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la scoperta di cosa nostra chiareletteredi Nicola Gratteri e Antonio Nicaso
«Dobbiamo sconfiggere il nemico che abbiamo in casa» ripeteva spesso Robert Francis Kennedy (RFK), mettendo in discussione il paradigma interpretativo che, nell’America del maccartismo e della alien conspiracy, il complotto straniero contro la civiltà americana, considerava la criminalità mafiosa un fenomeno esogeno.
È una svolta epocale. Per il giovane ministro della Giustizia americano, la mafia non era una forma di aberrazione periferica, bensì un’organizzazione criminale capace di esercitare la propria influenza in vari ambiti della società americana, come evidenzia chiaramente il lavoro di Gabriele Santoro.
Questo libro mostra il cambiamento impresso da RFK nella comprensione di un fenomeno che, fino agli inizi degli anni Sessanta, veniva ancora definito come una sorta di degenerazione patologica del sogno americano. Come se il male fosse ascrivibile agli immigrati e il bene a chi era costretto a conviverci.
Nel 1960 RFK scrive nel libro autobiografico The enemy within:
La sordida disonestà svelata dalla Commissione McClellan è uno specchio per la società americana, per come coinvolge trasversalmente ogni segmento della nostra vita economica e lavorativa, l’amministrazione pubblica, la giustizia e la stampa. Per affrontare le sfide del nostro tempo, per poter guardare a quest’epoca senza vergogna, ma come a una fase di progresso verso un’America migliore, dobbiamo innanzitutto piegare il nostro nemico interno.
Il nemico interno a cui fa riferimento RFK è rappresentato da mafiosi, politici corrotti, imprenditori e sindacalisti compiacenti, legati da un crescente rapporto di reciproca convenienza che risaliva alla Tammany Hall a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando a New York la macchina politico-clientelare del Partito democratico si serviva della malavita organizzata per controllare il voto delle masse nei quartieri dormitorio dello Stato.
La lettura proposta da RFK sulla scia dei risultati della Commissione Kefauver costituisce uno spartiacque nella lotta alla mafia americana, soprattutto rispetto al negazionismo del direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover. In quegli anni vengono introdotte nuove tecniche d’indagine, si spinge per la regolamentazione e l’uso di intercettazioni telefoniche e ambientali nella fase dibattimentale, nonché sull’adozione di misure per la protezione dei collaboratori di giustizia. RFK, che intuisce l’importanza della capacità relazionale delle mafie, vara anche una legge per contrastare la corruzione, quella zona grigia in cui il confine tra lecito e illecito diventa sottile fino a scomparire.
Già agli inizi degli anni Sessanta, in un’intervista concessa al quotidiano «Toronto Star», il neoministro della Giustizia osserva come la criminalità organizzata faccia sempre più ricorso agli avvocati che alle armi. Nel ruolo di procuratore generale, RFK prefigura il reato di racketeering, fattispecie che sarà introdotta nel 1970 grazie anche al contributo di Brian Gettings, uno dei suoi più stretti collaboratori. Quell’esperienza farà da apripista anche in Italia per l’adozione nel 1982 dell’articolo 416 bis del codice penale sull’associazione per delinquere di stampo mafioso.
A RFK non si deve soltanto la svolta nella comprensione del fenomeno, ma anche il contesto in cui matura la decisione di Joe Valachi di collaborare con la giustizia. Nato da genitori napoletani nel settembre del 1903 a East Harlem, un ghetto nell’Upper East Side di Manhattan, Valachi, ex trafficante di droga, nel 1962 inizia a parlare con la Narcotici e poi con l’Fbi. Ha compreso che la sua vita è in pericolo e, grazie anche alle rassicurazioni di RFK, racconta trent’anni di militanza mafiosa: il suo primo reato lo aveva commesso nel 1913, a nove anni, rubando una cassa di saponette. James P. Flynn, un agente speciale dell’Fbi, condusse i mesi cruciali d’interrogatorio.
«Qual è il nome dell’organizzazione di cui finora ha fatto parte? Si tratta della mafia?» gli chiedono. E lui: «No. Non è la mafia. Questa è un’espressione usata da gente esterna all’organizzazione. Il vero nome è Cosa nostra». Quel nome era cominciato a circolare negli ambienti investigativi già nel 1961, ma era stato storpiato in «Causa nostra» nei rapporti dell’Fbi. Valachi spiega che era stato adottato agli inizi degli anni Trenta in coincidenza con la nascita dell’omonima commissione che aveva il compito di evitare altri spargimenti di sangue, dopo la guerra che aveva visto cadere uno dopo l’altro i due grandi boss di New York, Giuseppe Masseria e Salvatore Maranzano. «Non c’è bisogno di un nome» aveva sussurrato Lucky Luciano, uno dei padri fondatori. «Questa è una cosa nostra, solo nostra».
