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di-matteo-nino-web4di Aaron Pettinari - 13 febbraio 2014
Denunciati anche Sallusti e Belpietro

Il sostituto procuratore di Palermo Antonino Di Matteo ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Vittorio Sgarbi e i giornalisti Filippo Facci, Giuliano Ferrara ed Enrico Deaglio per una serie di pezzi scritti sulle minacce lanciate al magistrato dal boss Totò Riina durante conversazioni intercettate con il detenuto pugliese Alberto Lorusso. Il pm, che è titolare dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, per cui si procede anche in dibattimento a Palermo, ha querelato anche i direttori responsabili delle testate sulle quali gli articoli sono stati pubblicati: Il Giornale, Libero, Il Foglio e il Venerdì di Repubblica.
La motivazione è spiegata dallo stesso magistrato: “Dopo la pubblicazione successiva al deposito processuale delle intercettazioni di numerose conversazioni nelle quali Riina ripetutamente si riferisce alla mia persona anche manifestando la sua volontà di uccidermi paradossalmente è iniziata quella che ritengo una vera e propria campagna di stampa che, partendo dal chiaro travisamento dei fatti, tende ad accreditare versioni che mi indicano quale autore di condotte e comportamenti che non ho mai tenuto”. “Non posso accettare - ha concluso il pm - che si continui a speculare impunemente perfino su vicende che tanto incidono anche sulla mia vita personale e familiare”.

La storia si ripete
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande... In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Erano queste le parole profetiche di Giovanni Falcone pronunciate durante l'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per “Cose di Cosa Nostra”. E la solitudine nei confronti di Falcone prima, e Paolo Borsellino poi, si è manifestata nel tempo anche grazie a certe voci, spesso indistinte, volte a screditare i due magistrati, provenienti da ambienti giornalistici, politici e persino dalla magistratura.
borsellino-falcone-shobha-bigNell'anno del fallito attentato all'Addaura i veleni contro Falcone assumono toni violenti. “Se l’è fatto da solo”, “vuole fare il martire”, “punta all’avanzamento di carriera”. Voci fatte girare ad arte dai tanti detrattori del giudice che alla lunga viene costretto a lasciare Palermo (dove non gli era permesso di svolgere il proprio lavoro ndr) per accettare l'incarico presso gli uffici Affari penali. E come dimenticare le parole di un grande scrittore e intellettuale come Sciascia che, in un lungo articolo intitolato “I professionisti dell'Antimafia”, ha criticato l'assegnazione del posto di procuratore capo di Marsala a Paolo Borsellino esprimendosi in toni a dir poco pesanti (“I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale piu', in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”). Un articolo che è diventato uno slogan adoperato “da uomini, ominicchi e quaquaraquà” per screditare la magistratura antimafia che si trova invece a fare il proprio dovere.
Ed è proprio ciò che è accaduto in questi mesi, anche se il paragone tra i protagonisti del feroce attacco nei confronti di Di Matteo e Sciascia, uno scrittore che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia, può apparire azzardato o discutibile.

Attacco a Di Matteo
E' Vittorio Sgarbi a scrivere sul Giornale il 2 gennaio: “Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri. Se Riina è reso inoffensivo dallo Stato che lo ha arrestato, perché dobbiamo ritenerlo pericoloso e potente anche in carcere? Perché dobbiamo alimentarne la leggenda? Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione”.
Ferrara tenta di svilire le intercettazioni di Riina parlando di “una spaventosa messa in scena” architettata da “qualche settore d’apparato dello Stato italiano” per “mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e sgarbi-vittorio-web3monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo”. E in merito al ruolo di Lorusso, il boss della Sacra corona unita che per mesi ha trascorso l'ora d'aria assieme al capo dei capi, lo descrive come un “agente provocatore” infilato da fantomatici “apparati”, amici di Di Matteo, accanto a Riina per farlo “parlare in modo consono agli intendimenti dei pupari”.
Un concetto ribadito anche da Enrico Deaglio che descrive Lorusso come “L'‘agente provocatore’ inviato dal pm Di Matteo a raccogliere informazioni che lo riguardavano personalmente. Il pm voleva sapere se Riina avesse intenzione di farlo ammazzare” e che sottovaluta la dimensione del boss corleonese (“Oggi un Riina che spiffera, gesticola e minaccia, chissà perchè non riesce più a fare paura”) ritenuto dagli stessi sodali di Cosa nostra come capo (vedi le difficoltà riscontrate dai Capizzi nel cercare di ricostituire la commissione provinciale nel 2008).
E a questi si aggiunge Filippo Facci, con il suo solito tono provocatorio ed anche controverso che sulle colonne di Libero, scriveva che “Le minacce a Di Matteo non sono certe manco per niente: gli stessi giornali che hanno montato il caso ammettono che 'si sa poco' e citano delle frasi genericissime di Totò Riina, intercettato in carcere”. E poi ancora in un altro articolo: “va pure detto, nell'attesa, che l'intercettazione in cui si presume che Riina parli di Di Matteo è stata predisposta dalla Dia, o meglio: da Di Matteo. E va pure detto - nonostante non ci sia ancora prova che Riina parlasse di lui o che stesse progettando alcunché - che a essere convinto che il bersaglio fosse Di Matteo è lo stesso Di Matteo: 'Se mi torcono un capello, questa volta c'è la prova, è lì nel video' ha detto ieri a Repubblica. Di dubbi Di Matteo non ne ha neanche mezzo: 'L'ordine di morte partito da Riina e tutti quegli anonimi sono arrivati in sincronia quando, anche dopo il rinvio a giudizio, abbiamo deciso di non fermarci con l'inchiesta'. Quella sulla trattativa”.
Il “bello” di Facci è che nello sviluppare i propri ragionamenti torna anche su se stesso “può essere assolutamente che Riina parlasse di Di Matteo” ma poi conclude “I casi, forse, sono due. Il nuovo Riina preannuncia una nuova stagione di mafia; oppure, nelle intenzioni di chi lo sta usando, una nuova stagione di antimafia”.
Per fortuna quei video sono stati diffusi e il nome di Di Matteo è tutt'altro che genericamente usato da Riina nel suo colloquio con Lorusso.
facci-filippo“Di questo processo – dice il boss mafioso - questo pubblico ministero di questo processo, che mi sta facendo uscire pazzo, per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia.... perchè me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina”.
E poi ancora. “Ed allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più”. Dal canto suo Alberto Lorusso risponde affermativamente con la testa. Riina insiste: “Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare… gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile… ad ucciderlo… un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo partivamo la mattina da Palermo a Mazara, c’erano i soldati poverini a fila indiana a quel tempo”. “Ecco perché incominciamo da Di Matteo – prosegue l’anziano boss – , perché in questi giorni Di Matteo, Di Matteo perché Di Matteo tutte, tutte, tutte le cosa le impupa lui. Perché… perché lui pensa ma se questo è Riina ma questo è così freddoso, così terrificante, ma così malvagio… questo, ci macina a tutti e ci mette a tutti sotto i piedi, a tutti… minchia”.
E infine conclude: “Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato. Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore di Palermo assassinato dalla mafia nel 1971 ndr), a questo gli finisce lo stesso”.

