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di Monica Centofante - 7 ottobre 2010
Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra unite in una nuova comune strategia stragista. L'allarme scattato a fine settembre, quando alla Dia di Caltanissetta è stata recapitata una lettera anonima, forse proveniente da ambienti legati ai servizi segreti, non nasce dal nulla.
     

Ma avrebbe dei precedenti che risalgono al 1992 - anno delle stragi di Capaci e Via D'Amelio – e, più recentemente, al 2008, quando boss calabresi e siciliani discutevano al 41 bis di un non meglio specificato “colpo” al Procuratore Nazionale Grasso e della necessità di unire le forze per risolvere l'annoso “problema” del 41bis.

Nel primo caso le informazioni sarebbero il frutto dei più recenti sviluppi dell'indagine denominata “sistemi criminali”. Che vedrebbero un accordo siglato tra le tre mafie nell'anno delle stragi siciliane in cui fui furono assassinati i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli uomini delle loro scorte.
Al 2008 invece, anno in cui il giudice Pignatone prese servizio alla testa della procura di Reggio Calabria, risale una inquietante riunione tra quattro boss di primo piano rinchiusi al 41bis nel carcere di Tolmezzo e che sembrano rivelare l'esistenza di un patto tra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta.
La notizia del summit, inizialmente frutto di un'indiscrezione, era stata riportata nel decreto di fermo “Cent'anni di storia”, da cui sarebbe scaturito l'omonimo processo attualmente in corso davanti davanti alla stessa procura reggina.
E nel documento si legge che il boss di Gioia Tauro Giuseppe Piromalli – al vertice di una delle più potenti famiglie nella storia della ‘Ndrangheta, da sempre collegata con Cosa Nostra – sfruttava l'ora di socialità per riunirsi e discutere di affari e strategie con altri boss detenuti come lui con i rigori del carcere duro. Tra questi, capi siciliani di Cosa Nostra della portata di Antonino Cinà con i quali si confrontava in merito allo “speciale regime detentivo di cui all’art. 41bis contro la cui applicazione le organizzazioni mafiose calabrese e siciliana cercano di fare fronte comune attraverso l’elaborazione di una strategia unitaria”.

Tra gli argomenti affontati dal Cinà, la necessità di trovare nuove vie per la conquista degli appalti, alla quale Piromalli rispondeva di avere gli appoggi giusti, le amicizie necessarie ad assicurarsi i soldi che si stavano riversando sulla Calabria e non solo. E in seguito alla manifestata preoccupazione del boss di Cosa Nostra per via dei tanti arresti e successivi pentimenti, registrati in Sicilia, i quattro parlavano della necessità di mandare un segnale a Grasso. Visto come un ostacolo all'allentamento della repressione sia all'esterno che all'interno delle carceri, cosa sulla quale avrebbero indagato le procure di Napoli, Palermo e Reggio Calabria.

Sin da subito l'episodio sembrava infatti rivelare l'esistenza di un accordo tra la mafia siciliana e quella calabrese, rafforzato dal contenuto di un'intercettazione riportata nello stesso decreto di fermo.
A parlare Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli, figlio del superboss Giuseppe e Aldo Miccichè, faccendiere, già dirigente della Democrazia Cristiana, originario di Marapoti ma rifugiato da anni in Venezuela (dopo una condanna a 25 anni di reclusione).
E' il primo, in vista di un imminente incontro con il senatore Marcello Dell'Utri (mai indagato), al quale la cosca Piromalli intendeva offrire sostegno politico in cambio di favori , che aveva allargato i confini della disponibilità: “Ho avuto autorizzazione di dire – sono le parole riportate nel documento – che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”.

Ancora, in questa stessa chiave potrebbero essere letti i contatti privilegiati intrattenuti dai Piromalli, in quello stesso periodo, con i Santapaola di Catania. E soprattutto l'incontro tra Gioacchino Piromalli, cugino dell’indagato Antonio, e soggetti appartenenti al mandamento di Brancaccio.
Rapporti ai quali la stampa, a seguito delle pericolose indiscrezioni, aveva dato ampio risalto suscitando le ire del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e le conseguenti reazioni dei boss. Tutto il gruppo dei siciliani, in particolare, ricordano i giudici nel documento di fermo, “chiedeva di parlare con l’Autorità Giudiziaria di Palermo per chiarire a loro modo il contenuto delle dichiarazioni captate” all’interno del carcere di Tolmezzo. Mentre Giuseppe Piromalli, durante il primo colloquio con i familiari seguito agli accadimenti, si dilungava in precisazioni di comodo sull’argomento e dimostrava la piena consapevolezza che quel discorso era registrato dagli inquirenti. “...che lo sappia la Distrettuale ... di Reggio Calabria che lo sappia il Ministero ... perché a me il 41 ... mi sta bene”, sono le parole del boss, che ai familiari spiegava: “quando vogliono distruggere qualcuno ... lo Stato ... i Servizi ... sanno come fare...”.

A seguito della pubblicazione delle notizie sulla stampa il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria si era affrettato a sottolineare di avere da tempo rafforzato i controlli sui detenuti sottoposti al carcere duro. E non solo in seguito a quanto appreso a Tolmezzo, ma in coincidenza con un altro episodio: il ritrovamento di una microspia in un ufficio della procura di Reggio Calabria utilizzato dall'allora pm Nicola Gratteri.

Il 2008 è infatti anche l'anno dei veleni e dei corvi alla Procura di Reggio Calabria.
La cimice era stata rinvenuta il 22 aprile in uno sgabuzzino della segreteria di Gratteri dove il magistrato teneva solitamente colloqui riservati con gli investigatori, faceva loro il punto delle indagini, si accordava con la polizia giudiziaria e veniva informato circa i contenuti delle intercettazioni in corso. Operazioni riservatissime su inchieste riservatissime che coinvolgevano anche insospettabili colletti bianchi e delle quali il pm, chissà perché, non si fidava di parlare neppure nel suo ufficio. Particolare che evidentemente, chi aveva piazzato la microspia – forse un collega magistrato, per come emerso successivamente - sapeva bene.

A permettere il rinvenimento dell'apparecchio era stata una bonifica affidata ai Ros e ordinata dal neo-Procuratore Giuseppe Pignatone, insediatosi a Reggio il precedente 15 aprile con un'accoglienza davvero poco gradita: la sua nuova stanza era stata violata già prima del suo arrivo da qualcuno che avrebbe tentato di entrare.

Un clima di tensione alimentato da una serie di lettere anonime recapitate alcune settimane prima negli uffici del Cedir e contenenti parole pesanti rivolte all'intera procura. L'autore delle missive, che si firmava “il Corvo” (ispirandosi al personaggio che una ventina di anni prima aveva seminato veleni nel Palazzo di giustizia di Palermo) era chiaramente in possesso di notizie sulla vita privata dei magistrati e su indagini riservate. Un lavoro per abili “manine”, forse le stesse che si nascondono oggi dietro alla nuova strategia della tensione che a Reggio Calabria ha raggiunto il suo apice due giorni fa, quando una telefonata anonima ha preceduto il ritrovamento di un bazooka davanti al Tribunale reggino.
Solo l'ultimo di una serie di attentati e intimidazioni che si susseguono da gennaio ad oggi e che per gli investigatori rappresenta una conferma agli avvertimenti lanciati dall'anonimo estensore della missiva giunta a Caltanisetta alla fine di settembre.
Anche quella, ad un primo esame, sembra essere una informativa dei servizi segreti. E il gioco si fa sempre più pericoloso ed inquietante.

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