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di-matteo-teresi“Sull'inchiesta trattativa, lasciati soli contro gli attacchi”
di Giorgio Bongiovanni - 11 dicembre 2012
Delusione, amarezza, rabbia. Dopo la presa di posizione da parte dell'Anm nazionale, in merito alla decisione della Consulta di accogliere il ricorso del Quirinale nel conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, era necessario un segnale forte. Così Nino Di Matteo, pm storico del pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia, e Vittorio Teresi, l'aggiunto che ha preso il posto di Antonio Ingroia nel coordinamento del procedimento, rispettivamente presidente e segretario della giunta distrettuale di Palermo dell'Associazione nazionale magistrati, hanno comunicato le proprie dimissioni irrevocabili.

“Non riesco più a sentirmi parte di un'associazione che, nei suoi organi rappresentativi a livello nazionale, si è andata sempre più caratterizzando per valutazioni e interventi che sembrano dettati da criteri di 'opportunità politica' e che talvolta finiscono per denotare un pericoloso collateralismo al potere a scapito della doverosa tutela di colleghi impegnati in attività giudiziarie particolarmente complesse e delicate”, ha scritto Di Matteo, che si è dimesso anche dal ruolo di componente della giunta, in una lettera indirizzata alla giunta nazionale, a quella distrettuale e a tutti i colleghi del distretto di Palermo.
In particolare, nella lettera, Di Matteo fa riferimento all'atteggiamento avuto dall'Anm nazionale a proposito delle polemiche sorte dall'indagine della procura sulla trattativa Stato-mafia e ha rimproverato il sostanziale silenzio “a fronte degli inauditi attacchi personali” ai titolari dell'inchiesta e alla sentenza della Consulta che ha deciso sul conflitto di attribuzioni proposto dal Colle. “Mi ha colpito, ancora una volta, ma certamente non sorpreso, l’atteggiamento dell’Anm. A fronte della gravità delle contestazioni che (con l’accoglimento del ricorso) vengono mosse ai magistrati di Palermo sulla base di  un quadro normativo incerto se non inesistente, e pur in presenza di una decisione che sembra entrare in conflitto con altri fondamentali principi costituzionali, l’Anm non ha ritenuto di spendere una sola parola a difesa dell’operato dei magistrati di Palermo, limitandosi a stigmatizzare pesantemente le critiche che il collega Ingroia (peraltro collocato in aspettativa e non più titolare del procedimento dal quale era scaturita la questione) aveva osato muovere alla sentenza’’. “Evidentemente, per l’ennesima volta – prosegue Di Matteo- nelle scelte degli organismi rappresentativi dell’Associazione, ragioni di opportunità politica hanno prevalso sul dovere di difendere e di non isolare ulteriormente magistrati che si trovano oggi accusati di aver violato le prerogative della più alta carica dello Stato quando invece (come altri colleghi di Milano e Firenze in passato imbattutisi nella identica situazione) avevano agito nel pieno rispetto della normativa vigente”. E la conclusione è ancor più dura: “Anche in questo caso l'Anm non ha saputo fare altro che prendere le distanze da quei magistrati che dovrebbe tutelare e rappresentare. Così contribuendo ad alimentare la volontà dei tanti che vorrebbero in futuro una magistratura sempre più pavida e burocratizzata ed attenta, più che a rendere giustizia, a non disturbare l'azione dei potenti. Non è questa la Magistratura nella quale ho sempre creduto e nella quale continuerò a credere.
Non è questa l’Anm che può realmente rappresentare gli interessi dei magistrati che quotidianamente operano mossi esclusivamente dal rispetto dei principi della Costituzione alla quale tutti abbiamo giurato fedeltà”. Come abbiamo già detto e scritto in questo giornale, ancora una volta ci troviamo a constatare, tragicamente, il ripetersi della storia.
Ancora una volta uomini di punta nella lotta alla mafia si trovano costretti a difendersi non dal fuoco dei nemici, ma da quello “amico” dei colleghi e delle istituzioni che loro stessi difendono. E' accaduto con Pietro Scaglione, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, passando per il generale dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Così ancora una volta la politica, i vertici della magistratura e lo Stato tornano a mettere in atto la subdola, quanto perversa, tecnica dell'isolamento.
Un'azione che potrebbe dare il via a nuovi sacrifici di vite. Ricordo come ebbe inizio la “lenta morte” di Giovanni Falcone quando, era il 1988, il Csm lo bocciò come consigliere istruttore caricandosi una parte di responsabilità della sua morte.
Segnali che oggi si ripetono e che rischiano di sovraesporre i magistrati alla vendetta mafiosa. Cosa Nostra è vigile e spera così come sperano quegli uomini dello Stato che nel biennio '92-'93 hanno trattato con la mafia e dato vita alle stragi. Ad alcuni ci sono voluti 17 anni per ritrovare la memoria e raccontare pezzi di verità. Altri sono pronti a portare i propri segreti nella tomba, sperando che la mafia intervenga prima, svolgendo il lavoro sporco per loro.
Non è fanatismo pensare che anche oggi Cosa nostra, malgrado abbia subito colpi durissimi, possa nuovamente raggiungere quella convergenza di interessi con i poteri dello Stato. Un nuovo patto per compiere una strage ed impedire il trionfo della Verità. La differenza con il passato, forse, è che oggi sarebbe lo Stato-mafia, in antitesi con lo Stato-Stato (per dirla con le parole di Vittorio Teresi), a chiedere per prima ai mafiosi l'attentato.
In passato la società civile ha dato segni di risveglio solo dopo le morti di uomini come Falcone, Borsellino e tanti altri martiri della giustizia. Per non render vano il loro sacrificio è necessario intervenire ora, scendendo nelle piazze e sostenere i veri servitori dello Stato. Quel che è certo è che noi faremo tutto quello che è in nostro potere per evitare il nascere di nuovi martiri.

ANTIMAFIADuemila
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