Valachi, che prima di collaborare con la giustizia era affiliato alla famiglia Genovese, svela anche il rito di iniziazione, la struttura, i nomi dei boss a capo delle varie cosche mafiose. La sua testimonianza davanti alla commissione guidata dal senatore John McClellan viene trasmessa in diretta sulle principali reti televisive. È un evento mediatico memorabile, che raggiunge lo scopo di attirare l’interesse di decine di milioni di americani su quel fenomeno lungamente associato solo ai paisà. È durante quelle audizioni che gli americani ascoltano per la prima volta la voce di un mafioso che spiega vocaboli fino ad allora sconosciuti come «padrino» e «commissione». Nasce da quelle audizioni l’idea di un libro sulla mafia americana che nel 1972 costituirà la base del successo di una delle più note trilogie del cinema: The Godfather.
«Il contributo di Valachi è stato determinante» dirà William Hundley, uno dei dirigenti del dipartimento di Giustizia, responsabile del pool di procuratori ideato da RFK per strutturare e rendere efficace la lotta alla criminalità organizzata. «Prima di lui non avevamo elementi concreti per dimostrare l’esistenza di un’entità come Cosa nostra. Oltre ai nomi dei boss, ci ha rivelato la struttura e il funzionamento. In una parola, ci ha mostrato la faccia del nemico».
La collaborazione di Valachi per gli americani ha avuto la stessa importanza di quella di Tommaso Buscetta in Italia. Buscetta è stato il testimone chiave nel Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nel 1963 Valachi comincia a fare notizia anche in Italia. Il 6 agosto di quell’anno il corrispondente de «La Stampa» a New York riporta le informazioni di Valachi raccolte dagli investigatori americani sull’esistenza di un’organizzazione «diffusa in almeno una dozzina di grandi città e che sarebbe responsabile di gran parte dei crimini lamentati negli ultimi tempi, specie nel campo del traffico di droga». Sbagliandone il nome, scrive che l’associazione si chiamerebbe «Casa nostra».
Sempre nel 1963, la prima Commissione parlamentare antimafia italiana decide di acquisire i verbali e i rapporti della Commissione McClellan e un magistrato di Palermo, Aldo Vigneri, vola in America per interrogare Valachi.
L’autore di questo illuminante saggio approfondisce anche alcuni particolari interessanti sullo storico direttore dell’Fbi Hoover e sulla sua intenzione di anticipare alla stampa il vero nome della mafia, quasi a voler dimostrare di essere il protagonista del contrasto a Cosa nostra, nonostante per più di trent’anni ne avesse negato ostinatamente l’esistenza. L’articolo scritto per il «Reader’s Digest» non venne però mai pubblicato, grazie all’intervento del portavoce del dipartimento di Giustizia che ne aveva visionato il contenuto.
Con Robert Kennedy il dipartimento di Giustizia acquisisce una rilevanza e un’attenzione mai conosciute in precedenza. Ed è grazie a lui se la lotta alle mafie diventa prioritaria nella prima metà degli anni Sessanta, grazie alle indagini sulle banche che favoriscono il riciclaggio di denaro e ai supplementi di indagini per far luce sulla collaborazione che nasce all’Hotel delle Palme di Palermo per meglio gestire il traffico internazionale di eroina.
La lettura di questo libro ci fa capire che RFK era molto di più che il fratello del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. E aiuta a conoscere meglio uno dei protagonisti della lotta alla mafia, uno dei primi a mettere a fuoco l’essenza di questo fenomeno, spazzando via le interpretazioni culturaliste che attribuivano a Cosa nostra le medesime caratteristiche dei microrganismi patogeni.
Non c’era mai stata una congiura del diverso, così come non c’erano stati virus capaci di infettare territori sani. «Il nemico è dentro di noi, ovvero dentro la nostra società» ripeteva RFK. Non viene da fuori, come si è voluto far credere. Un ragionamento che anche in Italia si fatica a comprendere. Molti continuano ad attribuire l’espansione delle mafie nelle regioni del Centro-Nord a leggi culturaliste come il soggiorno obbligato e, ancor prima, al confino di polizia. Pochi hanno il coraggio di ammettere che senza il riconoscimento politico, sociale ed economico di una parte della classe dirigente dei territori in cui si sono insediate, le mafie avrebbero fatto fatica a sopravvivere, sia al Sud che al Nord.
Il saggio di Santoro è uno di quei libri che vanno letti e divulgati.