Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Il racconto di Vullo riaccende un film dell'orrore. «Nell'aria si avvertiva qualcosa di strano... Claudio mi guardò in faccia e mi disse: “Osserva il cielo. Sta diventando cupo”. Era vero. Eppure quella era una giornata splendida. Io mi guardavo attorno come se presentissi qualcosa. Lì non c'ero mai stato e non potevo immaginare che davanti all'abitazione della madre di Borsellino fossero posteggiate tutte quelle auto. Mi sembrò strano non trovare un divieto di sosta. Il giudice mi supera e va a piazzarsi davanti al cancelletto. Lo affianco, lascio scendere i colleghi, poi avanzo di una quindicina di metri. Il mio compito è quello di posizionarmi a un'estremità della strada per impedire l'accesso alle altre auto. Quando vedo che la parte che devo tener d'occhio non ha vie d'uscita, tiro un sospiro di sollievo. Faccio manovra, mi metto di traverso e aspetto che Borsellino entri nel portone. L'altra auto di scorta era accanto alla Croma del magistrato». In quel preciso istante Borsellino si accende una sigaretta. E' davanti all'ingresso numero 19. L'autobomba è posizionata a circa due metri da dove si trova. Con un potente binocolo qualcuno osserva i movimenti del giudice. Una mano appoggiata al radiocomando attende l'ordine prestabilito. Pochi secondi e il pulsante viene premuto. L'esplosione avviene alle 16,58 con una potenza tale che il boato si sentirà in quasi tutta la città. E' l'Apocalisse. Ma Vullo miracolosamente si salva perché in quel momento si trova all'interno dell'auto blindata. «Una fiammata mi investe, l'auto viene sollevata da terra e rovesciata. Apro lo sportello e mi tiro fuori prima che la blindata esploda. Sento scoppi, esplosioni. Vedo fumo e morte. Prendo la pistola, istintivamente, e a un certo punto vedo sbucare dalla nebbia un poliziotto, uno delle volanti, il primo ad arrivare. Poi su di me scende il buio»44. Ma prima che ciò accada i suoi occhi vedranno scene raccapriccianti. Che lo tormenteranno nei giorni e nelle notti che seguiranno. Mentre si avvicina al luogo dell'esplosione si accorge di aver pestato qualcosa di morbido, è un pezzo di un piede di un suo collega. Tutt'attorno brandelli di carne umana e pozze di sangue. Palazzi sventrati, auto in fiamme, macerie da tutte le parti con pezzi di cadaveri volati fino agli ultimi piani dei palazzi. Un fumo nero e denso ammorba l'aria. Tutti gli allarmi strillano senza fine. Poi quel «buio» dal quale cercherà di fuggire per anni avvolgerà Vullo fino al suo risveglio in ospedale. I 90 chili di esplosivo posizionati nel bagagliaio di una fiat 126 hanno portato l'inferno sulla terra. Il famigerato “Semtex-H”, un esplosivo di produzione cecoslovacca contenente T4 e Pentrite (venduto legalmente fino al 1989, dopodichè in dotazione soltanto alle Forze Armate e soprattutto merce di scambio tra ambienti legati ai servizi e la criminalità organizzata), massacra sei persone senza pietà. La bomba porta con sé una devastazione con una potenza equivalente a 900 chili di tritolo. Sul terreno sottostante il punto di scoppio l'esplosione formerà un cratere a forma di calotta sferica con 2 metri e 30 per 2 metri e 10 di diametro e profondo 34 cm. La città di Palermo è un campo di guerra. Con l'autobomba di via Pipitone Federico che aveva massacrato Rocco Chinnici, Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta il 29 luglio 1983, i giornali avevano definito Palermo «come Beirut». Ma con la strage di via d'Amelio il livello si alza ulteriormente. Questo è un inferno che riporta indubbiamente alla memoria gli eccidi di Beirut, ma che porta con sé l'ombra delle stragi di Stato iniziate con Portella della Ginestra. Pochi minuti dopo l'esplosione giunge sul posto la prima pattuglia di polizia. Dopodichè arrivano i vigili del fuoco. Uno di loro, munito di telecamera, riprende le primissime immagini. Scene che nessun servizio televisivo avrebbe mai potuto mandare in onda. Via d'Amelio è affollata come la piazza principale di una grande città. Oltre ai pompieri che si affannano a spegnere tutti i focolai rimasti ci sono i soccorritori con i loro camici bianchi. Da ogni angolo spuntano gli inquilini dei palazzi bombardati che si allontanano scioccati. Tutt'attorno uomini delle forze dell'ordine in divisa sono impegnati nelle primissime attività post attentato: da quelle a carattere investigativo, a quelle più generiche finalizzate alla pubblica sicurezza. C'è anche un vigile del fuoco che mosso da un gesto di pietà raccoglie in alcuni secchi colorati i brandelli di carne dei cadaveri prima che l'arrivo di cani randagi possa dare inizio ad uno scempio senza fine. Giornalisti, fotografi e cameraman si sparpagliano in mezzo alla folla. In quel caos di morte e distruzione si muovono con destrezza molti uomini delle istituzioni. Alcuni sono distinguibili con i propri distintivi sul petto. Parlano tra di loro. Fra i tanti, troppi curiosi presenti in quella via anche molte facce indecifrabili. Uomini che scrutano, che controllano, che bisbigliano. La telecamera del pompiere compie una prima panoramica. Lo strazio che si presenta davanti ai suoi occhi lo mette a dura prova. Dalle finestre dei palazzi sventrati sono scomparsi quasi tutti i vetri. Molte schegge dondolano pericolosamente. Ma è rivolgendo la videocamera al suolo che quell'inferno si manifesta in tutta la sua virulenza. Sui resti delle vittime qualcuno ha già messo dei lenzuoli bianchi. Nel momento che una mano pietosa sposta un telo l'inimmaginabile prende forma. Il corpo straziato di un uomo è rivolto verso il cielo, sul suo viso gli occhi sono aperti. Sgranati. Quasi fosse la reazione alla violenza dell'ultima immagine assorbita. Ma è quando un altro lenzuolo si solleva che si materializza la figura del giudice. Paolo Borsellino è lì, per terra. In mezzo ai detriti. L'esplosione gli ha tranciato di netto le braccia e le gambe. Il suo volto è annerito, ma sotto i suoi baffi si riconosce l'accenno di un sorriso, un'espressione che mai nessuno avrebbe immaginato di poter ritrovare in quel momento nel viso del giudice. Lucia, la figlia maggiore del giudice, si fa largo tra la folla. Scorge quel sorriso dietro la fuliggine che copre il volto di suo padre. La straordinaria forza d'animo di questa ragazza farà si che sarà proprio lei successivamente a ricomporre e a vestire suo padre alla camera mortuaria. E sarà sempre Lucia Borsellino a sostenere un esame universitario a distanza di poche ore dalla strage lasciando esterrefatta la commissione giudicante. In quei frangenti la telecamera del vigile del fuoco inquadra il marito di Rita Borsellino mentre si inginocchia e accarezza il volto del magistrato. E' un tocco leggero. Che racchiude tutto l'amore e il dolore di un uomo. Con profonda dignità socchiude gli occhi in una muta preghiera. Dietro di lui si avvicina qualcuno, gli appoggia delicatamente una mano sulla spalla e lentamente lo fa rialzare, il telo viene così rimesso a posto.

Tratto da: Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino(Bongiovanni, Baldo, ed. Aliberti)