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scarpinato roberto c imagoeconomica 0di AMDuemila
Il Procuratore generale di Palermo intervenuto alla festa di Micromega

La scorsa settimana, dal 23 al 25 novembre, a Genova, presso il Palazzo Ducale è andata in scena “Dialoghi eretici”, la prima festa di MicroMega, diretto da Paolo Flores d'Arcais. Un appuntamento in cui filosofi, scienziati, giornalisti, scrittori e magistrati si sono alternati in un serie di confronti su temi come l'evoluzione, l'amore, la scienza, la società, ma anche la giustizia. In particolare su questo punto è intervenuto il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che, partendo da un’analisi della composizione carceraria italiana, ha analizzato lo stato dell'arte delle carceri italiane dove, a espiare effettivamente la pena, spesso finiscono coloro che occupano i piani più bassi della piramide sociale mentre praticamente risultano assenti sono i cosiddetti colletti bianchi.
Di seguito pubblichiamo l'intervento di Scarpinato che è anche contenuto nell'ultimo numero di MicroMega, "La legge e la rivolta" e che è stato anche testo della Lectio "Chi ha paura della giustizia?", tenuta dall’autore il 19 settembre 2018 in occasione della XII Edizione dei Dialoghi di Trani, dedicati al tema della "Paura".



CHI HA PAURA DELLA GIUSTIZIA?
Per valutare il livello di giustizia ed equità di un sistema giuridico non basta andare a leggere quello che c’è scritto nei codici, perché la distanza fra law in book e law in action può essere enorme. Più utile è andare a guardare, per esempio, la composizione carceraria, che ancora oggi in Italia rispecchia un modello di diritto penale per il quale il ‘delinquente’ tipo è appartenente alle classi sociali più svantaggiate, mentre praticamente assenti sono i cosiddetti colletti bianchi. Che però si macchiano dei reati che più destabilizzano la coesione e la tenuta sociale di un paese, dai depistaggi alla corruzione.

di Roberto Scarpinato

Premessa
La domanda «Chi ha paura della giustizia?» sembrerebbe avere una risposta semplice. Hanno da temere dalla giustizia gli ingiusti, coloro che, riconosciuti colpevoli di atti di ingiustizia con i quali hanno causato sofferenza ai propri simili o danno alla collettività, vengono condannati a espiare una pena. In uno Stato di diritto gli atti di ingiustizia condannabili sono solo quelli previsti come reati dalla legge. Tuttavia, se dal piano delle enunciazioni astratte passiamo alla realtà concreta, dobbiamo prendere atto che esiste un’ampia categoria di ingiusti – nel senso prima indicato – che ha nulla o poco da temere dalla giustizia. Un’ampia categoria di ingiusti nei cui confronti gli apparati preposti all’amministrazione della giustizia risultano totalmente o parzialmente impotenti. Per comprendere le ragioni di questa impotenza, per capire cioè come funziona in concreto il sistema di giustizia in un paese, non ci si può limitare a esaminare le leggi penali che prevedono i reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia. Si tratta di un metodo che può portare a risultati a volte assolutamente ingannevoli. Esiste infatti uno scarto molto grande, a volte un abisso, tra legalità formale (law in book) prevista dalle leggi e legalità reale (law in action). Prima di analizzare la situazione italiana – ove questo scarto è elevato – fornirò alcuni esempi concreti, facendo riferimento ad altri paesi. Prendiamo il Messico, paese all’undicesimo posto della classifica delle più grandi economie del pianeta, dotato di Costituzione rigida e di sistema democratico. Poniamo che uno studioso volesse conoscere come funziona il sistema di giustizia in Messico basandosi esclusivamente sullo studio delle leggi penali, delle regole processuali, dell’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia esistenti in quel paese. Dopo la lettura di ponderosi volumi, quello studioso perverrebbe alla conclusione che il sistema di giustizia messicano è pienamente in linea con la migliore tradizione giuridica europea e adeguato alle esigenze di giustizia. Un sistema nel quale gli «ingiusti», i criminali hanno motivo di avere paura della giustizia. Ma la verità è ben altra. In Messico non esiste alcuna giustizia. La legalità reale è abissalmente distante da quella formale. Secondo le statistiche ufficiali governative, tra il 2010 e il 2016, in un paese di 120 milioni di abitanti, 151 milioni di messicani sono state vittime di un reato, con una media di 1,25 reati per abitante. La percentuale di impunità è del 96 per cento, solo nel 4 per cento dei casi dunque si perviene a una condanna. Il risultato – sempre secondo le statistiche ufficiali – è che il 94 per cento dei messicani non presenta più denuncia per mancanza di fiducia nel sistema giudiziario. In particolare nel corso del 2016 sono stati commessi 66.842 sequestri di persona ma ne sono stati denunciati solo 1.131. Nel 98 per cento dei casi non vi è quindi stata denuncia. Se si vogliono comprendere le ragioni per cui in Messico gli «ingiusti» godono di quasi totale impunità, occorre dunque mettere da parte codici e pandette e analizzare quali sono le cause sociali di questo default della giustizia, quali sono cioè i veri rapporti di forza sociali in quel paese che determinano l’ordine reale al di là dell’ordine giuridico astratto. Ho proposto l’esempio del Messico, ma ad analoghe conclusioni si può pervenire – con gradazioni diverse – per tanti altri paesi, compresi alcuni, come gli Stati Uniti, percepiti nell’immaginario collettivo come esempio di sistema giudiziario efficiente. Gli Stati Uniti d’America, che rappresentano meno del 5 per cento della popolazione mondiale, hanno la popolazione carceraria più numerosa del mondo (circa il 25 per cento). Secondo un rapporto del dipartimento di Giustizia Usa del 2006, oltre 7,2 milioni di persone erano in quel momento in prigione o sotto varie forme di custodia, ossia circa 1 americano su 32. Nel settembre del 2014 il Bureau of Justice Statistics del dipartimento di Giustizia ha pubblicato un interessante rapporto sulle carceri statunitensi, basato su dati aggiornati al 31 dicembre 2013, dal quale risulta che la razza maggiormente rappresentata tra la popolazione carceraria statunitense maschile (1.412.745 detenuti nel 2013) è quella dei neri (37,2 per cento). Una sovrarappresentazione indicativa della fondatezza delle proteste dei cittadini statunitensi neri – che hanno assunto anche la forma di manifestazioni turbolente – che denunciano come il sistema giudiziario statunitense produca, nel suo funzionamento concreto, esiti non conformi al principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, operando discriminazioni di razza e di ceto.

Chi ha paura della giustizia in Italia?
