ulteriore a figure quali il Presidente del Senato e il Presidente della Camera, come nella sua interpretazione, se taluno gliela spiegò, si ponevano, erano eccentrici o era lo stesso disegno? E se era lo stesso disegno, perché?”. “Non ho mai preteso di essere un mafiologo – sottolinea il Presidente della Repubblica – quindi queste sottigliezze non sono in grado di rappresentargliele in modo convincente”.

Nessun colloquio con Mori, mai conosciuto Subranni
“A proposito sempre di questo colloquio con l'Onorevole Violante – chiede in ultimo il Presidente della Corte Alfredo Montalto – e solo per completezza. Le fu fatto il nome del Generale... Oggi Generale Mori, all'epoca?”. “No”, è la risposta secca di Napolitano. “Quindi lei ha conosciuto, all'epoca evidentemente, non oggi, il Generale Mori e il Generale Subranni?”, insiste Montalto. “Subranni non ricordo di averlo mai conosciuto – replica il Capo dello Stato – e il Generale Mori o Colonnello Mori l'ho conosciuto di sicuro soltanto ai margini di cerimonie a cui io partecipavo nell'esercizio di varie mie funzioni e lui egualmente partecipava. Non ho mai avuto un colloquio con il Generale Mori, mai”. “La mia richiesta di precisazione – sottolinea il dott. Montalto – è se quella richiesta fatta da Ciancimino, fatta pervenire da Ciancimino, di incontro con l'Onorevole Violante, le fu in quel contesto in qualche modo ricollegata a possibili contatti precedenti tra Ciancimino e Mori o altri Carabinieri”. Con un asciuttissimo “no” si conclude quindi l’esame del Capo dello Stato. Dal canto suo il Presidente della Corte ringrazia Napolitano per la “massima disponibilità”, e infine i pm e le difese “per la serenità con cui comunque l'esame è stato condotto e credo che abbia portato a risultato”. A futura memoria.

DOSSIER Processo trattativa Stato-mafia

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