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di Giuseppe Pipitone
Non solo la rabbia per lo stop ai colloqui familiari e la paura del contagio. Le indagini sulle rivolte di marzo battono la pista di una regia occulta e comune dietro ai disordini. Un coordinamento esterno con l'ombra lunga dei clan che ha fatto scoppiare le ribellioni quasi in contemporanea in tutta Italia. Con l'obiettivo di tornare a parlare di indulto e amnistie

Un’unica regia criminale esterna ai penitenziari, che dentro ha trovato sponde anche in ambienti diversi da quelli dei clan. C’è l’ombra delle mafie sulle rivolte che hanno coinvolto le carceri nei primi giorni dell’emergenza coronavirus. Tra il 7 e il 9 marzo, mentre l’epidemia cominciava a diffondersi nel Paese, 22 penitenziari italiani sono esplosi in violenti ribellioni. Ingenti i danni causati alle strutture, con il governo che ha stanziato 20 milioni di euro solo per i primi lavori di recupero. Ancora più alto il prezzo umano: decine i feriti, anche tra gli agenti della polizia penitenziaria, dodici i detenuti morti, secondo le autorità tutti di overdose, dopo aver ingerito quantità esagerate di farmaci e metadone rubate nelle farmacie carcerarie.

Gratteri: “Schermare le carceri ai segnali telefonici
Un mese dopo l’emergenza legata al coronavirus sta costringendo l’intero Paese a una serrata generale di cui non è al momento possibile prevedere la fine. Tra le oltre dodicimila vittime, intanto, giovedì a Bologna si è registrato il primo detenuto morto positivo. E il dibattito sulle condizioni dei penitenziari si è riaperto, di nuovo equamente diviso tra chi chiede di concedere gli arresti domiciliari ad almeno diecimila carcerati (con le norme del Cura Italia sarebbero al massimo seimila), e chi invece considera quest’eventualità come un segno di cedimento dello Stato. “Questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali”, ha detto per esempio il magistrato Nino Di Matteo, durante il suo intevento al Csm riunito per discutere le norme approvate dall’esecutivo per combattere il contagio dentro alle case circondariali. “Anche se nei fatti non è un cedimento dello Stato - ha continuato l’ex pm di Palermo - rischia di apparire tale”. Ancora più esplicito il parere di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro: “Se fossi il ministro della Giustizia la prima cosa che farei in questo momento è quella di schermare le carceri ai segnali telefonici. Non è un caso che le rivolte scoppino contemporaneamente a migliaia di chilometri di distanza. Questo avviene perché gli istituti penitenziari sono pieni di telefoni cellullari. Com’è possibile altrimenti che alle 10 del mattino scoppi una rivolta a Foggia e nello stesso tempo a Modena?”.

Le ragioni della rivolta
Ufficialmente le rivolte di marzo sono scoppiate dopo lo stop dei colloqui con i familiari, ordinato per limitare il contagio del virus. A fare da detonatore sarebbe stata anche la richiesta dei detenuti di avere adeguate condizioni sanitarie per proteggersi dal Covid. Ma non solo. Notoriamente, infatti, la situazione nelle carceri italiane è sempre in emergenza a causa del sovraffollamento. Secondo i dati del ministero della Giustizia nel nostro Paese i posti nei penitenziari sono meno di 49mila ma ospitano più di 58mila persone. In alcune occasioni, dunque, i detenuti hanno approfittato dei momenti di caos per chiedere trattamenti migliori. È successo per esempio a Milano. “Non c’entra il coronavirus, lì avevano colto l’occasione di questo momento storico per rivendicare trattamenti carcerari migliori, a partire da una diminuzione delle presenze nelle carceri. A San Vittore sono 1200 e dovrebbero essere 700″, ha detto per esempio il procuratore aggiunto Alberto Nobili, che è salito sul tetto del carcere milanese per parlare con i detenuti in rivolta.

Rivolte in contemporanea

Lo stop ai colloqui, la paura del contagio, la richiesta di condizioni migliori sono però solo concause. “I colloqui familiari servono anche a gestire potere e affari fuori dalla cella. Pensate agli spacciatori, per esempio. Se vengono sospesi i colloqui come si gestiscono gli affari fuori? Il traffico di stupefacenti non si ferma, mai”, dice al fattoquotidiano.it un investigatore molto esperto di dinamiche carcerarie. “Se poi - continua - davvero il problema principale erano le condizioni sanitarie, che senso ha devastare e saccheggiare le infermerie come invece è avvenuto?”. Dietro alle ribellioni, insomma, c’è dell’altro. A colpire l’attenzione degli investigatori è stato soprattutto il fattore cronologico, già sottolineato da Gratteri: le rivolte sono scoppiate praticamente in contemporanea in tutto il Paese. Come se “Radio carcere” avesse diffuso a tutti l’ordine del caos. Anche per questo motivo già subito dopo i disordini da più parti si era ipotizzato come dietro le ribellioni nei penitenziari potesse esserci una regia occulta e unitaria.