Adottando ora lo stesso metodo di analisi per l’Italia, si perviene a conclusioni molto interessanti per dare risposta alla domanda «Chi ha paura della giustizia?». Nel 2013 è stato pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia sulla composizione della popolazione detenuta in carcere in espiazione definitiva di pena. Da quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del totale, erano stati condannati per violazione della legge sugli stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892 per rapina, 2.250 per furto, 2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci «reati contro la pubblica amministrazione» (che comprende i reati di corruzione in senso lato) e «reati economici» (cioè bancarotte, reati fiscali) non risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone detenute per tali tipologie di reato. Altro dato significativo si ricava da un’audizione alla Camera dei deputati del ministro della Giustizia, dalla quale risulta che alla data del 13 ottobre 2013 su un numero complessivo di persone in stato di custodia cautelare di 24.744 unità, quelle che lo erano per reati di corruzione ed economici ammontavano a 31, cioè allo 0,3 per cento. Per completare il quadro è interessante comparare la composizione della popolazione carceraria dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo. Ebbene, nonostante dagli inizi del Novecento ai nostri giorni siano cambiate più volte le forme dello Stato – con la transizione dalla monarchia costituzionale al fascismo e poi alla repubblica – nonostante il succedersi di eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia repubblicana, permane una costante: in carcere, a espiare effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro che occupano i piani più bassi della piramide sociale. Agli inizi del Novecento erano quelli che i criminologi del tempo definivano elementi pericolosi della classe «oziosa»: ladri, assassini di strada o autori di omicidi passionali, ricettatori, truffatori, frodatori, esponenti dell’ala militare delle organizzazioni criminali di allora 1 . Oggi, mutatis mutandis, è più o meno la stessa categoria antropologica. Oggi come ieri, gli esponenti della classe dirigente e di quella abbiente detenuti in espiazione definitiva di pena costituiscono un’eccezione. Tenuto conto che il carcere rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole degli esiti concreti della giurisdizione penale, i dati statistici sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità storica di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i potenti, forte ed efficiente con gli impotenti. Attraverso quali meccanismi si è realizzata questa continuità storica, tenuto conto che – come accennato – dagli inizi del Novecento ai nostri giorni sono profondamente mutati l’assetto istituzionale dello Stato, quello socioeconomico e, di riflesso, l’ordinamento penale e la cultura dei giuristi? La risposta a queste domande richiederebbe una lunga e approfondita trattazione, che esaurirebbe tutto il tempo a mia disposizione. Procederò quindi per sintesi e accenni. Ieri – nell’Italia prerepubblicana – l’impunità della criminalità del potere e delle classi abbienti era garantita dalla subordinazione istituzionale della magistratura al potere politico all’interno di uno Stato classista ove il potere politico ed economico si concentrava nelle mani di poco meno del 10 per cento della popolazione. Nell’Italia repubblicana, ove la Costituzione ha garantito l’indipendenza della magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita democratica del paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata attraverso meccanismi molto più complessi e sofisticati per comprendere i quali dobbiamo procedere a un censimento dei grandi assenti nella popolazione carceraria.

Chi non ha paura della giustizia? I complici occulti degli stragisti
Ritornando alla statistica del Dap alla quale ho fatto riferimento, possiamo notare una prima significativa assenza tra i detenuti in espiazione definitiva di pena, una categoria di criminali che si colloca ai vertici della graduatoria degli «ingiusti». Mi riferisco ai mandanti politici e ai complici occulti delle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro paese. Nessuna storia nazionale europea è segnata da una catena così lunga e ininterrotta di stragi e di omicidi politici, come quella che ha caratterizzato la storia italiana del secondo dopoguerra. La nascita della Repubblica italiana è stata tenuta a battesimo da una strage con finalità politiche: quella di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 (undici morti e ventisette feriti), che vede interagire un sistema criminale complesso, composto da settori deviati delle istituzioni, destra eversiva e alta mafia, e che segna l’inizio della strategia della tensione. Una strategia che da allora scandirà tutta la successiva storia repubblicana interferendo pesantemente sulla dialettica politica e sugli equilibri di potere nazionale, e che si snoderà, oltre che in progetti di colpi di Stato, nella sequenza delle stragi di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, di Peteano del 31 maggio 1972, di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974, dell’Italicus del 4 agosto 1974, di Bologna del 2 agosto 1980, del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 e di altre ancora che tralascio per ragioni di sintesi, giungendo sino alle stragi del 1992 e del 1993. Ebbene, nonostante gli sforzi profusi, gli esiti di quasi tutti i processi per stragi sono stati talora fallimentari, talora molto parziali. Per la strage di Piazza Fontana a Milano, non si è mai pervenuti alla condanna di alcuno. Diciassette morti e ottantotto feriti sono rimasti senza alcuna giustizia. Per la strage di Brescia a distanza di ben 43 anni si è giunti con sentenza definitiva del 20 maggio 2017 alla condanna solo di due imputati, di cui uno di 84 anni. Per la strage alla stazione di Bologna sono stati condannati solo tre esecutori materiali e, a distanza di ben 38 anni dai fatti, sono ancora in corso processi a carico di altri imputati, mentre sono iniziate da circa un anno nuove indagini per individuare i finanziatori di quella strage, alcuni dei quali sono nel frattempo deceduti. In altri casi ancora i responsabili sono fuggiti all’estero e mai più tornati. In nessun caso sono stati individuati e condannati i mandanti ultimi delle stragi. Quali sono le cause di questi esiti parziali e deludenti grazie ai quali i più ingiusti tra gli ingiusti mai hanno avuto paura della giustizia? I processi hanno accertato che in quasi tutte le stragi le indagini della magistratura sono state depistate da apparati deviati dello Stato mediante la soppressione di documenti essenziali, la fabbricazione di prove false o di falsi collaboratori di giustizia. Testi e complici depositari di segreti scottanti sono stati ridotti al silenzio o con l’intimidazione o con la soppressione fisica. I depistaggi iniziano sin dalla prima strage politica della storia repubblicana, quella di Portella della Ginestra alla quale ho già fatto cenno. È stato processualmente accertato che all’epoca fu redatto un falso rapporto di polizia sulle modalità di uccisione del capo della banda che aveva eseguito la strage su mandato politico – Salvatore Giuliano – nel quale si certificava che Giuliano era stato ucciso nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri avvenuto nella pubblica via. Fu accertato invece che Giuliano era stato ucciso nel suo letto durante il sonno dal suo vice e complice Gaspare Pisciotta, al quale per questa azione omicida era stata promessa l’impunità. Pisciotta venne arrestato e, sentendosi ingannato, all’udienza del 16 aprile 1951, nel vivo del processo che si svolgeva a Viterbo, alla presenza di una folla di giornalisti, fece i nomi dei mandanti politici di quella strage, indicando gli incontri che vi erano stati e le promesse che erano state fatte. Le eclatanti accuse di Pisciotta caddero nel vuoto. Malgrado le sue esplicite chiamate in correità, nessuna richiesta di procedimento venne avanzata dal pubblico ministero nei riguardi dei possibili mandanti politici. La Corte d’Assise nella motivazione della sentenza prese le distanze da quel