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anche per giocare servono regole verdi Gherardo Colombo
Buongiorno ragazzi, ora vi dico chi sono e perché ho scritto questo libro. Mi chiamo Gherardo Colombo, sono nato nel giugno del 1946, il mese in cui gli italiani hanno scelto di vivere in una Repubblica (e non, come era successo fino ad allora, in una monarchia) e in cui è iniziata la creazione della nostra Costituzione. Quando avevo più o meno la vostra età, alla fine del liceo, ho deciso di iscrivermi a Giurisprudenza perché volevo fare il giudice. Mi sarebbe piaciuto svolgere un’attività utile anche alla collettività, ed ero convinto che verificare l’osservanza delle regole fosse importante quasi quanto fare il medico, la professione di mio padre, della quale avevo una grande considerazione ma che non pensavo sarebbe stata la mia strada. Dopo l’università, una parentesi lavorativa e una molto sostanziosa ripresa degli studi, ho affrontato il concorso e sono stato nominato magistrato. Facendo prima il giudice, poi il pubblico ministero, e infine ancora il giudice mi è successo di giudicare e di condannare, alla fine degli anni Settanta, il capo della mafia di allora (e alcuni suoi accoliti); di scoprire agli inizi degli anni Ottanta un’associazione segreta, chiamata P2, che interferiva pesantemente sul funzionamento dello Stato (vi erano iscritti, per dire, gli appartenenti ai servizi segreti che avevano deviato le indagini sulle stragi susseguitesi in Italia dal 1969 al 1980); di far emergere, a metà degli anni Ottanta, un enorme fondo occulto di due società del gruppo Iri (un’immensa azienda dello Stato) utilizzato, tra l’altro, per foraggiare personaggi politici, correnti e giornali di partito; di partecipare con il pool cosiddetto di Mani pulite, all’inizio degli anni Novanta, allo svelamento di Tangentopoli, il sistema della corruzione; di investigare su alcuni magistrati accusati di corruzione tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo.
Succedeva nel frattempo che in Italia si susseguissero la stagione delle stragi (che hanno visto spesso la compromissione di parte delle istituzioni), del terrorismo (che ha fatto centinaia di vittime, tra cui anche tanti miei colleghi, alcuni dei quali dello stesso palazzo di giustizia dove lavoravo), delle guerre di mafia (anche la mafia ha ucciso tanti magistrati, tra cui persone che conoscevo molto bene), ancora di stragi. E succedeva nel mondo che si facessero colpi di stato (in Argentina, nella seconda metà degli anni Settanta, i desaparecidos furono oltre 30.000, tanti dei quali gettati nell’oceano da aerei che volavano alti; in Cile, a metà degli anni Settanta, venne ucciso il legittimo presidente della Repubblica, bombardando il palazzo del governo, e si susseguirono anni di terrore) ma anche che finissero regimi dittatoriali o illiberali (la Grecia dei Colonnelli e la Spagna di Francisco Franco nella prima metà degli anni Settanta; la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta).
Dunque, sono entrato in magistratura avendo il senso della giustizia che promana dalla nostra Costituzione, e più in particolare dal suo principio fondamentale, quello da cui tutto deriva, la dignità pari di tutte le persone: come dire che tutti siamo importanti, e che lo siamo tanto quanto gli altri. Ero inoltre accompagnato da due convinzioni parallele, piuttosto marcate. La prima, che la stragrande maggioranza degli esseri umani tende naturalmente al bene, e che se non mette in pratica questa tendenza è perché le manca l’informazione sufficiente per comprendere dove sta, nella pratica vita quotidiana, il bene e dove sta il male. Il mio impulso era quindi quello di far emergere ciò che non si sa. A cominciare dagli imbrogli meno marcati, per arrivare alle trame, agli intrighi, alle vere ingiustizie. E, seconda convinzione, che la minaccia della punizione (e quindi della sofferenza) fosse un efficace strumento educativo. Non avrei fatto il giudice penale, e poi il pubblico ministero, se non l’avessi pensata così. Ovviamente, la punizione doveva essere circondata da tutte le possibili garanzie, per evitare che potesse essere condannato un innocente e che il processo non rispettasse i diritti della persona, che non la umiliasse. Ma il carcere, a mio parere, era uno strumento necessario per educare le persone a rispettarsi vicendevolmente. Ed era anche lo strumento più adatto a tutelare la sicurezza della collettività. Era del resto quel che ti insegnavano all’università, la giustificazione dell’esistenza del diritto penale: la minaccia della pena trattiene dal trasgredire chi lo vuol fare, e la constatazione che chi trasgredisce subisce la pena trattiene anche coloro che gli stanno intorno.

