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di Rino Giacalone - 20 marzo 2008

"La città di Trapani è cambiata, sono state fatte opere di restauro, ma dietro il paventato rinnovamento c’è la mafia."


Ieri, 17 marzo 2008, una condanna a venti anni che chiude uno dei primi cerchi investigativi, a Trapani, ma forse anche in Sicilia, attorno alla cosiddetta «mafia sommersa», oggi una piccata risposta del sindaco della città, avvocato Girolamo Fazio, che non pronunziando una sola parola sulla sentenza (per la verità tutta la politica è rimasta in silenzio, chi per disattenzione, chi inebetito) prende di petto un reportage del quotidiano La Repubblica che in sostanza suona in questo modo: la città di Trapani è cambiata, sono state fatte opere di restauro, ma dietro il paventato rinnovamento (rinascimento lo definisce il quotidiano) c’è la mafia. Apriti cielo. Nel 1985 c’era un sindaco, Erasmo Garuccio, che sosteneva che la mafia a Trapani non esisteva e pronunciava quelle parole davanti ai cadaveri straziati delle vittime, una mamma ed i suoi due figlioletti di 6 anni, della strage di Pizzolungo del 2 aprile, causata da quell’autobomba destinata al pm Carlo Palermo e alla sua scorta; 23 anni dopo la sostanza delle parole pronunciate dal sindaco pro tempore non è cambiata. Fazio se la prende di brutto con il giornalista di Repubblica, Franco Marcoaldi, che ha firmato il reportage, «i trapanesi non sono tutti mafiosi e difenderò la città nelle opportune sedi legali». Ma Marcoaldi non ha mica scritto che a Trapani è tutto mafia. Ha scritto che le iniziative più importanti, sotto forma di appalti, di finanziamenti, sono finite in mani sbagliate, in quelle di Cosa Nostra. Ma non lo dice solo Marcoaldi lo ha detto anche quella sentenza pronunciata appena 24 ore prima della pubblicazione dell’articolo. L’imputato di quel processo si chiama Francesco Pace, nativo di Paceco, sessantenne, imprenditore, specialista nel movimento terra, che con 130 mila euro intascati dallo Stato dopo una ingiusta detenzione, determinata da una assoluzione risalente agli anni ’90, giustificò, contabilmente, la sua presenza dentro una azienda di calcestruzzi. Nel 2001 divenne il nuovo reggente della mafia trapanese, e celebrò la circostanza con una ricca cena a base di aragosta e champagne in un ristorante famoso della città, senza nascondersi a nessuno, perchè tutti vedessero. a quel tavolo decise la strategia, prendeva il posto del boss Vincenzo Virga e dei figli di questi, Francesco e Pietro, che erano diventati fin troppo spavaldi e usavano le maniere forti per convincere chi di dovere a sottostare alle loro richieste. Vincenzo Virga era un nulla tenente quasi, piccolo imprenditore, qualche terreno agricolo, quando nel 2001 venne arrestato e nel frattempo Finanza e Polizia gli fecero i conti in tasca, gli trovarono un «portafoglio» tra denaro contante e quote societarie pari a 7 miliardi di vecchie lire. Quel suo arricchimento aveva indispettito non poco Cosa Nostra, e se non fosse stato arrestato, dopo sette anni di latitanza, c’era qualcuno pronto a fargli la festa. Quando don Ciccio Pace si presentò agli occhi della «onorata società» disse subito che era finita l’era dei «coccodrilli» (così chiamava i Virga) e che si cambiava strategia, bisognava fare capire soprattutto agli imprenditori che conveniva pagare la ««quota» associativa a Cosa Nostra. La «mafia sommersa» che da strategia teorica diventa qualcosa di reale, senza per forza avere bisogno di riti, punciute e santini che bruciano sul palmo delle mani, una mafia che ha solo bisogno di sudditanze e non ha importanza se ha dalla sua parte maggioranze o minoranze, deve avere dalla sua parte silenzi certamente, connivenze, disponibilità laddove è indispensabile averne. La strategia perseguita è questa e si completa meglio quando il boss Pace, ora condannato a 20 anni, è stato riconosciuto essere reggente del mandamento mafioso di Trapani, intercettato finisce con il dire che «sti mafiusi mi ruvinaru» e poi prosegue parlando di appalti da controllare, di forniture da imporre, di litigi dentro i partiti da sedare, di prefetti e dirigenti di Polizia da cacciare, di sbirri ammazzati. Il processo che si è concluso ha al suo interno ognuno di questi aspetti dell’attività della nuova mafia, argomenti affrontati e approfonditi, sulla conclusione degli esami testimoniali, ma anche dei controesami della difesa, il pubblico ministero Andrea Tarondo ha tirato le conclusioni chiedendo per Pace una condanna a 23 anni, i giudici hanno dato ragione a lui e dunque hanno verificato come accertati e veri i fatti emersi durante il processo. E c’è una parte del processo importantissima più di altre, e cioè come il territorio trapanese, la città capoluogo, nel loro insieme si sono posti rispetto al fenomeno mafioso. Nella requisitoria il pm Tarondo ha offerto una sintesi che avrebbe dovuto aprire dibattiti e invece ha raccolto silenzi, come i mammasantissima desiderano.Il pm si è chiesto come sia stato possibile che una mafia trapanese in ginocchio fra il 2000 ed il 2001, per gli arresti, le