comportamento omissivo, così scrivendo: «Non è la Corte investita del potere di esercitare l’azione penale. Essa è un organo giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono proprie di altro organo, il pubblico ministero». In una lettera inviata al presidente della Corte d’Assise, datata 10 ottobre 1952, Pisciotta scrisse che non si sarebbe mai rassegnato e che sino all’ultimo respiro avrebbe chiesto un’inchiesta parlamentare. Al testardo Pisciotta, testimone scomodo dei crimini del potere, l’ultimo respiro venne strozzato in gola il 9 febbraio 1954 nel carcere dell’Ucciardone con un caffè opportunamente corretto alla stricnina. Insieme a Pisciotta scomparvero, assassinati o suicidati in un’impressionante scia di sangue, tutti coloro che erano al corrente dei segreti celati dietro la strage: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze di polizia, quelli che avevano assistito ad alcuni incontri scottanti, l’ispettore di polizia che aveva mantenuto i contatti. Mi sono soffermato su questa vicenda perché costituisce il prototipo di tutti i casi di depistaggio che saranno accertati nei processi per le stragi consumate successivamente. Si tratta di un capitolo oscuro e tragico che ha segnato profondamente l’evoluzione della storia nazionale. Nel processo per la strage di Piazza Fontana sono stati condannati per avere depistato le indagini due esponenti dei servizi segreti italiani: il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna (Sid). Il generale Maletti non è mai finito in carcere perché nel 1981 è fuggito in Sudafrica dove ha preso la cittadinanza e mai è stato estradato in Italia. Grazie a uno speciale salvacondotto è rientrato in Italia il 20 marzo 2001 per testimoniare al processo di Piazza Fontana. Alla domanda perché non avesse trasmesso alla magistratura le informazioni sugli autori della strage, ha risposto: «Fino al 1974 nessuno ci aveva spiegato che dovevamo difendere la Costituzione». Nel processo per la strage di Piazza della Loggia sono state accertate alcune condotte degli apparati istituzionali assolutamente anomale, contrarie a ogni regola, che hanno intralciato le indagini determinando la soppressione di prove essenziali per la ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei responsabili. Meno di due ore dopo la strage, fu impartito l’ordine di ripulire frettolosamente con le autopompe il luogo dell’esplosione, così spazzando via indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che un magistrato o perito potesse effettuare alcun sopralluogo o rilievo. Sparirono misteriosamente pure i reperti e le tracce di esplosivo prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch’essi di fondamentale importanza ai fini dell’indagine. Nel processo di primo grado venne condannato all’ergastolo come uno degli esecutori della strage Ermanno Buzzi, militante della destra eversiva. Il 13 aprile 1981, poco prima che si accingesse a collaborare con i magistrati, fu strangolato in carcere da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. È stato accertato che uno degli esecutori materiali della strage – Maurizio Tramonte – era un informatore del Sid il cui nome in codice era Tritone. Sino al 1989 il Sismi, nell’avallare false piste investigative (come una che portava a Cuba), ha continuato a sostenere che agli atti del Servizio «non esistono ulteriori documenti dai quali si possano trarre utili elementi di valutazione». Nella motivazione della sentenza di condanna all’ergastolo i giudici hanno scritto: Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze [...] individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza della Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader ultraottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche solo questo paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe. Nel processo per la strage di Bologna sono stati condannati con sentenza definitiva per depistaggio delle indagini tre esponenti del Sismi – il generale Pietro Musumeci, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte, l’agente segreto Francesco Pazienza – e Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, della quale faceva parte anche il generale Musumeci con il numero di fascicolo 487. Il principale tentativo di depistaggio (ma non l’unico) fu messo in atto sistemando una valigia carica di armi, esplosivi, munizioni, biglietti aerei e documenti falsi sul treno Taranto-Milano del 13 gennaio 1981. Pochi mesi prima, lo stesso Musumeci aveva prodotto un dossier falso, intitolato «Terrore sui treni», con lo stesso fine di deviare le indagini verso una pista internazionale. L’attività di depistaggio è proseguita, giungendo sino ai nostri giorni, anche dopo la fine della stagione del bipolarismo internazionale e della guerra fredda. Nella motivazione della sentenza depositata il 30 giugno 2018 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, i giudici hanno passato in rassegna i depistaggi attuati per ostacolare l’accertamento delle responsabilità e dei retroscena di quella strage, oltre il livello degli esecutori mafiosi. Pochi minuti dopo l’esplosione, esponenti delle forze di polizia, indicati nominativamente nella sentenza, si impossessarono e fecero sparire l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato, dopo la strage di Capaci del 23 maggio, tutte le informazioni che aveva progressivamente acquisito e che lo avevano indotto a ritenere, come confidò alla moglie Agnese, che dietro le stragi non ci fossero solo i mafiosi. Dopo la soppressione di quell’importante documento, le indagini furono quindi depistate mediante la costruzione da parte di taluni esponenti delle forze di polizia di falsi collaboratori di giustizia che hanno condotto alla condanna all’ergastolo di innocenti. Al riguardo i giudici hanno scritto: Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana. […] È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento: […] – ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato a una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci; – alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra «Cosa Nostra» e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato. In proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di entrambe le vicende. La sistematicità dei depistaggi nelle indagini sulla criminalità del potere ha raggiunto livelli tali ed è divenuta una realtà storica talmente evidente che il 5 luglio 2016 l’Assemblea della Camera dei deputati ha definitivamente approvato il disegno di legge che introduce nel codice penale il reato di frode processuale e depistaggio. Il nuovo delitto, articolo 375, punisce con la reclusione da 3 a 8 anni (aumentata da un terzo alla metà ove ricorrano determinate aggravanti come, ad esempio, la soppressione e l’occultamento di documenti) il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che compia una delle seguenti azioni, finalizzata a impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale: mutare artificiosamente il corpo del reato, lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone connessi al reato; affermare il falso o negare il vero ovvero tacere in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, ove richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale. Sono stato tra i più fervidi sostenitori della necessità di introdurre tale specifica fattispecie di reato nel codice penale, spiegando, in occasione di una mia audizione al riguardo dinanzi alla commissione Giustizia della Camera dei deputati, che proprio a causa della sua mancanza, si era verificata e continuava a verificarsi l’impunità di soggetti autori accertati di gravi fatti di depistaggio. Fino ad allora a costoro era stato infatti possibile contestare solo reati ordinari come favoreggiamento, furto di documenti, falso materiale, per soppressione o ideologico, calunnia eccetera. Reati ordinari che si prescrivono in breve tempo e che non si addicono alla peculiare fenomenologia criminale dei depistaggi, con gravi conseguenze sul piano della prova del dolo. Coloro che operano i depistaggi infatti non sono animati da interessi o motivazioni di tipo personale, ma agiscono per interessi superiori sovraindividuali.

Corrotti e corruttori, una lunga storia di impunità
