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consultadi Antonio Ingroia
In un Paese in cui la politica pretende di decidere qualsiasi nomina, non per spirito di servizio ma solo per esclusivo interesse di parte, se non addirittura per interesse privato (vedi Berlusconi), il lungo e grave stallo sull’elezione dei giudici della Corte Costituzionale giustamente indigna ma francamente non sorprende. Troppo importante la Consulta per sperare che i partiti non ne vogliano fare terra di conquista anziché lasciarla al suo ruolo istituzionale di supremo organo di garanzia costituzionale. Così dalla fine di giugno dello scorso anno la Corte è costretta a lavorare a ranghi ridotti, con dodici giudici anziché quindici, perché il Parlamento non riesce a trovare una sintesi e nominare i giudici di sua competenza arrivati a fine mandato.

A nulla sono serviti pure i moniti dei presidenti di Camera e Senato: ventinove votazioni, altrettante fumate nere. Come se si trattasse di una litigiosa assemblea di condominio convocata per deliberare sulla tinteggiatura o meno del palazzo e non delle Camere chiamate a completare la composizione di un organismo fondamentale per la nostra vita democratica, che come tale deve essere pienamente legittimato e assolutamente in grado di funzionare.
Non ci si può sorprendere, dicevo. Non si può perché la squallida trattativa che da quasi un anno e mezzo paralizza l’elezione dei tre giudici di nomina parlamentare mancanti, contribuendo a delegittimare ulteriormente le istituzioni agli occhi di cittadini, è l’inevitabile conseguenza della solita logica perversa per cui i nomi non vengono individuati in base a sacrosanti criteri di indipendenza, autorevolezza e competenza ma in base al più utilitaristico e misero principio di appartenenza. Ecco allora che tra i candidati ci sono immancabilmente figure d’area, quando non uomini di partito, parlamentari o ex parlamentari, com’è oggi il deputato forzista Francesco Paolo Sisto, già avvocato di Silvio Berlusconi, di Denis Verdini e di Raffele Fitto, o quali erano ieri l’ex presidente della Camera Luciano Violante (Pd) e il senatore Donato Bruno (Forza Italia), vecchio amico di Cesare Previti.

Si dirà: ma se cinque giudici sono di nomina parlamentare è normale che siano espressione dei partiti. Del resto succedeva così anche ai tempi della Prima Repubblica, quando, in base alle regole ‘storiche’ della lottizzazione, dei cinque giudici due erano sempre Dc, uno Pci, uno Psi e un altro laico. Vero, tanto più che i costituenti vollero opportunamente equilibrare la composizione della Corte prevedendo 5 giudici di estrazione politica accanto ai cinque nominati dal Capo dello Stato e ai cinque togati nominati dalle supreme magistrature. Ma ciò non toglie che la scelta del Parlamento dovrebbe ricadere sulle personalità migliori, da individuare in base a professionalità e terzietà, nell’interesse del Paese e non del governo o della maggioranza di turno. Invece in questa lunga e squallida vicenda quello che è già emerso e che continua a emergere è solo il peggio della politica: la prepotenza, l’arroganza, il mercanteggiamento dei voti, il gioco dei veti incrociati, la pretesa inaccettabile di garantirsi una Consulta il più possibile ‘amica’, l’incapacità e la mancanza di volontà di arrivare a soluzioni condivise, come invece vollero i costituenti quando decisero un quorum elevato per l’elezione dei giudici. Lo stesso è accaduto a suo tempo con il Csm, con l’elezione alla vicepresidenza di Giovanni Legnini. Scelta assolutamente inopportuna, non per Legnini in sé ma per una questione esclusivamente politica, dal momento che Legnini non solo è un politico di lungo corso ma era anche sottosegretario all’Economia e la sua elezione è servita soprattutto al governo per allungare di fatto le mani sull’organo preposto a tutelare l’autonomia dei magistrati.

Insomma, sembra quasi che sia impossibile uscire al di fuori della lista dei soliti noti e invece nomi autorevoli e di assoluta garanzia ce ne sono, ma evidentemente pagano la colpa di non avere mai preso la tessera di questo o quel partito, di non aver espresso parere favorevole per questa o quella riforma. Perché la partita, oggi, si gioca anche e soprattutto su questo, sulle riforme. Se Berlusconi voleva garantirsi giudici che gli facessero passare le varie leggi ad personam, e ancora oggi ha bisogno assoluto di un uomo di sua fiducia nella Corte, Renzi punta evidentemente ad avere alla Consulta giudici che non mettano a rischio le sue riforme. La Corte, infatti, tra le altre cose sarà chiamata a decidere anche sulla legittimità costituzionale dell’Italicum, della riforma del Senato, della legge Severino. Le prime due sono riforme figlie dirette della coppia Renzi-Boschi, di fatto imposte al Parlamento e votate attraverso voti di fiducia. La terza è la legge che mette in discussione la poltrona di governatore di Vincenzo De Luca in Campania, altra questione delicatissima per il Pd. Da quello che la Corte deciderà dipenderanno evidentemente il futuro di Renzi, del governo, del Pd, è dunque chiaro che la posta in gioco è altissima. Di qui la ‘pretesa’ di blindare le nomine, per non esporsi a rischi. Con buona pace dell’interesse generale, ancora una volta sacrificato sull’altare dell’interesse di parte. Anzi, ancora una volta, dell’interesse di partito.
(10 dicembre 2015)

Fonte: (lultimaribattuta.it)

Tratto da: azione-civile.net

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