Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

1di Francesca Mondin - 27 marzo 2014
Matteo Messina Denaro è l'ultimo grande boss latitante protagonista del periodo stragista 92-93.
Le sue tracce risalgono a vent’anni fa. E’ del 1992 la lettera di addio lasciata alla fidanzata e più o meno della stessa epoca la sua ultima fotografia.
La sua latitanza rientra nei tanti, troppi misteri sulle catture mancate dei boss mafiosi e inevitabilmente ha sollevato e continua a sollevare molti interrogativi.
Chi lo protegge? Perché? Chi è in realtà Messina Denaro? E quali segreti custodisce?
A queste domande ha cercato di rispondere Riccardo Iacona nella sua ottima trasmissione “Presa Diretta” andata in onda su Rai 3 lunedì scorso.

La rete d'affari di Messina Denaro
Negli ultimi tempi le forze dell'ordine hanno fatto terra bruciata attorno al superlatitante andando a colpire la famiglia e i suoi patrimoni, così da minare la rete di protezione che il boss aveva tessuto in questi anni e che gli ha permesso di continuare i suoi affari e di concedersi una latitanza d'oro. Attraverso la sorella Patrizia, a capo della famiglia di sangue, messa sotto scacco nell'ultima operazione del dicembre scorso in cui sono stati arrestati 30 persone tra fiancheggiatori e parenti, curava i rapporti con gli altri membri del clan e gestiva gli aspetti economici della sua latitanza.
“Messina Denaro – spiega il pm Teresa Principato, che si occupa di coordinare le indagini mirate alla sua cattura da sei anni - gode di un consenso veramente notevole da parte di tutti, anche della borghesia trapanese … è un amalgama inscindibile di mafia e massoneria quindi è ancora più difficile capire chi lo favorisce veramente”. Consenso dovuto alla grande ricchezza del boss che gli ha permesso di contare soprattutto su una serie di imprenditori collusi attraverso i quali rinveste gli enormi capitali illeciti. Nel trapanese sono poche le attività economiche che direttamente o indirettamente non si possano ricondurre al capomafia di Castelvetrano o ad un suo prestanome. “Francesco Pace su disposizione di Messina Denaro ha creato un comitato d'affari di imprenditori che deve individuare tutti gli appalti più lucrosi ... la sua forza è quella di essere un soggetto catalizzatore anche dove meno te lo aspetti - spiega Giuseppe Linares, direttore della Dia di Napoli ma che per tredici anni ha dato la caccia a Messina Denaro nel trapanese - in alcune intercettazioni persone di discreta cultura dicevano “noi lo sicchu (Matteo Messina Denaro, ndr) lo dobbiamo adorare”.
La lista dei suoi fiancheggiatori, destinatari di sequestri e arresti, è lunghissima: da Giuseppe Grigoli e i supermercati Despar, ai lavori per il porto di Trapani per la Louis Vuitton Cup. Dalle società di Mazzara Michele a quelle dei fratelli Cascio.
Dalle operazioni e indagini condotte negli ultimi anni emerge inoltre come Messina Denaro avesse sotto controllo tutta la produzione dei calcestruzzi e il settore dell’eolico.
Al “signore del vento” Vito Nicastri sono stati sequestrati beni per il valore di 1, 3 miliardi di euro. La più grande confisca mai avvenuta in Europa.
A favorire il successo di Nicastri sembrano essere stati, secondo gli inquirenti, anche i buoni rapporti che l'imprenditore aveva con alcuni politici regionali come Riccardo Savona, onorevole prima dell'Udc, poi passato col Grande Sud ed ora dimessosi.
Ma si intravedono segnali di cedimento del dilagante consenso per il boss, ad esempio la collaborazione di Lorenzo Cimarosa, marito della cugina di Messina Denaro, stufo dell'atteggiamento “egoistico” del boss concentrato solo su se stesso e sulle proprie ricchezze.