Un’altra categoria di «ingiusti» assente dalla popolazione carceraria è quella dei corrotti e dei corruttori, i quali sino a oggi pure non hanno avuto motivo di avere paura della giustizia. La lezione della storia insegna che in Italia la corruzione non è una patologia criminale contingente legata a una particolare stagione storica, e non è riducibile a una mera sommatoria aritmetica di cadute individuali, di reati commessi da singole pecore nere nel gregge delle pecore bianche, ma è piuttosto un fenomeno sistemico di settori significativi delle classi dirigenti nazionali, una componente strutturale della costituzione materiale del paese dall’Unità d’Italia sino ai nostri giorni e, come tale, non governabile con i normali strumenti della legalità legislativa e giudiziale. La tangentopoli italiana prende infatti avvio già nei primi decenni della formazione dello Stato unitario. Esemplare a questo proposito è il caso dello scandalo della Banca romana esploso nel 1892, una delle cinque banche nazionali autorizzate a stampare carta moneta per conto dello Stato. I dirigenti della banca con la copertura dei vertici della politica nazionale, avevano stampato banconote false, duplicando i numeri di serie per una cifra spropositata. Inoltre la banca aveva erogato crediti senza garanzie, e quindi inesigibili, al fior fiore della nomenklatura del potere del tempo: palazzinari legati alla famiglia reale, parlamentari della destra e della sinistra, ministri, ex ministri, giornalisti di grido, in totale circa 150 pezzi da novanta. Il crack a un certo punto divenne inevitabile e iniziò un’indagine penale. Il processo, apertosi a Roma nel 1894, si concluse dopo sessantuno udienze con l’assoluzione di tutti gli imputati: i responsabili della banca, un deputato e due funzionari preposti alla vigilanza dell’istituto. I fatti accertati rimasero dunque senza colpevoli. Nelle indagini era rimasto coinvolto anche il presidente del Consiglio, su mandato del quale solerti funzionari di polizia avevano fatto sparire casse di documenti scottanti che coinvolgevano politici e membri della famiglia reale. L’incipit del processo era stato inoltre preceduto da una riunione tra il procuratore generale, il procuratore del re e il giudice istruttore che, significativamente, si era svolta non negli uffici giudiziari ma al ministero dell’Interno. Allo scandalo della Banca romana, seguirono decine di altri scandali come quello della Banca italiana di Sconto che coinvolse, oltre a numerosi colletti bianchi, anche quattro senatori del Regno, per i quali il Senato si costituì in Alta Corte di Giustizia; e poi lo scandalo del Banco di Napoli, quello del Banco di Sicilia, quelli delle frodi per le forniture militari: tutti conclusisi con assoluzioni generali. In quegli anni, in una lettera rivolta al re Umberto I, il deputato Giovanni Giolitti scriveva: «L’assolutoria scandalosa di ladri di milioni ha fatto purtroppo una triste reputazione al nostro paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti». Parole che potrebbe essere scritte anche oggi, a dimostrazione della continuità d’impunità della criminalità del potere nel nostro paese. La tangentopoli italiana non si è mai fermata e ha attraversato il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica giungendo sino ai nostri giorni. Le storie di oggi sono la replica e la riedizione di quelle di ieri e dell’altro ieri, anche nei loro esiti: l’eterna impunità assicurata, in un modo o in un altro, a tutti i principali protagonisti delle vicende corruttive. Nell’Italia prerepubblicana e precostituzionale, l’impunità veniva assicurata mediante la subordinazione gerarchica del pubblico ministero al ministro della Giustizia e il controllo politico sui vertici della magistratura. Nella cosiddetta Prima Repubblica, l’impunità è stata garantita mediante la negazione sistematica delle autorizzazioni a procedere, il trasferimento della competenza sui processi verso uffici giudiziari diretti da vertici ritenuti affidabili dal sistema politico (restati nella memoria collettiva con la significativa denominazione di «porti delle nebbie»), il varo di ben 33 amnistie e indulti, e altri metodi che, per ragioni di tempo, tralascio. Dopo la breve parentesi storica dei processi di Tangentopoli dei primi anni Novanta, quando a seguito del collasso del sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica (conseguente alla caduta del Muro di Berlino e al mutamento degli equilibri macropolitici internazionali e nazionali) il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sembrò potersi trasformare da law in book (principio astratto) in law in action (diritto vivente), il ripristino dello statuto impunitario dei colletti bianchi è stato attuato, a fronte di un ordine giudiziario che non appariva condizionabile politicamente o per le vie gerarchiche, a seguito dell’emanazione di una sequenza di leggi che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Non potendo dilungarmi in una dettagliata esposizione, mi limito a ricordare solo alcuni passaggi strategici. Nel luglio del 1997 una maggioranza di centro-sinistra, con la convinta adesione della minoranza di centro-destra, varava una riforma dei reati contro la pubblica amministrazione che, per un verso, aboliva il reato di abuso di ufficio non patrimoniale e, per altro verso, modificava la disciplina del reato di abuso di ufficio patrimoniale, rendendo estremamente difficile la prova della sua consumazione. La pena veniva ridotta da cinque a tre anni (poi portati a quattro con la riforma della legge 6/11/2012 n. 190) con tre conseguenze: niente più custodia cautelare per i colletti bianchi, niente più intercettazioni e, infine, termini di prescrizione accorciati. Il reato di abuso di ufficio, che dovrebbe prevenire e sanzionare l’abuso del potere pubblico per illegittime finalità private patrimoniali e non – un reato che costituisce lo strumento tipico per la gestione clientelare dei pubblici uffici, per piegare il potere pubblico all’interesse privato e per realizzare manovre corruttive – veniva così gravemente depotenziato. Come documentano le statistiche giudiziarie, le condanne sono crollate da 1.035 nel 2000 a sole 45 nel 2006. Si trattava del primo varco aperto alle mille forme di conflitti di interessi e di corruzione che si realizzano tramite l’abuso di ufficio. Il Bengodi delle varie parentopoli, vallettopoli, affittopoli e via elencando, tutto a costo penale prossimo allo zero. Negli anni seguenti venivano approvate poi una serie di leggi che legalizzavano il conflitto di interessi in settori strategici, creando un habitat ideale per l’abuso d’ufficio, per la proliferazione della corruzione, riducendo ulteriormente, anche per tale via, il rischio penale. Esempio emblematico è la legge obiettivo varata nel 2001 con la quale si stabiliva che negli appalti delle grandi opere affidate ai general contractors, il direttore dei lavori – cioè colui che deve tutelare gli interessi dell’amministrazione committente, che quindi ha la responsabilità di accertarsi per conto della pubblica amministrazione che i materiali corrispondano a quelli previsti in capitolato e che il progetto venga rispettato e che firma gli stati di avanzamento per i pagamenti – invece di essere nominato dall’amministrazione pubblica committente, veniva nominato dalla stessa impresa appaltatrice. In tal modo il controllato poteva nominare a piacimento il proprio controllore con un plateale conflitto di interessi. In vari processi celebrati in seguito per corruzione per appalti relativi alle grandi opere è stato accertato che proprio tale normativa ha costituito uno degli ingranaggi essenziali per la costruzione di ramificate reti corruttive stabilmente insediate in postazioni strategiche degli apparati istituzionali. Altra riforma legislativa che ha minimizzato il rischio e il costo penale per i reati di colletti bianchi, è stata la legge 5 dicembre 2005, n. 251, cosiddetta ex Cirielli, con la quale è stato modificato il regime dei tempi di prescrizione dei reati. In conseguenza di tale legge, in estrema sintesi, i tempi di prescrizione di una lunga serie di reati tipici dei colletti bianchi – molti dei quali strumentali alla corruzione e spie rivelatrici dell’esistenza di reti corruttive – sono stati ridotti ad appena sette anni e mezzo. Negli stessi anni venivano approvate una serie di riforme processuali che prolungavano i tempi di durata del processo, rendendo estremamente difficile la definizione di tre gradi di giudizio in sette anni e mezzo, che possono ridursi anche a quattro o a due o anche a meno, tenuto conto che i termini di prescrizione iniziano a decorrere non da quando il reato viene accertato, ma da quando viene consumato e che – caso unico al mondo – non si interrompono con l’esercizio dell’azione penale o con la sentenza di primo grado, ma continuano a decorrere per tutta la durata del processo. Grazie alla combinazione prescrizione breve/processo lungo, si creava così una micidiale falla di sistema che, come una sorta di triangolo delle Bermude, inghiotte nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi ogni anno. L’operatività di tale falla di sistema è attestata dal discostamento statistico delle percentuali di prescrizione in Italia, che si aggirano intorno al 10-11 per cento, rispetto a una media europea che va dallo 0,1 al 2 per cento, e ciò nonostante le stesse statistiche attestino che la magistratura italiana si colloca ai primi posti in classifica per produttività. Nel 2012 si sono prescritti 113.671 processi, saliti a 123.249 nel 2013 e a 132.296 nel 2014. Nel decennio successivo all’approvazione della legge Cirielli si sono verificate 1.468.220 prescrizioni. Sono state così ridotte a meri simulacri di un diritto penale condannato all’impotenza tutte le fattispecie di reato che costituiscono una trincea avanzata e un presidio contro il dilagare della corruzione per le quali è prevista una pena sino a sei anni, nonché molte altre fattispecie tipiche dei colletti bianchi. Mi limito a un breve elenco: – i reati di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), di omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.), con i quali si realizzano condotte funzionali alla corruzione e concussione; – i reati di turbata libertà degli incanti (353 c.p.), di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (353 bis c.p.) mediante i quali si manipolano le pubbliche gare di appalto; – i reati di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) mediante i quali si predano i fondi pubblici destinati allo sviluppo (la pena è stata elevata a sette anni con a legge 17/10/2017 n. 161); – i reati di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.) mediante i quali si realizzano opere pubbliche con cemento depotenziato, autostrade che crollano per la scarsa qualità dei materiali costruttivi forniti; – il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) mediante il quale gruppi di pressione e potenti lobby interferiscono nelle decisioni di destinazione delle risorse pubbliche. Le statistiche attestano che la falla di sistema funziona egregiamente anche per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, quali la concussione, la corruzione e altri reati dei colletti bianchi in materia di criminalità economica e fiscale puniti con pene superiori ai sei anni. Si tratta infatti di reati che per la loro tipologia e per l’omertà blindata che caratterizza il mondo della corruzione, vengono scoperti a distanza di diversi anni dai fatti, sicché il tempo residuo per definire il processo è insufficiente. Con l’introduzione della legge ex Cirielli si è passati da oltre 1.700 condanne per reati contro la corruzione alle appena 263 del 2010, meno di un quinto. Buona parte dei più eclatanti processi per corruzione che in questi anni hanno guadagnato la ribalta mediatica hanno svolto in realtà una funzione meramente catartica e simbolica nei confronti dell’opinione pubblica, coltivando l’illusione di un sistema penale repressivo in realtà strutturato in modo tale da autocastrarsi dopo i roboanti fragori mediatici del primo grado del giudizio, in un silenzioso e pressoché sistematico nulla di fatto, certificato con sentenze di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nella fase di appello o in Cassazione. Nei casi nei quali, nonostante tali gravi ostacoli, si riusciva a pervenire a una sentenza definitiva di condanna, l’impunità è stata garantita grazie ad amnistie e leggi di indulto. Emblematica a questo riguardo è la vicenda del provvedimento di indulto varato con la legge 31 luglio 2006, n. 241. L’approvazione di questa legge è stata motivata esclusivamente dall’inderogabile necessità di sfollare le carceri sovrappopolate. Sennonché le carceri erano sovraffollate solo di delinquenti comuni, mentre i colletti bianchi detenuti erano poche decine in tutta Italia. Quindi non vi era alcun motivo di inserire tra i reati per i quali era concesso l’indulto anche i reati di corruzione e i reati della criminalità economica. Invece l’approvazione della legge di indulto è stata subordinata proprio all’inserimento anche di questa tipologia di reati. Ricordo che un piccolo ladruncolo scarcerato pochi giorni dopo l’emanazione del provvedimento di indulto, intervistato all’uscita dal carcere, dichiarò: «Ringrazio i grandi ladri perché grazie a loro anche i piccoli ladri come me possono evitare il carcere». La legge concesse l’indulto persino per il reato di scambio elettorale politicomafioso di cui all’articolo 416 ter c.p., per il quale non solo a quella data non vi era alcun detenuto, ma in tutto il paese erano pendenti meno di cinque processi. Infine, nei casi residuali nei quali nonostante tutti gli ostacoli sin qui accennati si è pervenuti a una sentenza definitiva di condanna, il carcere è stato evitato mediante la pressoché sistematica fruizione, da parte dei colletti bianchi, delle misure alternative al carcere, ammesse per tutte le pene sino a quattro anni di reclusione. Le misure alternative sono state concepite per rieducare alla legalità e risocializzare mediante il lavoro e l’istruzione criminali comuni provenienti dalle fasce popolari più disagiate e meno acculturate, oppure soggetti affetti da particolari deficit di socializzazione. Funzione questa che chiaramente non possono assolvere se applicate a condannati appartenenti alla classe dirigente, altamente scolarizzati, dotati di reddito elevato e già pienamente inseriti nel mondo del lavoro nei piani alti della piramide sociale. In tali casi l’ammissione a misure alternative consistenti, ad esempio, nel recarsi due volte la settimana in un ospizio per dare assistenza ai ricoverati o nel rimettere in ordine i libri di una biblioteca, si risolve in una sostanziale minimizzazione del costo penale conseguente ai reati commessi. Il diritto penale continua tutt’oggi a essere pensato e costruito avendo come paradigma pressoché esclusivo un criminale tipo appartenente alle fasce popolari socialmente emarginate e di bassa cultura, da risocializzare appunto mediante l’istruzione e il lavoro. Si rimuove così la realtà, attestata da migliaia di processi, del carattere interclassista del crimine e del protagonismo al suo interno di una vasta platea di soggetti di elevato status sociale e culturale, nei confronti dei quali una politica criminale che punti solo su una generalizzata e indiscriminata illusione correzionalista attuata con i mezzi indicati è condannata all’impotenza. I colletti bianchi infatti, grazie alle loro risorse di status e culturali, replicano nel campo dell’illecito lo stesso modus operandi razionale adottato nel campo dell’attività lecita, fondato su una analisi costi-benefici. L’opzione legale-illegale è correlata alla valutazione comparativa tra rischio/costo penale da un lato e beneficio economico dall’altro. Ciò che conta in tale valutazione non è la pena minacciata in astratto, che può essere elevata, ma solo il rischio concreto di essere scoperti, e l’effettivo costo penale in caso di condanna. Allo stato attuale su un piatto della bilancia vi è la possibilità di arricchirsi a dismisura con comportamenti illegali, sull’altro un rischio penale di condanna definitiva molto ridotto per tutti gli ostacoli ai quali ho accennato e, in ogni caso, un costo penale ampiamente sopportabile se paragonato ai vantaggi economici realizzati. Alla luce di un siffatto calcolo, i benefici della criminalità dei colletti bianchi e del profitto sono quindi superiori ai costi.