carcere detenuti c imagoeconomica

L’ombra dei clan
Un’ipotesi che adesso viene confermata dai primi risultati delle indagini. Diverse procure in tutta Italia hanno aperto fascicoli sulle rivolte, in cui sono confluite le informative del Nucleo investigativo centrale - il reparto speciale della polizia penitenziaria che si occupa di criminalità orgnaizzata- e del Gom, il gruppo operativo mobile. Sono rapporti top secret che descrivono ogni attimo di quello che è successo tra il 7 e il 9 marzo. Ilfattoquotidiano.it ha interpellato alcuni esperti investigatori che hanno seguito gli sviluppi sul campo e che oggi non hanno dubbi: le rivolte non possono non essere state “coordinate” dall’esterno. Un coordinamento che va accreditato alle organizzazioni criminali, soprattutto la ‘ndrangheta, ma condiviso e spinto anche dalle altre mafie, come Cosa nostra, la Camorra e la mafia foggiana in Puglia. Le dinamiche dentro al carcere, però, sono complesse e molto diverse da quelle che vanno in scena all’esterno. L’ipotesi più accreditata è che dietro una regia, da far risalire alle associazioni criminali, si sia innestata anche un’altra matrice: quella degli estremisti - soprattutto anarchici - che a livello ideologico sono sempre disponibili a sovvertire l’ordine, anche se si tratta solo di una breve rivoluzione interna al penitenziario.

Da Salerno a Roma: strane coincidenze
È sulla regia dei clan, però, che si sono focalizzati gli inquirenti. Il primo penitenziario in assoluto a ribellarsi è stato quello di Salerno il 7 marzo. Era un sabato e, lamentandosi per lo stop ai colloqui con i familiari, i detenuti hanno devastato un intero piano del carcere di Fuorni. La protesta si era esaurita in serata, ma sarebbe stato solo il prequel di un caos generale pronto a riprendere il giorno dopo a Napoli, nel carcere di Poggioreale. “Da lì è scoppiato Regina Coeli a Roma e poi a Rebibbia. Con i familiari che in tempo reale si sono materializzati davanti agli istituti. Non possiamo fare finta di non vedere che la stessa consecutio - Salerno, Napoli, Roma - è stata seguita anche in passato per altre rivolte organizzate. Addirittura fin dagli anni ’70, ai tempi delle ribellioni per il nuovo ordinamento penitenziario”, spiega un altro investigatore.

In Calabria zero rivolte
Non è l’unica coincidenza. Sempre gli inquirenti, infatti, fanno notare come i penitenziari siano esplosi praticamente in tutta Italia: in Sicilia, in Campania, nel Lazio, in Emilia-Romagna, in Lombardia. E quindi sia nelle Regioni dove storicamente sono presenti potenti organizzazioni criminali, sia nel Nord Italia, dove molti boss sono reclusi in regime di 41 bis, anche se a protestare ovviamente sono stati i detenuti delle sezioni comuni. “Curiosamente però - fa notare un altro inquirente – non abbiamo registrato disordini in Calabria. Zero totale se paragonato alle altre zone d’Italia, del Sud in particolare”. Dunque la Regione d’origine di quella che è oggi la più potente associazione criminale nel Paese - cioè la ‘ndrangheta - non ha partecipato ai disordini. “Ma non perché abbia preso le distanze dalla protesta, anzi, al contrario. Essendo le mafie la parte più alta della criminalità, in modo molto più furbo hanno fatto in modo che fossero gli altri a portare avanti la rivolta”. A questo proposito, infatti, gli inquirenti hanno notare come le rivolte più violente siano andate in scena nei penitenziari emiliani: nel Sant’Anna di Modena, al Dozza di Bologna, a Reggio Emilia. “Cioè la stessa zona dove negli ultimi tempi si è svolto uno dei più importanti procedimenti contro la ‘ndrangheta al Nord, cioè il processo Aemilia". Un messaggio che solo chi deve riesce a cogliere.

La rivolta della manovalanza
Un altro spunto investigativo è rappresentato da chi materialmente ha condotto le ribellioni. A Foggia, dove si è registrata probabilmente la rivolta più sanguinaria, con decine di evasioni, gli investigatori chiamati a riportare l’ordine hanno notato come i detenuti più turbolenti siano stati quelli “dei terzi letti". Cosa vuol dire? Nel carcere pugliese le stanze hanno le brande verticali, cioè i letti a castello, a tre posti. Da sempre, chi domina le dinamiche interne al carcere, cioè il detenuto che è considerato più pericoloso e quindi più autorevole, sceglie in quale letto dormire e opta per quello più in basso. Nei posti in cima, stanno i detenuti con meno spessore criminale. “Ebbene molti di quelli che hanno animato la rivolta a Foggia stavano nei terzi letti”, continua la fonte del fatto.it. “Anche a Poggioreale i padiglioni più turbolenti sono stati quelli popolati da rapinatori e scippatori. Che però senza l’assenso dei capi non si sarebbero mai permessi di scatenare quello che hanno scatenato”.

I messaggi
Per questo motivo gli inquirenti sono sicuri: “A muoversi è stata soprattutto la manovalanza, con i capi che spesso durante i disordini sono stati buoni nelle loro celle, consapevoli di quello che sarebbe successo dopo”. E che cosa è successo “dopo”? A parte le misure del governo per limitare il contagio, gli analisti certificano come nelle ultime settimane i detenuti dei regimi di massima sicurezza guardino con favore alle richieste di indulto e amnistia che arrivano da alcuni parti della politica. “Non è importante il fatto che probabilmente non sarà fatto alcun indulto. L’importante è che se ne stia tornando a parlare. Mentre a causa dell’emergenza coronavirus i detenuti comuni vedono crescere le possibilità dei domiciliari, chi ha organizzato la rivolta può dire a chi magari sta pagando per avere fatto a botte con gli agenti: hai visto? Avevamo ragione noi”. È sempre una questione di messaggi. Dentro al carcere, ma anche e soprattutto fuori.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

Foto © Imagoeconomica

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