I mancati arresti
La protezione data dalla sua ricchezza non basta però a spiegare l'infinita latitanza del boss.
Più volte infatti gli inquirenti sono arrivati vicinissimi alla cattura, ma in qualche modo è riuscito sempre a sfuggire.
Nel '96 i carabinieri, grazie ad una segnalazione, seguendo l'amante del boss, erano arrivati persino a mettere microspie e telecamere nella abitazione che il pentito Vincenzo Sinacori anni dopo confermerà essere stata frequentata dal boss. "Accadde una cosa strana; nessuno fece più accesso nell'immobile, le telecamere non davano più risultati, e dopo due mesi stanchi di aspettare entrammo nell'immobile e trovammo tutti i beni inscatolati pronti ad essere trasferiti -  racconta Roberto Piscitello, il pm che è arrivato ad un soffio del suo arresto -  fu forte il sospetto che qualcuno avvertì il latitante".
Ancora più inspiegabili risultano i casi del maresciallo Saverio Masi e del colonnello Fiducia le cui segnalazioni sui possibili covi del boss sarebbero cadute nel vuoto e bloccate dai propri superiori.
Saverio Masi, ora caposcorta di Nino Di Matteo, nel 2002, durante un pedinamento di Francesco Mesi, sospettato di essere uno dei favoreggiatori di Denaro. Piazza cimici e rilevatori satellitari sull’auto e segue Mesi nei pressi di una macelleria. Da lì arriva ad un casolare in una zona di campagna tra Bagheria e Misilmeri. Il maresciallo è convinto di aver individuato un possibile nascondiglio del boss di Castelvetrano ma quando chiede di poter indagare piazzando telecamere e microspie, verrebbe stoppato dal superiore che "lo invita" ad andare in vacanza. Nel frattempo non verrebbero eseguiti gli accertamenti.
Nel 2004 Masi, sempre nei pressi di Bagheria, aveva rischiato uno scontro in auto con un mezzo alla cui guida vi sarebbe stato proprio Matteo Messina Denaro. Così, seguendo la vettura, la vede fermarsi dinnanzi al cancello di una villa dove ad aspettare il boss c'è una donna. Dopo aver annotato l’accaduto, l’investigatore aveva chiesto di proseguire con le indagini, ma i suoi superiori gli avrebbero ordinato di omettere il nome del proprietario della casa e della donna. Solo più tardi aveva scoperto che la sua segnalazione non era mai stata trasmessa in Procura.
Situazione analoga si ripeteva con il luogotenente Fiducia che, nel 2011, in seguito ad una segnalazione circa la presenza di Messina Denaro in una zona di Bagheria, organizza un posto di blocco. Due Suv sfondavano la postazione: uno speronava la macchina dei carabinieri e l'altro passava indisturbato. Secondo il luogotenente dentro il secondo Suv c'era Messina Denaro ma ancora una volta dopo la sua segnalazione al Ros nessuno avrebbe proseguito le indagini.
Alla luce di questi fatti ecco che la metodologia investigativa dettata dai superiori appare quanto meno poco chiara e trova un’inquietante simmetria con le mancate catture di Provenzano. L'avvocato di Masi e di Fiducia, Giorgio Carta, spiega: “Ho incontrato altri carabinieri che in riferimento ad eventi diversi e in epoche distinte raccontano una tipologia di comportamenti assimilabile”.
Entrambi gli uomini delle forze dell'ordine hanno denunciato i fatti alla procura di Palermo ed ora sono in corso delle indagini, la denuncia è costata la querela da parte dei loro superiori denunciati, che ovviamente hanno negato tutto.