Gli evasori fiscali e gli esponenti della criminalità economica
Un’altra categoria di grandi assenti nella popolazione carceraria italiana è quella dei condannati definitivi per reati economici e finanziari, bancarottieri e grandi evasori fiscali. L’anomalia dell’esiguità statistica di tale tipologia di detenuti in un paese come l’Italia, che si colloca ai primi posti nella graduatoria delle percentuali di evasione fiscale in Europa, si evidenzia ancor di più se posta a paragone con le statistiche di altri paesi del continente. Secondo uno studio del 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. Nel 2011, gli evasori nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva erano appena 156, ovvero lo 0,4 per cento della popolazione carceraria contro una media del 4,1 per cento dell’Unione europea. Una cifra, quella italiana, prossima a quella della Finlandia, paese ad altissima fedeltà fiscale e di soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 57 milioni dell’Italia. Ragioni di sintesi mi impediscono di passare in rassegna le leggi approvate in questi anni grazie alle quali i grandi evasori fiscali, come attestano le statistiche, non hanno motivo di avere paura della giustizia. Mi limito a ricordare che il decreto legislativo 158/2015 sulla riforma dei reati tributari ha realizzato la depenalizzazione di alcuni dei più frequenti reati fiscali, alzando in modo consistente la soglia economica di evasione necessaria per l’integrazione del reato. Inoltre la riforma ha sancito l’irrilevanza (ai fini dell’integrazione delle dette soglie) dei valori corrispondenti a non corrette classificazioni o valutazioni di elementi attivi e passivi appostati nel bilancio, ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali. Si è aperto così un varco alle forme più sofisticate di evasione fiscale realizzate soprattutto dai grandi operatori economici, mediante scorrette e mirate sopravalutazioni o sottovalutazioni delle poste di bilancio (ad esempio tramite l’esagerazione o sottovalutazione della stima del magazzino o dell’ammortamento dei crediti o del valore di immobili e partecipazioni). Nella relazione illustrativa al decreto legislativo 158/2015, si giustificava la riduzione dell’area di rilevanza penale in materia fiscale con l’esigenza di rendere il paese più attrattivo per gli investimenti di capitali esteri, rafforzandone in tal modo la competitività a livello internazionale. Al riguardo nella predetta relazione si leggeva testualmente: «L’attuazione dei princìpi di effettività, proporzionalità e certezza della sanzione penale è collegata all’obiettivo prioritario del rafforzamento della competitività del paese a livello internazionale, in modo tale che le pene non siano percepite dal destinatario, potenziale investitore, nazionale o straniero, come sproporzionate e disincentivanti di nuove possibili scelte di investimenti». Si tratta di una peculiare declinazione della cosiddetta «legalità sostenibile», frutto di una cultura economicocentrica che in una valutazione costi-benefici di breve periodo subordina le ragioni della legalità a quelle dell’economia e agli animal spirits di un capitalismo finanziario il quale si configura come una potenza transazionale globale in grado di rinegoziare i propri rapporti con i governi nazionali, imponendo deregolamentazioni o regolamentazioni di settore di favore a scapito degli interessi nazionali e generali. L’esito finale della depenalizzazione strisciante conseguente a tale torsione economicocentrica del diritto – che è stata realizzata con varie tecnicalità giuridiche anche in altri settori del diritto penale dell’economia, come ad esempio il diritto penale societario e quello fallimentare – è un complessivo arretramento del criterio di trasparenza, fondamentale salvaguardia delle attività economiche nelle società più evolute, con gravi cadute del livello della tutela penale e del contrasto all’economia illegale. Basti considerare, ad esempio, che la depenalizzazione dei reati tributari ha determinato come immediata conseguenza il crollo statistico dell’applicazione dell’istituto processuale del sequestro per equivalente che consentiva il recupero di ingenti somme sottratte al fisco. Se alla procura della Repubblica di Palermo nell’anno giudiziario 2015 l’importo complessivo delle somme sequestrate era stato di euro 28.147.887, nell’anno giudiziario 2016 questo si è drasticamente ridotto a euro 7.633.292, cioè ad appena un quarto dell’anno precedente. La scelta della depenalizzazione si è rivelata perdente non solo perché abbassando il rischio penale si è incentivato ulteriormente il fenomeno già abnorme dell’evasione fiscale, ma anche perché ha rivelato l’illusorietà di una strategia che affidava il recupero delle imposte evase solo ai controlli e alle sanzioni amministrative. Al riguardo la Corte dei Conti ha rilevato: «Il sistema sanzionatorio amministrativo, unito alle ridotte probabilità di un controllo, appare oggi tale da non favorire l’adempimento spontaneo, essendo manifesta la convenienza a ottenere l’azione di controllo fiscale piuttosto che versare autonomamente l’imposta al momento in cui matura l’obbligo fiscale».


Il diritto disuguale
Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala composizione della popolazione carceraria rilevata nello studio del Dap al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura composta solo da soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare che, nello stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi che in modi diversi sortivano l’effetto di evitare il carcere per i reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che andavano nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i reati di strada e quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando i tempi di prescrizione per i reati commessi dalla criminalità comune, escludendo dalle misure alternative al carcere talune categorie di criminali comuni eccetera. Ad esempio, mentre veniva diminuita da cinque a tre anni (poi portati a quattro, ma sempre sotto la soglia utile per le intercettazioni) la pena per il reato di abuso di ufficio, mentre venivano previsti appena tre anni di reclusione per il reato di traffico di influenze illecite, per i reati di furto con strappo la pena, prima prevista da uno a sei anni, veniva elevata da tre a sei anni, e nei casi di furto pluriaggravato (per esempio furto con strappo di bagagli dei viaggiatori o di cose esposte per consuetudine alla pubblica fede o reverenza) le pene venivano portate da quattro a dieci anni, invece che da tre a dieci anni. La pena per i piccoli spacciatori di poche quantità di droghe, prima fissata da un minimo di un anno a un massimo di sei, veniva elevata in modo sproporzionato da un minimo di sei a un massimo di venti anni, grazie a una speciale norma introdotta dalla legge ex Cirielli (la stessa che contemporaneamente «graziava» gli autori di reati dei colletti bianchi) che vietava al giudice di far prevalere l’attenuante della speciale tenuità dello spaccio sulla recidiva di cui all’articolo 99, comma 4, c.p. Veniva inoltre previsto che per tutti i reati – di qualunque tipologia – la pena fosse aumentata se erano stati commessi da migranti clandestini (decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 convertito con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125 che introduceva la nuova aggravante prevista dall’art. 61 n. 11 bis c.p.: «L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale»). L’aumento della pena non era determinato dalla gravità della condotta o dall’intensità del dolo, ma dal semplice stato di irregolarità del soggiorno in Italia. Quindi se un furto in un supermercato veniva commesso da un italiano o da un rumeno, cittadino europeo, la pena era x, se lo stesso fatto era commesso da un nigeriano immigrato clandestino era x + y. Con la legge 5 dicembre 2005, n. 251 per determinate tipologie di reato – ma non quelle in materia di corruzione e di criminalità economica – veniva previsto l’obbligo per il giudice di aumentare la pena in misura non inferiore a un terzo per i recidivi, privandolo del potere discrezionale previsto per la generalità dei reati di dosare la pena, dopo avere valutato una serie di fattori quali: la gravità in concreto del reato, l’intensità del dolo, la capacità a delinquere desunta dai motivi a delinquere, dal carattere del reo, dai precedenti penali e giudiziari, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato, dalla condotta contemporanea o susseguente, dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale (legge 5 dicembre 2005, n. 251 di modifica dell’articolo 99 c.p. sulla recidiva). Si verificava così la strisciante creazione di un diritto penale della disuguaglianza che si articolava nella sostanziale decriminalizzazione – o comunque nella minimizzazione – dei delitti tipici degli appartenenti alle classi abbienti (dall’abuso di potere al falso in bilancio) e nella contemporanea ipercriminalizzazione dei comportamenti devianti degli appartenenti alle classi popolari: dai ladruncoli a coloro che trasportano abusivamente lavatrici e frigoriferi da rottamare, dagli immigrati ai piccoli spacciatori, ai taroccatori di cd e via elencando, che costituiscono, unitamente ai mafiosi