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renzi1di Antonio Ingroia - 26 marzo 2014
Questa settimana la rubrica di Antonio Ingroia sul periodico “L’ultima ribattuta” è dedicata ai grandi annunci e ai pochi (e pessimi) fatti di Matteo Renzi

Il governo ha compiuto il suo primo mese in carica sabato scorso, all’indomani del Consiglio Ue di Bruxelles, il primo vertice europeo di Renzi. Un mese è oggettivamente un orizzonte di tempo troppo breve per arrivare a conclusioni – non sono nemmeno i fatidici 100 giorni – ma è comunque abbastanza per fare le prime significative considerazioni sulla direzione presa, sulle riforme avviate e su quelle solo annunciate, sulla effettiva fattibilità di queste ultime, sullo scostamento tra parole e fatti, sulle criticità e le contraddizioni già emerse, sulla disinvoltura con cui si è mosso Renzi, a cui l’unica cosa ‘riuscita’ davvero finora è l’aver resuscitato politicamente Berlusconi. E allora se è presto per emettere anche solo una sentenza di primo grado è invece già possibile fare una dura requisitoria su quello che presidente del Consiglio e governo hanno fatto e non fatto finora.

Il primo dato emerso in modo chiaro è la forte impostazione spettacolaristica e propagandista scelta, che tanto ricorda il Berlusconi del contratto con gli italiani, e sappiamo bene poi come è andata a finire. Al netto dei contenuti, su cui entrerò nel merito più avanti, tra conferenze stampa e discorsi per la fiducia alle Camere, Renzi si è presentato infatti con un programma tanto seducente quanto improbabile: riforme costituzionali ed elettorali a febbraio, riforma del lavoro a marzo, riforma della pubblica amministrazione ad aprile, riforma del fisco a maggio, una non precisata riforma della giustizia a giugno. E più nel dettaglio: nuova legge elettorale, trasformazione del Senato, taglio del cuneo fiscale, riduzione dell’Irpef con i famosi 80 euro in più al mese per i redditi bassi, sblocco totale del pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, Job Act, sussidio universale di disoccupazione, rilancio dell’edilizia scolastica e tanto altro ancora. Insomma, di tutto e di più in un grande spot elettorale all’insegna dell’ottimismo a tutti i costi.
Un azzardo chiaramente pericoloso, tanto più se oltre al tempo mancano i soldi e cioè le famigerate coperture finanziarie. Quelle che, anche a voler dar credito e fiducia al presidente del Consiglio, inchiodano sempre alla dura realtà dei fatti, quelle che da anni sono la coperta corta che impedisce di fare le riforme strutturali di cui c’è bisogno per ridurre la pressione fiscale, rilanciare crescita e occupazione e ridare ossigeno a famiglie e imprese. Renzi ha provato a giocarsela su un doppio tavolo, interno ed esterno: all’interno cercando risorse soprattutto grazie alla cura Cottarelli, una spending review che per il premier vale 7 miliardi e per il commissario solo 3; all’esterno provando a ridiscutere con l’Europa, e con la Merkel in particolare, quelle rigide regole di bilancio che ci condannano a un rigore senza senso. Ebbene, nonostante la grande fiducia esibita, sull’uno e sull’altro fronte le cose sono andate molto diversamente da come il presidente del Consiglio credeva.
La spending review di Cottarelli, infatti, si è già scontrata da una parte con le esigenze politiche ed elettorali di Renzi, che ha bacchettato il commissario smentendo quegli interventi sulle pensioni, anche quelle più alte, che da soli rappresentavano un quarto della manovra, e dall’altra con la forte resistenza delle categorie, degli enti, degli apparati su cui si dovrebbero abbattere i tagli, simboleggiata in maniera eloquente dall’altolà alla riduzione dello stipendio dell’ad delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti. Sarà che a maggio si vota per le europee, ma guarda caso nell’ultima conferenza stampa a Bruxelles il presidente del Consiglio ha di fatto smontato il piano Cottarelli liquidandolo come “buon punto di partenza che però su alcune cose non mi ha convinto” e rivendicando per la politica, quindi nello specifico per se stesso, l’ultima parola.
Anche peggio è andata sul fronte europeo, dove Renzi sperava di ottenere un ammorbidimento delle regole fiscali, e cioè il via libera a un aumento del disavanzo dal 2,6% al 2,8%, se non al 3% del Pil, per recuperare i 3-4 miliardi di euro necessari per finanziare riforme e taglio della pressione fiscale. Speranza smontata dal no netto dell’Ue, che ha richiamato l’Italia al rispetto dei patti. E i sorrisini, sicuramente fastidiosi e inopportuni, di Barroso e Van Rompuy raccontano bene, purtroppo, l’idea che Bruxelles continua ad avere di noi.
Morale della favola, l’autostrada dei sogni tracciata da Renzi si è trasformata in meno di un mese in un vicolo buio e stretto. In queste quattro settimane e poco più di governo le coperture non sono state ancora trovate, le belle parole sono rimaste tali, le promesse hanno perso slancio, gli slogan hanno smesso di incantare. Lo dice la delusione di Confindustria, con il presidente Squinzi che smonta la storia del ritrovato feeling con la Germania. Lo dice l’Economist, che definisce Renzi “un giocatore d’azzardo che va di fretta”. Lo dicono i fatti, ovvero gli unici due provvedimenti dettati o prodotti dal governo a dispetto delle tante chiacchiere: la riforma elettorale e il decreto Poletti sul lavoro. Della prima ho già scritto, definendola un grande inganno capace persino di peggiorare, sotto certi aspetti, il Porcellum. Quanto al secondo, mi unisco a chi fa giustamente rilevare che le misure previste dal decreto non creeranno occupazione ma produrranno solo un’ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro e avranno come unico effetto quello di allargare l’area di precarietà. Insomma, gli unici fatti sarebbe stato meglio non farli.
Tutto il resto, tutte le grandi riforme annunciate, restano appunto annunci in attesa di essere tradotti, non si sa ancora né come né quando, in qualcosa di concreto. Sperando di trovare le risorse che non ci sono e le coperture che non si è ancora capito da dove verranno fuori. Ma se qualche settimana fa si poteva almeno sperare che Renzi riuscisse a convincere Bruxelles a rivedere il rigore del Fiscal compact, ora che l’azzardo europeo è fallito resta l’enorme punto interrogativo di come trovare una via di uscita per mantenere gli impegni presi con gli italiani. Doveva essere #lavoltabuona, io, purtroppo, vedo solo una strada che porta a sbattere.

Tratto da: azionecivile.net

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