condanne, le detenzioni, sia tornata a gestire un capillare sistema estorsivo, un capillare controllo su imprese, spesa pubblica, opere pubbliche, e come sia stato possibile tutto questo con l'oculata amministrazione, da parte della mafia, di violenze e minacce «ricondotte a livelli di stretta necessità, senza sparare un solo colpo di pistola». Il pm si è dato la risposta: «Quando si poteva consolidare una vittoria abbiamo avuto una compagine sociale che si è arresa, che ha opposto alla mafia pochi uomini dello Stato, uno di questi il prefetto Fulvio Sodano, figura di grande esempio per chiunque e per chi in questo contesto territoriale vuole trovare un riferimento certo contro il fenomeno mafioso. A fronte di un prefetto che ha fatto il suo dovere – ha continuato il pm – in questo processo sono emersi tanti cittadini e pubblici funzionari che non hanno fatto il loro dovere e che hanno obbedito alle esigenze della mafia, ponendosi a disposizione, accettando Pace come interlocutore privilegiato. Pace è risultato essere artefice di una nuova mafia più silenziosa ma più efficace, Pace è il prodotto di una società malata che aspetta solo che si presenti una nuova figura di boss mafioso per tornare di nuovo ad asservirlo e riceverne un vantaggio». C’è un sistema scoperto e che sebbene scoperto continua ancora a produrre effetti: «Esiste una generale intimidazione dell'imprenditoria trapanese favorita dal fatto che esiste una imprenditoria restia a sottrarsi al controllo mafioso, perché l'attività estorsiva è una delle componenti di un rapporto più ampio, Cosa Nostra favorisce gli imprenditori che acconsentono alle richieste secondo quella strategia che evita il più possibile l'atto eclatante, e così il soggetto sottoposto a estorsione è un soggetto addomesticato, avvicinato, consapevole di quali sono i suoi doveri per la “messa a posto”, un imprenditore che ha coscienza del fatto che c'è una mafia in grado di gestire l'aggiudicazione degli appalti pubblici, che ne ha un capillare controllo, grazie alle disponibilità di dipendenti, pubblici funzionari, politici, che ha insomma i giusti addentellati dentro la pubblica amministrazione, tanto da potere far cambiare le buste contenenti le offerte per gli appalti e prima ancora riesce ad incidere nella stesura dei bandi di gara». La «mafia sommersa» a Trapani è stata anche questa, quella del controllo del cemento e degli imprenditori che prima ancora di essere «chiamati» si presentavano a rapporto, una mafia diventata imprenditoria che non ha avuto bisogno di imporre il pizzo, ma ha chiesto e ottenuto senza problemi di vendere i suoi prodotti, il cemento, il ferro, gli asfalti, che ha fatto affari con la Coppa America, il grande circo della vela che nel 2005 ha lanciato Trapani nel panorama mondiale di questo sport, bello, bellissimo, entusiasmante, solo che i mafiosi in qualche caso pare avessero in mano le carte prima ancora che fossero pubbliche. Si potrà dire particolari, casi specifici, vero, verissimo, solo che guarda caso si trattava degli appalti più cospicui, quelli da 40 e passa milioni di euro. «Pur di conquistare una pagina di giornale, non ci si rende conto del danno che si fa ad un'intera comunità che sta cercando con grande sacrificio e con enormi difficoltà di rinascere e di costruire un futuro possibile per le nuove generazioni, senza condizionamenti mafiosi ne' di altro genere» dice il sindaco Fazio a proposito del reportage di Repubblica sulla città. Ancora una volta alla stampa, ai giornalisti si riconoscono e si contestano danni che ad altri, con tanto di prove, con sentenze inoppugnabili, non si contestano. Il processo a don Ciccio Pace è stato fatto senza una solo parte civile costituita e non è un dibattimento che risale a molti anni addietro, quando magari non esisteva la «rivolta» della società civile come la si definisce, è stato aperto e chiuso in poco più di 18 mesi. Le parole usate da Fazio sono quelle di sempre, come quelle usate contro Anno Zero quando venne a girare il reportage nelle terre di Matteo Messina Denaro. Il giornalista indubbiamente ha parlato con investigatori e inquirenti, il sindaco lamenta che non ha parlato con la gente onesta: come dire che chi indaga non lo è? In altre città non c’è la denuncia, non vi sono questi stessi reportage, ma non funziona sostenere che se gli altri rubano noi possiamo pure farlo, l’articolo di Marcoaldi è generico?, le ricostruzioni proposte dal sindaco non sono da meno, eppure sentenza contro Pace alla mano avrebbe potuto avere occasione di dire altro, e cioè che la mafia la si può combattere e la si può portare nelle aule di Tribunale, anche senza l’apporto della società civile e della politica. Una delle difese del sindaco è quella dell’adozione di protocolli di legalità per gli appalti pubblici. In Uno di questi che abbiamo letto ci sono scritte una serie di condizioni poste all’impresa che si aggiudica i lavori, ma non è indicato, perchè non esiste, a cosa si va incontro se queste prescrizioni vengono violate.

tratto da articolo21  

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