dell’ala militare, la popolazione stanziale delle carceri. Sono stati necessari ripetuti interventi della Corte costituzionale per eliminare dal nostro ordinamento penale le violazioni più vistose dei princìpi di uguaglianza e di ragionevolezza. Nel 2010 la Corte dichiarava l’incostituzionalità dell’articolo 61 n. 11 bis c.p. che aveva introdotto la speciale aggravante connessa alla qualità personale di immigrato irregolare; nel 2012 quella della norma introdotta dalla legge ex Cirielli che vietava al giudice di far prevalere la circostanza della «lieve entità del fatto» sulla recidiva di cui all’articolo 99, comma 4, c.p., facendo lievitare in modo irragionevole sino a vent’anni la pena anche per il piccolo spaccio; nel 2014 quella della legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti che aveva parificato lo spaccio di droghe leggere a quello di droghe pesanti; nel 2015 quella della norma che imponeva come obbligatorio l’aumento della pena in caso di recidiva per determinati tipi di reato, privando il giudice del potere di determinare discrezionalmente l’entità della pena avuto riguardo alle specificità del caso. Altre norme sono cadute a seguito di interventi della Consulta, che hanno riguardato soprattutto l’irrigidimento dei benefici penitenziari per i recidivi. Nel 2013, a fronte delle progressive condizioni di degrado e di invivibilità delle carceri italiane, sovraffollate, grazie alle politiche criminali e alle scelte legislative accennate, pressoché esclusivamente da appartenenti alle classi meno abbienti, interveniva la Corte europea dei diritti dell’uomo che con la sentenza Torreggiani condannava l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) per il trattamento inumano e degradante subìto dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Per evitare il pericolo dell’applicazione di gravi sanzioni all’Italia a causa del perdurare dello stato di degrado nelle carceri per la riduzione degli spazi vitali, è stata adottata una soluzione all’italiana. È stata emanata in fretta e furia una legislazione cosiddetta «svuota carcere» che ha ridotto il numero dei detenuti entro i limiti della capienza regolamentare, allargando, tra l’altro, le maglie delle misure alternative al carcere. La motivazione ufficiale di questa legislazione era che la finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione può essere meglio perseguita con misure alternative finalizzate alla rieducazione dei condannati piuttosto che con la carcerazione. Principio sacrosanto che, tuttavia, per essere seriamente realizzato avrebbe richiesto ingenti investimenti e risorse in modo da far sì che le misure alternative invece di essere piegate solo a fini deflattivi della popolazione carceraria, potessero assolvere allo scopo prioritario della risocializzazione dei condannati estromessi dal circuito carcerario, accompagnandoli verso uno standard di vita accettabile. Ma tali risorse non sono state investite. Mancano gli educatori, gli assistenti sociali, le offerte di lavoro, scarseggiano i fondi per le proposte formative, soprattutto quelle relative ai corsi scolastici e ai corsi professionali. Manca più in generale una politica che investa nella prevenzione indirizzando le risorse verso lo Stato sociale invece che verso lo Stato penale. Sicché in buona parte si sono sfollate le carceri, ma contemporaneamente si sono riaffollate le strade e le città di condannati per nulla rieducati, per nulla reinseriti socialmente e, nella sostanza, riconsegnati a un destino di emarginazione sociale e di precarietà esistenziale, anticamera del loro pendolare ritorno al crimine come forma di autosussistenza. Per di più, per i motivi prima accennati, l’allargamento delle condizioni di applicabilità delle misure alternative si è risolto in un definitivo salvacondotto dal carcere per i pochi colletti bianchi condannati con sentenze definitive. Colletti bianchi che si sono ampiamente giovati anche di altre riforme che hanno fortemente limitato i casi nei quali è possibile applicare la misura della custodia cautelare in carcere. Tale misura può essere oggi applicata solo per i delitti per i quali è prevista una pena detentiva non inferiore a cinque anni ed è preclusa per i casi nei quali è prevedibile che verrà concessa la sospensione condizionale della pena o che verrà irrogata in concreto una pena non superiore a tre anni. Tali ultime riforme sono state motivate non solo con la necessità di diminuire il numero delle persone ristrette in carcere, ma anche per la necessità di evitare asseriti abusi da parte della magistratura nell’uso dell’istituto della custodia cautelare, facendosi in tal senso espresso riferimento a casi di arresti di imputati eccellenti. E ciò nonostante le statistiche attestassero, come accennato, che le custodie cautelari in carcere di imputati di reati tipici dei colletti bianchi riguardavano appena lo 0,3 per cento dell’intera popolazione detenuta. Il risultato finale del modo di legiferare tratteggiato e delle politiche criminali attuate è un sistema penale che ormai non riesce più ad assolvere alla sua funzione deterrente e repressiva né per i colletti bianchi né, in buona misura, per i criminali comuni. Per un verso, grazie al congegno suicida prescrizione breve/processo lungo, si manda al macero ogni anno una media di 130 mila processi. Per altro verso, dalle statistiche del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria relative all’anno 2015 risultano i seguenti dati sulla media dei periodi di detenzione effettivamente scontati da condannati definitivi: per il delitto di rapina a mano armata 635 giorni, che si riducono a 441 (meno di due anni) per coloro che vengono ammessi alle misure alternative; 256 giorni per i condannati per furto; 190 giorni per i bancarottieri ammessi a una misura alternativa al carcere; 761 giorni per i condannati per il delitto di spaccio di stupefacenti, ridotti a 580 per coloro che sono ammessi alle misure alternative. A tutto ciò si aggiunga che le pene pecuniarie inflitte con sentenze definitive di condanna (multe e ammende), nonché le spese processuali vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10 per cento del totale, come risulta dalla Relazione del 7 marzo 2017 della Corte dei Conti-Sezione centrale di controllo sulla gestione dell’amministrazione dello Stato. In altri termini il 90 per cento dei processi definiti con condanne al pagamento di multe e di ammende si risolve in un lavoro assolutamente privo di ogni utilità e in un colossale spreco di risorse da parte di un sistema che, per certi versi, appare simile a un cane che si limita solo ad abbaiare ma non è in grado di mordere.

Conclusione
Se le linee di ragionamento sin qui svolte appaiono almeno in parte condivisibili, si può comprendere quanto sia culturalmente inadeguato affrontare i temi della giustizia solo sul piano di un asettico tecnicismo giuridico o su quello dei miglioramenti organizzativi. Come se i deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nei trattamenti sanzionatori cui ho accennato fossero solo il frutto di errate opzioni legislative nell’individuare e apprestare gli strumenti più adeguati per assicurare un sistema di giustizia equo ed efficiente. In realtà esiste una connessione profonda e sistemica tra la questione della giustizia e la questione della democrazia e dello Stato. In sistemi sociali segnati da gravi disuguaglianze, nei quali il potere economico e quello politico si concentrano in ristrette élite, è illusorio ritenere che le disuguaglianze sociali non si ripercuotano e riflettano nei concreti esiti dell’amministrazione della giustizia. Tanto più grande è la forbice delle disuguaglianze sociali, tanto maggiore è lo scarto tra legalità formale (law in book), che proclama il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge come pietra angolare dell’ordinamento giuridico, e legalità reale (law in action), che invece riflette i rapporti sociali di forza che governano l’ordine reale. Il diritto acquisisce infatti capacità di farsi «ordinamento» della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è dunque un caso che in paesi come il Messico, nei quali massima è la disuguaglianza sociale, massimo sia anche il default del sistema giustizia, seppure da un punto di vista formale l’ordinamento giuridico sia ineccepibile e gli apparati organizzativi siano adeguati. E non è un caso che, viceversa, in paesi come quelli scandinavi, ove lo Stato sociale realizzato ha ridotto e compensato le disuguaglianze di reddito, il sistema giustizia riesca ad assolvere compiutamente alle proprie finalità, con percentuali statistiche del crimine assolutamente fisiologiche e, quindi, pienamente governabili con gli strumenti ordinari della giurisdizione. Sicché in Danimarca, Svezia, Finlandia il tasso di fiducia nel sistema giustizia si attesta intorno all’80 per cento, a fronte del 4 per cento del Messico, del 14 per cento della Bulgaria e del 36 per cento dell’Italia secondo quanto emerge da uno studio effettuato nel 2010 dall’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con il Centro studi e ricerche sull’ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. Il nesso inscindibile tra questione criminale e questione democratica ha assunto un rilievo