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Gherardo Colombo © Imagoeconomica


E siccome il principio del nostro stare insieme è quello della pari dignità, ero altrettanto convinto che chiunque avesse trasgredito (non solo i poveri e i diseredati, ma anche i ricchi, i potenti, i politici, i giudici) avrebbe dovuto subire la pena. È per questo motivo che la maggior parte della mia attività ha riguardato i crimini dei potenti.
Tuttavia le esperienze che ho vissuto nell’esercizio della professione, quelle che avevano attinenza con il lavoro e quelle che riguardavano altro, le letture, la conoscenza di persone speciali, hanno progressivamente messo in dubbio queste mie due convinzioni e poco alla volta me le hanno fatte modificare: oggi non credo sia sufficiente svelare per evitare scelte contrarie al riconoscimento della dignità universale, e constato che la punizione non educa (se non, eventualmente, a diventare obbedienti). E non lo credo da anni, da quando sono arrivato, proprio per questo cambiamento, a dimettermi dalla magistratura nel febbraio del 2007, lasciandola definitivamente dopo circa tre mesi.
Entrare nel dettaglio di questo percorso sarebbe troppo lungo, ci porterebbe per certi versi fuori strada. Ve ne do qualche cenno, giusto perché possiate capire: lo svelamento della mafia, le condanne di tante persone, la mafia non l’hanno fatta sparire e nemmeno marginalizzata; la scoperta della P2 è stata rintuzzata dal trasferimento delle indagini ad altra sede, e quel che già era stato scoperto (e ciò che è emerso successivamente grazie a una commissione parlamentare d’inchiesta) non ha portato a cambiamenti sostanziali; altrettanto è avvenuto per i fondi neri dell’Iri, come si trattasse di una fotocopia delle vicende processuali della P2; l’indagine immensa sulla corruzione degli anni Novanta si è conclusa, mentre non si è conclusa la corruzione. Insomma, svelare il potere non è servito a cambiare il mood della cittadinanza.
E passiamo alla pena: se a qualcosa educa, è all’obbedienza, ma l’obbedienza non è una caratteristica della democrazia, che si basa sulla condivisione. E, peraltro, non educa nemmeno all’obbedienza. Il 68-70 per cento delle persone che ha subito il carcere, in carcere ci ritorna, per aver commesso reati ulteriori: credo basti questo a confutare l’efficacia educativa dello strumento.
Perché le persone non trasgrediscano è necessario che capiscano perché rispettare le regole. E perché si rispettino le regole è necessario andarci dentro, comprenderle, confrontarle con la propria esistenza. È necessario sceglierle. Le regole, infatti, possono organizzare la nostra esistenza in modi diversi, addirittura opposti: mettendo in cima la discriminazione o le pari opportunità. Per scegliere tra l’una e l’altra di queste forme bisogna conoscerne i contenuti, in modo da presagirne gli effetti su ciascuno di noi. Per questo ho scritto Anche per giocare servono le regole, per mostrarvi le basi da cui partire perché possiate scegliere quale percorso intraprendere, in vista di quale scopo.
Tanti auguri, ragazzi, spero che questo piccolo contributo vi sia utile.

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Tratto da il libro ''Anche per giocare servono le regole. Come diventare cittadini'' (ed. Chiarelettere)