La trattativa Stato-mafia
Messina Denaro è l'ultimo boss rimasto libero che ha partecipato in prima fila al programma  stragista del 1992-93 e in tutta probabilità alla trattativa tra Stato e mafia.
Denaro è vicinissimo a Riina e a Provenzano, è il boss che, secondo le dichiarazioni del pentito Giuffrè, potrebbe avere in mano l'archivio di Cosa nostra con tutti i segreti.
Il magistrato Nicolò Marino, che ha svolto le indagini sulla strage di Capaci e Via D'Amelio sostiene: “Messina Denaro prende parte alle riunione in cui Riina da l'input della strategia delle stragi, certamente può considerarsi uno degli strateghi delle stragi a partire da quella di Capaci”. A confermare le parole di Marino è la sentenza della Corte di Assise contro il boss Tagliavia nella quale Messina Denaro viene indicato come mandante della strage di via dei Georgofili a Firenze.
Danilo Procaccianti, il giornalista che assieme a Elisabetta Camilleri e Fabrizio Lazzaretti hanno realizzato il reportage per Presa Diretta, ha portato in studio un documento dello SCO (servizio centrale operativo) firmato da Antonio Manganelli e datato al 1993. Nel rapporto si legge che i 5 attentati del '93 rappresenterebbero la continuazione della strategia stragista iniziata nel '92 in Sicilia. Il fine di queste bombe sarebbe quello di raggiungere una trattativa con lo stato per risolvere il problema del  pentitismo e del sistema carcerario. Così come nella relazione della Dia inviata alla Commissione Antimafia il 14 sett. 1993, da Nicola Mancino (imputato per falsa testimonianza nel processo Trattativa stato-mafia, ndr) troviamo scritto: “l'eventuale revoca o anche solo parziale dei decreti che dispongono l'applicazione del art. 41bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello stato intimidito dalla stagione delle bombe”.
Secondo il magistrato Alfonso Sabella che ha lavorato al DAP durante la gestione Caselli “E' chiaro che tra gli obiettivi dei mafiosi che trattavano con lo stato ci doveva essere per forza un alleggerimento del carcere duro”.
E in questo contesto si inserirebbe anche il fenomeno della dissociazione dei detenuti  al 41-bis. Sempre Sabella racconta che nel '96, grazie ad alcune microspie installate nel covo del latitante Carlo Greco, era stato possibile ascoltare la voce del capo mafia che spiegava ai suoi uomini che occorreva ottenere una normativa che consentisse ai mafiosi di avvalersi della dissociazione in modo tale di dare la possibilità ai detenuti di dissociarsi da Cosa nostra senza accusare altri ma al contempo di uscire dal 41bis e godere dei benefici penitenziari”. Nel 2000 Gian Carlo Caselli, all'epoca al vertice del Dap, viene informato, attraverso una lettera, dei colloqui investigativi del Pna Pier Luigi Vigna con 4 boss detenuti al 41-bis pronti a dissociarsi solo a patto di poter incontrare prima altri 4 boss anche loro disposti a dissociarsi. La  lettera era firmata dal guardasigilli Piero Fassino. “Ma - racconta Sabella, in quel periodo a capo dell'ufficio ispettivo del Dap - certamente la lettera era predisposta dal suo capo di gabinetto, Loris d'Ambrosio (ex-consigliere giuridico del presidente Napolitano fino al 2012, anno in cui è morto per attacco cardiaco, ndr)”. Il fine di quella lettera era quello di avere un opinione sui colloqui. La risposta di Caselli e Sabella fu contraria, e Fassino appoggiò la loro linea stoppando quindi l’attività di Vigna.
Ad ottobre del 2001 Marzia Sabella, magistrato a Palermo e sorella di Alfonso, gli comunica che il boss Salvatore Biondino ha chiesto di poter svolgere la mansione di “scopino” all’interno del carcere. Un espediente che gli avrebbe dato la possibilità di entrare nelle celle dei 4 boss pronti a dissociarsi. Salvatore Biondino, secondo una notizia uscita nel gennaio di quell'anno, sarebbe stato incaricato da Riina di fare il collante tra tutte le mafie per trattare la dissociazione con lo Stato. Perciò Sabella, il 3 dicembre, redige una relazione in cui consiglia di allertare la polizia penitenziaria di questo fatto. Il 5 dicembre il procuratore Giovanni Tinebra, subentrato a Caselli nel marzo del 2001, sopprime però l’ufficio di Sabella.  
L'intervento di Loris D'Ambrosio sulle manovre di dissociazione potrebbe spiegare ulteriormente la sua  preoccupazione, espressa un mese prima di morire al presidente Napolitano, “di esser stato considerato un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo di indicibili accordi”.