particolarmente rilevante nell’attuale fase storica segnata da una crisi della democrazia in tutti i paesi occidentali. A seguito della sinergia tra vari fattori macrosistemici di portata storica e di respiro internazionale (fine dell’equilibrio armato tra Unione Sovietica e Stati Uniti, esplosione di una globalizzazione economica priva di regole, transizione dall’economia industriale alla new economy dematerializzata, crescita abnorme di un capitalismo che opera come forza transazionale in grado di imporre la propria egemonia anche agli Stati eccetera), sono venuti progressivamente meno i peculiari equilibri tra forze sociali che, dal secondo dopoguerra sino alla caduta del Muro di Berlino, avevano determinato il compromesso democratico tra capitale e lavoro posto a fondamento dello Stato sociale liberaldemocratico, come realizzato nelle Costituzioni europee. Da qui, la fine della stagione del capitalismo democratico e dell’economia sociale di mercato e il trionfo unilaterale di politiche economiche neoliberiste, espressione di un capitalismo senza patria e senza regole che non è più disponibile al compromesso democratico e a farsi carico dei costi e degli oneri dello Stato sociale. L’attuazione di tali politiche – il cui obiettivo è la riduzione sistematica della spesa sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici e l’asservimento dello Stato alle esigenze degli attori forti del mercato – ha determinato in quest’ultimo quarto di secolo una crescita tumultuosa della curva delle disuguaglianze in tutto l’Occidente. Una curva che, dopo la chiusura della parentesi democratica che va dalla Costituzione del 1948 alla caduta del Muro di Berlino, ha riassunto lo stesso andamento che aveva all’inizio del XX secolo, prima dell’avvento delle Costituzioni democratiche, come ha tra gli altri dimostrato Thomas Piketty nel suo documentatissimo Il capitalismo del XXI secolo. Oggi, così come avveniva all’inizio del Novecento, la forbice tra ricchi e poveri si è enormemente dilatata. La ricchezza si concentra nelle mani del 10 per cento della popolazione, il ceto medio si proletarizza scendendo anno dopo anno i gradini della scala sociale e aumenta in modo preoccupante il tasso di povertà, con milioni di persone che hanno serie difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena e non hanno denaro sufficiente per soddisfare bisogni primari come quello della sanità. La crescita delle disuguaglianze e la decrescita dei diritti hanno assunto ritmi particolarmente accentuati in Italia. Il nostro paese si colloca oggi al ventesimo posto per disuguaglianza dei redditi nella classifica mondiale. Il 20 per cento della popolazione più ricca detiene il 66,41 per cento della ricchezza nazionale. Ai più poveri va solo lo 0,09 per cento. Un recente rapporto Ocse ha posizionato l’Italia tra i paesi membri con la maggior disuguaglianza dei redditi da lavoro. La crescita tumultuosa delle disuguaglianze non ha ricadute solo sulla società civile «legale», ma anche nell’amplissima e trasversale società civile «illegale». Nelle fasce popolari del crimine l’ingravescente degrado economico e sociale alimentato dal progressivo deperimento dello Stato sociale e dalla crescita delle disuguaglianze opera da propellente per il proliferare di una criminalità di sussistenza che, attraverso forme più o meno gravi di illegalità, cerca di sbarcare il lunario: dal furto di energia elettrica a quello dei cavi di rame, sino ai furti negli appartamenti, alle rapine, al contrabbando di sigarette, al piccolo spaccio di droghe leggere e via elencando. A Palermo, nel corso di alcune indagini antimafia, le microtelecamere predisposte per le intercettazioni ambientali hanno ripreso scene che vedevano file di persone in attesa di parlare con il capomafia del quartiere, implorando una raccomandazione per un qualsiasi lavoro per figli e parenti. A Napoli interi nuclei familiari appartenenti a una fascia sociale che conta 150 mila poveri sopravvivono nelle periferie di Secondigliano e di Scampia grazie al loro inserimento nella filiera dell’economia criminale della camorra: alcuni si dedicano alla fabbricazione seriale di falsi di prodotti griffati, altri allo smercio di sigarette di contrabbando o di droghe, altri ancora ad altre attività di supporto. L’abbandono e il degrado delle periferie urbane alimenta un serbatoio inesauribile per il reclutamento della manovalanza mafiosa e per quella delle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti. La rottura di tutti gli ascensori sociali in grado di garantire in modo legale il proprio miglioramento di status grazie al lavoro e all’impegno, spinge inoltre migliaia di altre persone a superare ogni remora al cercare nell’illegalità un’alternativa per un’ascesa economica e sociale. La crescita dell’illegalità nei piani bassi fa da pendant alla crescita nei piani medio alti, ove segmenti significativi delle classi dirigenti hanno: a) contribuito ad aggravare il declino economico della nazione, predando in modo sistematico le risorse e il denaro pubblico destinato agli investimenti per il rilancio dell’economia e per servizi essenziali dello Stato sociale; b) asservito poteri pubblici a finalità di arricchimento personale o di ristretti gruppi di interesse, ponendo in essere sofisticate manovre che dirottano le risorse della nazione dal pubblico al privato; c) proseguito a evadere il fisco non per necessità, ma per somme milionarie esportate nei paradisi fiscali e a investire nella speculazione finanziaria, facendo così mancare allo Stato le risorse essenziali per l’assolvimento delle sue finalità di riequilibrio delle disuguaglianze e di sostegno economico delle fasce più povere della popolazione. L’illegalità impunita dei piani alti contribuisce ad alimentare, come in un rapporto di causa effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale perversa nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della classe politica, la fiducia nelle istituzioni, il sentimento della coesione sociale, consegnando ciascuno a una perdente solitudine e a una rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti come valvola di sfogo da abili manipolatori. La questione giustizia in Italia non può dunque essere tematizzata riducendola solo a un problema di efficienza e di resa produttiva degli apparati, ma è questione ad altissimo coefficiente di politicità, giacché il sistema di giustizia è il punto più visibile e concreto in cui si manifesta il tasso di democrazia reale di un paese, la credibilità delle istituzioni e la coesione sociale. In questa difficile fase di transizione credo che tutti coloro che hanno a cuore il futuro della nostra democrazia possano contare su una risorsa e una bussola di orientamento preziose: la nostra Costituzione. Sino a quando essa resterà in vita, sapremo sempre da dove ricominciare e in quale direzione muoverci per il futuro. Sarà sempre possibile far cancellare dalla Corte costituzionale l’ennesima legge che viola valori fondanti, che uno schieramento politico approva e l’altro schieramento tiene in vita. Sarà sempre possibile opporre una linea Maginot, un baluardo al dilagare di politiche neoliberiste finalizzate a svuotare di contenuti i diritti sociali conquistati in decenni di dure lotte sociali e a trasferire, attraverso sofisticate ingegnerie istituzionali, le leve fondamentali per le politiche economiche e di bilancio fuori dagli Stati nazionali e dai loro organi di rappresentanza democraticamente eletti – parlamenti e governi – concentrandoli in organi sovranazionali privi di legittimazione democratica – Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale – fautori del pensiero unico liberista e della supremazia dei mercati, cioè delle concentrazioni oligopolistiche di capitale che dominano i mercati. Non è un caso che la Costituzione del 1948 nel corso dell’ultimo quarto di secolo sia stata al centro di ripetuti attacchi, nel tentativo di delegittimarla definendola ora comunista, ora un ostacolo alla governabilità del paese, e di ripetuti tentativi di stravolgerne parti essenziali mediante leggi di revisione costituzionale approvate da maggioranze politiche di diversi schieramenti. Leggi di revisione respinte da referendum popolari nel giugno 2006 e nel dicembre 2016 che hanno dimostrato come il nostro popolo sia più consapevole del valore della nostra Costituzione e del modello di società in essa insito di quanto lo siano larghe componenti della classe politica. E per chi come me è affetto da inguaribile patriottismo costituzionale, è motivo di consolazione e di speranza che questo nostro popolo nonostante tutto non abbia lasciato cadere nel vuoto le storiche parole pronunciate da Piero Calamandrei durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947: Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente. [...] Credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani. [...] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.


(27 novembre 2018)

** Quello riprodotto in queste pagine è il testo della Lectio «Chi ha paura della giustizia?», tenuta dall’autore il 19 settembre 2018 in occasione della XII Edizione dei Dialoghi di Trani, dedicati al tema della «Paura».

Foto © Imagoeconomica

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