Fango
Ma Facci a Di Matteo lo “porta nel cuore” senza mai mancare di nominarlo neanche in televisione. L'ultimo tentativo è quello di trascinare il magistrato palermitano all'interno del depistaggio condotto durante le indagini della strage di via d'Amelio, dimenticando, o facendo finta di dimenticare,ferrara-giuliano che Di Matteo era appena arrivato alla Procura di Caltanissetta proprio sul finire delle indagini inerenti il “Borsellino bis” e quale giovanissimo magistrato non si sarà nemmeno sognato di mettere in discussione l’impostazione data dai suoi colleghi più esperti e dal fior fiore degli investigatori antimafia come Arnaldo La Barbera. Allora vi erano altri magistrati in Procura che avevano potere decisionale sull'inchiesta a cominciare dal procuratore Tinebra fino ai pm che avevano avviato da prima le indagini ovvero Annamaria Palma e Carmelo Petralia, ed un primo processo era già stato portato avanti proprio basato sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Di Matteo, assieme alla Palma, ha invece condotto il processo cosiddetto “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra, lo istruisce e lo porta fino alle richieste di condanna all’ergastolo per tutta la cupola mafiosa e le ottiene fino in Cassazione. Ed è in questa parte del processo che vengono accusati, processati, chiesti e ottenuti gli ergastoli per gli uomini di Brancaccio (tra questi Filippo Graviano e Cristoforo Cannella) che oggi anche la nuova indagine della Procura di Caltanissetta ritiene responsabili della fase preparatoria e della fase esecutiva. Certo possiamo domandarci come sia possibile che alcuni personaggi accusati da Scarantino sono innocenti ed altri invece sono colpevoli, ma su questo sarà la Procura nissena a chiarire questo aspetto.
Il “Borsellino ter” è anche il processo in cui, congiuntamente con il processo di Firenze, si parla di mandanti esterni e, sulla base delle dichiarazioni di pentiti come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, nella requisitoria del pm Di Matteo vengono indicati tra le prime voltedeaglio-enrico Berlusconi e Dell’Utri come referenti stabili per Cosa Nostra tanto a Palermo quanto a Catania.
E oggi Di Matteo ed i colleghi del “pool trattativa” sono nell'occhio del ciclone in quanto di fronte alle minacce, alle intimidazioni ed alle condanne a morte hanno deciso di non arretrare di un passo la propria ricerca della verità.
Ebbene sì, siamo tornati a respirare l'aria di quei primi anni Novanta anche per gli attacchi di chi non vuole che certi “altari ed altarini” siano scoperti.

Informazione e verità
Sono passati oltre vent'anni dalle stragi ed è davvero tutto uguale, o quasi. Perché dove non arriva il potere c'è la società civile, quella sì, che da settimane è schierata accanto a Nino Di Matteo ed i suoi colleghi in quella che è stata chiamata “Scorta civica”. E anche i giornalisti dovrebbero fare la propria parte.
“Io ho un concetto etico del giornalismo – scriveva il giornalista Pippo Fava - Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, fava-giuseppe-web0pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Dalle parole del direttore de I Siciliani, ucciso dalla mafia trent'anni fa, si ricava un vademecum per chiunque pratica la carriera del giornalista. Osservando il mondo dell'informazione ci si accorge però che non tutti hanno bene in mente certi concetti o funzioni. Un'informazione che, in buona parte,  in Italia non è “quarto” o “quinto” potere, ma è direttamente, o indirettamente, “servo” della politica e della finanza.
Quella stessa politica e finanza che oggi potrebbe finire sotto la lente d'ingrandimento giudiziaria e che per evitare lo svelamento di “indicibili accordi” si trova ancora una volta a sminuire (si parla sempre di “cosiddetta trattativa” anche se questa è certificata dalla corte d'Assise di Firenze), delegittimare (il caso più eclatante è sicuramente il conflitto d'attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo), isolare ed attaccare chi compie il proprio lavoro al servizio della verità. Forse perché è proprio questo che fa paura.

Foto Borsellino-Falcone © Shobha

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