Sonia Alfano e il protocollo farfalla
Il pm Sabella viene sostituito dal collega Salvatore Leopardi il quale è oggi accusato di aver omesso di denunciare alcune informazioni ricevute da un carcerato riguardo alcuni latitanti. Leopardi, invece di comunicarlo alla procura di Napoli, avrebbe informato solo il Sisde. E' in questo contesto che si inserisce il "protocollo fantasma", un accordo tra l'amministrazione penitenziaria e i servizi segreti che consentirebbe il libero accesso alle carceri da parte dei servizi segreti, senza alcuna comunicazione all’autorità giudiziaria. Riguardo a questo protocollo ci sono molte opinioni. Secondo la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, non c'è un vero e proprio protocollo mentre il vicepresidente Claudio Fava è certo della sua esistenza.
La figlia di Beppe Alfano, Sonia Alfano oggi eurodeputata, ospite di Iacona, ha avuto l'occasione di entrare nelle carceri e parlare con alcuni dei più importanti boss mafiosi. A riguardo racconta di aver vissuto sulla propria pelle il famoso ”protocollo farfalla”: “Io ne sono certa che il protocollo fantasma esiste perché questa mia sensazione ha trovato fondatezza anche quando ho incontrato Provenzano”.
Sonia Alfano ha poi voluto concludere il suo intervento denunciando la solitudine in cui sono lasciati alcuni magistrati che si occupano di processi delicati: “Io vedo sempre più isolamento attorno alle figure di pochi magistrati e questo è un segnale terribile”.

I mandanti dell'omicidio a Carlo Palermo
Nel corso della puntata è stato affrontato anche il delicato caso del fallito attentato al giudice Carlo Palermo, avvenuto il 2 aprile 1985. Attentato nel quale morirono i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta assieme alla madre Barbara mentre andavano a scuola. La loro macchina si trovò tra l'auto bomba e la macchina del giudice nell'esatto momento dell'esplosione. Involontariamente fecero da scudo a Palermo il quale si salvò.
Carlo Palermo era appena arrivato da Trento per continuare a Trapani un'inchiesta su un traffico internazionale di armi e droga che lo aveva portato fino ai servizi segreti deviati e che coinvolgeva anche il presidente del consiglio dell'epoca Bettino Craxi.
Era chiaro che il giudice aveva toccato da subito i fili dell'alta tensione: “Vi erano vari filoni economici, politici, massonici, i servizi segreti vi furono procedimenti che in particolare furono a mia conoscenza addirittura sin dai primi giorni - spiega lo stesso Carlo Palermo - e che riguardavano la banca sicula”, banca nella quale il nominativo Messina Denaro faceva capolino tra una carta e un'altra.
Il quadro offerto da questa puntata di Presa diretta sicuramente può aiutare a districare la matassa di fili che collegano massoneria, mafia, politica, servizi segreti, Ros e imprenditoria con la lunghissima latitanza di Matteo Messina Denaro.
“Forse  Matteo Messina Denaro è ancora latitante perché non lo si vuole prendere, come può uno stato così forte non riuscire ed arrestarlo? Quando verrà arrestato cosa succederà? Salteranno degli equilibri?”.
Messina Denaro è il boss che ha vissuto il periodo stragista ed essendo ancora libero può essere considerato il boss più in alto nella piramide mafiosa, nonostante il popolo mafioso riconosca la carica ancora a Totò Riina.
Tuttavia dalle ultime notizie risulta del malcontento sulla gestione di Matteo Messina Denaro. L’imprenditore Cimarosa non è l'unico a definirlo “egoista” ma lo stesso Totò Riina dal carcere di Opera lo ha disconosciuto e deposto: “A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr), questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel c.... fa pali per prendere soldi ma non si interessa di...”.
Quel che è certo è che Matteo Messina Denaro conosce segreti che per molti è bene rimangano tali.

ARTICOLI CORRELATI

Svelato il nuovo volto di Matteo Messina Denaro

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos