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leolucabagarella.jpg9 gennaio 2008
“Recenti ed imponenti acquisizioni probatorie
dimostrano inequivocabilmente che la detenzione dell’imputato di reati di mafia

 


non interrompe né sospende il vincolo associativo né sostanzialmente impedisce al detenuto di concorrere alla consumazione di gravi reati all’esterno degli stabilimenti carcerari con istigazioni, sollecitazioni, consigli ed altre similari attività. All’interno degli stabilimenti inoltre le gerarchie mafiose si ricostituiscono automaticamente senza soluzione di continuità con gli organigrammi e le organizzazioni esterne, cagionando sovente il sovrapporsi di occulte autorità intramurarie al personale di custodia statale, espropriato in gran parte dei suoi poteri”. Queste sono le parole del giudice Paolo Borsellino. Era il 9 novembre 1984. La legge sul carcere duro ancora non esisteva. L’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario è stato introdotto in principio nel 1986 (legge Gozzini ndr) e riguardava, inizialmente, soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza. A seguito della strage di Capaci nel 1992 fu introdotto un secondo comma che rendeva possibile l'applicazione del regime speciale ai detenuti per reati di criminalità organizzata; tale disposizione era valida per tre anni, ma successivi interventi legislativi (a partire dalla legge 16/2/95 n. 36) ne hanno prorogato di anno in anno la validità. In occasione del decennale della strage di Capaci il 24 maggio 2002 il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge che prevedeva la proroga per ulteriori quattro anni dell'art. 41 bis (secondo comma), scadente al 31/12/2002 e l’applicazione anche ai reati di terrorismo ed eversione. Il 23 dicembre 2002, infine, il Parlamento ha eliminato ogni limite temporale all’applicazione del regime. Più di una volta nel corso degli anni il carcere duro è stato sottoposto a critiche. Resta nella storia la lettera proclama di Leoluca Bagarella che in teleconferenza accusa i politici di non aver mantenuto le promesse. Inutile stupirsi. Che il carcere duro non piaccia ai mafiosi può anche essere compreso. La legge prevede il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all’aperto e la censura della corrispondenza. Misure restrittive necessarie proprio per evitare quanto manifestato dal giudice Paolo Borsellino, il 9 novembre 1984; ovvero la continuità dei rapporti tra gli esponenti carcerati e quelli a piede libero. Un testo che probabilmente dovrebbe leggere anche la Corte Europea di Strasburgo. Il 27 novembre scorso, infatti, la stessa ha emesso una sentenza in cui condanna il regime del 41 bis. A renderlo noto è l’Ucpi (Unione delle Camere Penali Italiane ndr). La censura riguarda il mancato rispetto del termine di 10 giorni per l’esame da parte del Tribunale di sorveglianza competente sul ricorso del detenuto contro il provvedimento applicativo del regime di carcere duro. Inoltre si rivolge nei confronti dei decreti ministeriali “fotocopia” che uguali per tutti applicano le restrizioni previste dal 41 bis. Una “palla al balzo” che è stata immediatamente presa dai penalisti, i quali da tempo insistono per l’abolizione del regime di carcere duro, per chiedere alle istituzioni e alle forze politiche per intervenire a riguardo. Un fatto che, se preso in considerazione, lancerebbe un chiaro messaggio a tutta la società civile: la resa dello Stato. Ci si è forse scordati che tra i primi punti del papello stilato da Riina c’era l’aggiustamento dei benefici carcerari? Si è dimenticato il proclama di Leoluca Bagarella? Si son forse dimenticate le parole dei giudici Falcone e Borsellino che in vita hanno sostenuto con forza la necessità di maggiori misure di sicurezza verso i carcerati mafiosi? Forse che la Mafia non è più un pericolo? Noi crediamo che non sia così e restiamo indignati da certe considerazioni. La Mafia si è evoluta nel tempo. Ha rinunciato alla strategia stragista preferendo il “rumoroso silenzio”. Il livello raggiunto è altissimo e non coinvolge solo lo Stato Italiano. Così mentre le mafie sono sempre più globalizzate e fatturano migliaia di milioni di euro, noi siamo ancora lontani anni luce ad avere un unico Ordinamento Giuridico Europeo che uniformi la lotta contro le stesse. Forse la Corte Europea di Strasburgo dovrebbe occuparsi di questo e far sì che il reato per Associazione Mafiosa venga riconosciuto anche negli altri Paesi dell’UE. Sarebbe un primo passo.
O non è questa una priorità?

Aaron Pettinari

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