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di Stefano Baudino
Nonostante l’esito della sentenza di primo grado del Maxiprocesso, la sentenza del processo d’appello, emessa il 10 Dicembre 1990, ridusse le condanne emesse contro i mafiosi e smorzò la tesi dell’inderogabilità dell’impianto verticistico della Commissione di Cosa Nostra. La mafia, per quanto scalfita dal peso degli eventi, esultò: non tutto era perduto. Mancava dunque l’ultimo tassello del procedimento, ovvero la sentenza della Cassazione. I mafiosi erano col fiato sospeso: la Cupola si attivò con tutte le armi che aveva a disposizione affinché l’esito del processo fosse favorevole alla mafia. Nicolò Amato, magistrato che ha diretto il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria durante gli anni del terrorismo politico e delle stragi di mafia, nel suo saggio Gli amici senza volto di Corleone, scrive: “Incoraggiata da questa sentenza, Cosa Nostra si impegnò in tutte le maniere, attraverso i suoi tradizionali referenti politici, soprattutto Salvo Lima e i cugini Salvo, e sperando anche nell’intervento risolutivo di Giulio Andreotti, affinché in Cassazione il processo venisse affidato al presidente Corrado Carnevale o, almeno, alle Sezioni Unite con la sua partecipazione, nella convinzione che egli, detto “l’Ammazza-sentenze”, per aver già annullato per vizi di forma molti provvedimenti e sentenze d’appello per reati di mafia e di terrorismo, avrebbe garantito l’esito che sperava”. Eppure, conclude Amato, “l’obiettivo non fu raggiunto. Il processo venne assegnato ad altro Presidente e il 30 Gennaio del 1992 la Suprema Corte di Cassazione confermò gran parte delle condanne di primo grado, ma soprattutto confermò il principio del carattere verticistico e unitario, ossia la struttura piramidale dell’organizzazione mafiosa, da cui derivava la responsabilità automatica dei componenti delle sue Commissioni”.
Per Cosa Nostra, questa sentenza fu un colpo basso senza precedenti. Un pezzo dello Stato, incarnato da quel pool di professionisti coraggiosi e risoluti che aveva istruito il Maxiprocesso e da quella schiera di giudici che, al momento di mettere per iscritto una sentenza definitiva di condanna contro il mondo mafioso che contava, non si era tirato indietro, si era rialzato dal suo letargo e aveva deciso di colpire, dopo decenni di negazionismo giudiziario, quel pericolosissimo potere criminale parallelo che lo aveva da sempre impoverito ed umiliato.
La reazione della mafia fu immediata: andava attaccata ferocemente quella parte del mondo politico che, dopo avere convissuto e fatto affari con Cosa Nostra per decenni, aveva assicurato ai mafiosi di poter veicolare il processo verso un esito a loro favorevole e che non aveva mantenuto (o non era riuscita a mantenere) le sue promesse. Un mese e mezzo dopo la sentenza della Cassazione, il 12 Marzo 1992, due sicari si occuparono di assassinare Salvo Lima, leader in Sicilia della corrente politica di Giulio Andreotti, parlamentare della Democrazia Cristiana ed ex sindaco di Palermo. Il politico venne materialmente ucciso da Francesco Onorato, uomo di Totò Riina, che gli sparò alla nuca lasciandolo senza vita nei pressi della sua casa a Palermo. Sei mesi dopo, cadde sotto i colpi della lupara corleonese Ignazio Salvo, uno dei due cugini Salvo, i potentissimi esattori delle tasse che costituivano un importante collegamento tra Giulio Andreotti e la Cupola mafiosa (l’altro, Antonino, era già passato a miglior vita per cause naturali sei anni prima). Ignazio Salvo, esattamente come Salvo Lima, si era impegnato con gli uomini d’onore assicurando loro una sentenza favorevole in Cassazione. Il commando che l’aveva ucciso era formato dai fedelissimi di Totò Riina e capitanato da Leoluca Bagarella. L’avvertimento fatto pervenire dai mafiosi ad Andreotti era chiaro: Cosa Nostra non si fidava più di lui.

In foto: Palermo, 12 marzo 1992. L'omicidio dell'europarlamentare DC, Salvo Lima

Rubrica Mafia in pillole

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