Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

gratteri-nicola-web7di Antonio Ingroia - 7 marzo 2014
Da questa settimana Antonio Ingroia ha una rubrica su un giornale che comincia le sue pubblicazioni in questi giorni con cadenza settimanale e che ha anche un sito online, “L’ultima ribattuta”. Vi riportiamo il primo articolo pubblicato, sulla vicenda Gratteri.

Nel governo Renzi non c’è posto per un magistrato bravo e fuori dalla politica come Nicola Gratteri, ma c’è posto per indagati, impresentabili e riciclati, distribuiti a pioggia nella folta schiera di viceministri e sottosegretari immancabilmente nominati in base alla peggiore logica spartitoria. Sarà pure un premier 2.0 Renzi, sempre connesso e sempre col tweet pronto, ma quando si è trattato di assegnare le 44 poltrone di sottogoverno si è affidato anche lui al vecchio e intramontabile manuale Cencelli, ricorrendo al bilancino per non scontentare nessuno, accettando alla fine anche nomi da bollino rosso per chi si è presentato come il grande rottamatore.

Così tra i 44 hanno trovato posto 4 indagati, e cioè i Pd Francesca Barracciu, Vito De Filippo, Umberto Del Basso de Caro e Filippo Bubbico, i primi tre sotto inchiesta per i rimborsi facili dei gruppi consiliari nelle loro rispettive regioni e il quarto per abuso di ufficio. Ha trovato posto il senatore del Nuovo Centrodestra Antonio Gentile, noto per le pressioni fatte a L’Ora della Calabria affinché non pubblicasse l’articolo con la notizia del figlio indagato. Ha trovato posto il nuovo vice ministro alla Giustizia Enrico Costa, oggi con Alfano ma sempre berlusconianissimo, già relatore del lodo Alfano e infaticabile promotore ed estensore di tutte le più recenti leggi ad personam. Ha conservato il suo posto – uno dei 18 confermati, alla faccia del rinnovamento – il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, che nel governo Letta era entrato su indicazione di Berlusconi e che in passato è stato toccato da scandali come Calciopoli, P3 e caso Agcom-Annozero.
Renzi dovrebbe spiegare, ma è chiaro che questi nomi rappresentano il prezzo da pagare alle larghe intese, con buona pace del nuovo che avanza e di chi ci aveva ingenuamente creduto. Il nuovo non avanza affatto, semmai fa un passo avanti e dieci indietro. Il governo Renzi di nuovo ha infatti solo l’apparenza, ottenuta attraverso lo studiato intervento di lifting e l’accurata operazione di casting che ha portato alla guida di alcuni Ministeri facce nuove, ma la sostanza è la stessa che tiene l’Italia ferma da anni, con l’aggravante di un’altra occasione sprecata: eravamo paralizzati dalle larghe intese, zavorrati dai conflitti di interesse e piegati ai poteri forti, restiamo paralizzati dalle larghe intese, zavorrati dai conflitti di interesse e piegati ai poteri forti. Nonostante il tanto celebrato ‘largo ai giovani’, questo è infatti un governo di continuità. La brutta copia del governo Letta, che a sua volta era la brutta copia del governo Monti. E’ un governo nato già morto.
D’altra parte che il cambiamento sarebbe rimasto solo una terra promessa lo si è capito già dalle nomine dei Ministri: Alfano agli Interni, Lupi alle Infrastrutture, la Lorenzin alla Salute, esattamente come con Letta! Delrio è stato promosso da ministro a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Franceschini e Orlando si sono limitati a cambiare poltrona, lasciando quella dei Rapporti con il Parlamento per quella della Cultura il primo, quella dell’Ambiente per quella della Giustizia il secondo. Per non far mancare un sostanzioso conflitto di interessi, ecco poi Giuliano Poletti, presidente nazionale di Legacoop, al Lavoro, e Federica Guidi, già presidente dei giovani di Confindustria e figlia di Guidalberto Guidi, industriale vecchio amico di Berlusconi, al cruciale Ministero dello Sviluppo economico. Insomma, dentro tutti i soliti noti: Cl, Coop rosse, Confindustria.
A Renzi è mancato il coraggio, anche quando un po’ di coraggio ha provato a darselo scegliendo per il Ministero della Giustizia Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, magistrato da sempre impegnato nella lotta alla ‘ndrangheta, nonché un innovatore con idee chiare su come riformare il malandato sistema giudiziario italiano. Insomma, una scelta di alto profilo, fuori dalla politica. Renzi è salito al Quirinale con il nome di Gratteri per la Giustizia e – raccontano i bene informati – con la determinazione a difendere la sua scelta fino in fondo, ma è sceso con il nome di Orlando, respinto con perdite da Napolitano.
Perché? Intanto il legittimo sospetto è che il nome Gratteri non fosse gradito a Berlusconi. Poi, come ha detto Graziano Delrio a Lucia Annunziata, perché ci sarebbe una regola non scritta secondo cui non è possibile che un magistrato possa diventare Guardasigilli. Anche se è bravo e competente, anche se non ha mai manifestato appartenenze politiche, anche se ha idee e proposte per rimettere in moto una macchina pesante, lenta e ingolfata come la Giustizia italiana, anche se ha dimostrato sul campo di saper fare davvero la lotta alla mafia. Una regola non scritta, a cui però in passato, anche nel recente passato, si è derogato senza troppi problemi, basta ricordare le nomine di Filippo Mancuso e Francesco Nitto Palma, entrambi magistrati poi diventati Guardasigilli. Nitto Palma, vicino a Berlusconi e Cosentino, con il benestare dello stesso Napolitano, che firmò senza invocare regole non scritte. Lì, evidentemente, la regola non valeva.
Su Gratteri, invece, il Quirinale non ha voluto sentire ragioni e Renzi, l’ambizioso e decisionista Renzi, che su Gratteri “era molto determinato” – parole sempre di Delrio – ha ceduto. E così in via Arenula è andato Andrea Orlando, uomo del Pd, una vita all’interno del partito cominciando dalla Fgci e attraversando via via tutta la mutazione che ha portato il Pci a diventare il Pd renziano. Una scelta conservativa, di retroguardia, a cui Berlusconi ha preteso di affiancare Costa e Ferri, per blindare la Giustizia ed evitare sorprese. Di nuovo, in tutta evidenza, non c’è niente! Né Renzi, chiedendo la fiducia in Aula, ha fatto capire cosa intende davvero fare per la Giustizia: ha parlato di un pacchetto organico di revisione del sistema, ma l’ha fatto con una vaghezza e una approssimazione sconcertanti, senza dire quale idea di riforma ha in mente, soprattutto per quanto riguarda la giustizia penale. Valuteremo il lavoro di Orlando sui fatti, perché a parole siamo bravi tutti, ma intanto resta il dato oggettivo che su una importante scelta di rottura, quella che avrebbe potuto portare a capo della Giustizia un magistrato competente e indipendente, in grado di avviare un reale rinnovamento, il presidente del Consiglio ha subito rinnegato se stesso.
Ormai conosciamo il vero Renzi: quello che diceva “mai più larghe intese” e che ora è invece al governo con Alfano, quello che fino a qualche settimana fa indicava le elezioni come unico strumento per governare e ora è a Palazzo Chigi senza una investitura popolare, quello che prometteva in tv assoluta fedeltà a Letta salvo tradirlo appena qualche giorno dopo. La verità è che il grande rottamatore alla fine ha rottamato pure se stesso, dismettendo i panni dell’innovatore per indossare quelli del gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente!

Tratto da: azionecivile.net

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos