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di Roberto Scarpinato
In Italia convivono due sistemi penali. Il primo è il sistema antimafia che funziona molto bene perché è stato dotato di risorse adeguate (con magistrati che si occupano a tempo pieno solo di alcune tipologie di reati) e si avvale di norme speciali, come quelle che raddoppiano i termini di prescrizione e assicurano l’effettiva espiazione delle pene.
Poi c’è il sistema penale ordinario che è in larga misura inefficiente e inefficace, tranne per i reati più gravi di particolare allarme sociale, come gli omicidi. Non è un caso che all’estero siamo ammirati per il sistema antimafia, preso a modello da altri stati, e invece talora compatiti per quello ordinario, oggetto di ripetuti rilievi in sede europea e internazionale. Questa inefficienza si manifesta in tanti modi: alcuni sono al centro dell’attenzione dei media come l’eccessiva durata dei procedimenti e la patologica percentuale di prescrizioni. Altri invece restano in un cono di ombra lontano dai riflettori, come l’anomala quota di pene definitive irrogate che finiscono nel nulla e la peculiare composizione della popolazione carceraria, formata quasi esclusivamente da soggetti appartenenti ai piani bassi della piramide sociale, con percentuali statisticamente irrilevanti di colletti bianchi. Esempio: le pene pecuniarie (multe e ammende) inflitte a seguito di vari gradi di giudizio con condanne definitive vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10% del totale, come risulta dalla Relazione del 7.3.2017 della Corte dei Conti. Quindi il 90% di tale tipologia di condanne si risolve in un colossale spreco di risorse e di tempo, nella perdita netta di notevolissimi introiti da parte dell’erario, nella caduta verticale della credibilità di uno Stato che si limita a una mera esibizione di muscoli, priva di reali conseguenze, con buona pace della funzione general preventiva del sistema penale. Qualsiasi azienda privata con questo tipo di gestione e di risultati verrebbe messa in liquidazione.

Chi non vuole pene certe e una giustizia efficiente
È culturalmente ingenuo tematizzare la questione giustizia in Italia riducendola esclusivamente a un problema di efficienza e di resa produttiva degli apparati, come se i deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nel trattamento carcerario fossero sempre e solo il frutto di errate opzioni legislative per assicurare un sistema giustizia equo ed efficiente. In verità esiste una connessione profonda tra questione giustizia e questione della democrazia. Nel sistema penale si rispecchiano tutte le contraddizioni del sistema paese e il mutevole gioco dei rapporti di forza tra le varie componenti della società. Il diritto acquisisce capacità di farsi “ordinamento” della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è un caso dunque se il tema apparentemente tecnico della riforma della prescrizione è oggi al centro di uno scontro politico globale che a tratti sembra minacciare la stessa tenuta del governo. A proposito delle cause sociali del default del sistema giustizia, non mi sembra pienamente aderente alla realtà l’affermazione ricorrente secondo cui siamo tutti unanimemente interessati a creare una giustizia penale che coniughi efficienza e garanzie. Esiste in Italia un’illegalità di massa trasversale alle classi sociali che si declina in percentuali elevatissime di reati della più diversa tipologia: quelli edilizi, fiscali, patrimoniali e l’amplissimo inventario dei reati tipici dei colletti bianchi. Si tratta di una quota significativa della società civile dotata di un potere di negoziazione politica legittimo in un sistema democratico, e la cui forza di condizionamento si dispiega in tanti modi e per tante vie. In parte anche nell’ostacolare nella dialettica politica il varo di leggi adeguate o nel compromettere l’efficacia di quelle approvate. Un esempio tra i tanti: la storica impotenza repressiva del diritto penale tributario a fronte di percentuali di evasione fiscale che collocano l’Italia ai vertici della classifica dei paesi europei. Un altro spaccato interessante emerge sul terreno delle speculazioni edilizie e degli abusi urbanistici. I reati edilizi si prescrivono pressoché sistematicamente perché, grazie all’attuale regime della prescrizione, è impossibile definire i processi in tempo. I sindaci non demoliscono gli immobili abusivi neppure nei casi più gravi in zone di totale inedificabilità. I pochi che hanno adempiuto ai loro obblighi di legge hanno perso larghe quote di consenso. Taluni sono stati costretti a dimettersi perché sfiduciati dalle loro comunità e addirittura è stato necessario sottoporli a scorta, come per Angelo Cambiano, ex sindaco di Licata.
I politici fanno a gara, tranne poche eccezioni, per proporre sanatorie contendendosi i voti degli abusivi. Il sistema di Tangentopoli ha poi rivelato come l’illegalità di massa sia realtà sociale anche all’interno di larghi settori delle classi dirigenti, come attesta il proliferare inarrestabile del fenomeno della corruzione. Esiste dunque una forte domanda di impunità che collide con l’esigenza di una sistema penale efficiente. Non è un caso che la crisi del sistema si sia molto aggravata dopo Tangentopoli, quando settori portanti delle classi dirigenti nell’impossibilità di impartire direttive di politica criminale alla magistratura, hanno utilizzato il potere legislativo per ridurre al minimo il rischio e il costo penale per i reati dei colletti bianchi con una sequenza di leggi che hanno creato una serie di sacche di inefficienza programmata nel sistema penale, compromettendone definitivamente la tenuta. Per un verso sono stati ridotti i tempi di prescrizione dei reati sia in generale con la legge “ex Cirielli” del 5.12.2005, sia in particolare con leggi che riducevano selettivamente le pene di reati di colletti bianchi e, quindi, i correlativi tempi di prescrizione. Per altro verso sono state introdotte nel tempo una serie di riforme che hanno ulteriormente prolungato i tempi dei processi, rendendone estremamente difficile la loro definizione in tempo utile dopo tre gradi di giudizio. Grazie alla combinazione “prescrizione breve-processo lungo”, si è così creata una micidiale falla di sistema che, come una “triangolo delle Bermude”, continua a inghiottire nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi l’anno. L’operatività di tale falla di sistema è attestata dal discostamento statistico delle percentuali di prescrizione in Italia (10-11%) rispetto alla media europea (dallo 0,1 al 2%), sebbene le stesse statistiche attestino che la magistratura italiana è ai primi posti in classifica per produttività. La prescrizione “facile” si è trasformata in ulteriore fattore di rallentamento dell’iter dei processi, contribuendo ad affossare il sistema. Si è infatti fortemente disincentivata la scelta dei riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione.
Il risultato è stato di ingolfare e rendere definitivamente ingestibili i ruoli dei dibattimenti. Basti considerare che nel 2018 i reati prescritti in materia edilizia sono stati ben 13260. Presumendo in via approssimativa un 50% di colpevoli, sarebbe stato logico che una gran parte di costoro scegliessero di definire la loro posizione rapidamente e con un significativo sconto di pena, scegliendo un rito alternativo. Ma perché farlo, se il sistema ti offre la possibilità dell’impunità col rito ordinario? Meccanismi analoghi sono stati replicati per una quota rilevante di reati puniti sino a 6 anni (tra cui rientrano un gran numero di reati strumentali alla corruzione) e anche con pene più gravi che pure si sono copiosamente prescritti perché scoperti a distanza di qualche anno dalla loro consumazione. Un lungo elenco di casi di denegata giustizia che è una ferita aperta per le vittime e per la credibilità delle istituzioni. Si pensi al processo Eternit concluso con l’annullamento in Cassazione per intervenuta prescrizione della condanna a 18 anni del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, dichiarato responsabile della morte di oltre 2000 persone uccise dall’amianto respirato in quattro sue fabbriche.

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Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede


I falsi allarmi sulla blocca-prescrizione Bonafede
La riforma del ministro Bonafede ha il merito di avere smosso le acque, salvando dalla prescrizione i processi dopo la sentenza di primo grado ed aprendo un dibattito nazionale ad altissimo coefficiente di politicità caratterizzato da toni allarmistici a mio parere privi di fondamento se si ha riguardo alle cifre. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, nel 2018 sono stati definiti per prescrizione 117.367 processi, di cui 57.707 nelle fasi iniziali del processo davanti al Gip o davanti al Gupe; 27.747 davanti ai Tribunali, 2550 dinanzi al giudice di pace, 29.216 in Corte di Appello e 646 in Cassazione. Poiché la riforma si limita a interrompere il decorso della prescrizione solo dopo la sentenza di primo grado, restano fuori dal suo raggio di azione tutte le fasi del processo antecedenti nelle quali si concentra la percentuale più elevata di prescrizioni: circa il 65%. Tenuto conto che in Cassazione la percentuale di prescrizione è estremamente esigua (l’1,1% dei processi trattati), la riforma riguarda in sostanza solo il 25,4% dei processi prescritti e meno del 3% dei processi trattati ogni anno. Levare gli scudi e ingaggiare una battaglia politica nazionale per il 3% dei processi, mi pare fuori misura, tanto più he proprio perché la riforma riguarda solo un segmento del processo e sarà operativa a partire dal 2024, vi è tutto il tempo per approvare prima un pacchetto di interventi legislativi mirati solo a sveltire i tempi della fase dell’appello, interventi peraltro già elaborati da tempo da varie Commissioni legislative e ministeriali. Sebbene meritevole perché limita i danni, la riforma Bonafede è tuttavia manchevole perché lascia irrisolto il grave problema della prescrizione di circa il 65% dei reati nelle fasi antecedenti all’appello. Piuttosto che ingaggiare un braccio di ferro per imporre uno stop a tempo indefinito della minimale riforma della prescrizione già realizzata in attesa di una palingenesi generale di là a venire non si sa quando e come, sarebbe ragionevole un approccio gradualistico che metta all’ordine del giorno dell’agenda politica una selezione di tutte le articolate e approfondite proposte di riforme già messe a punto da varie Commissioni di studio per ricondurre la percentuale di processi prescritti entro limiti fisiologici in tutte la varie fasi del processo e ripristinare condizioni minimali di agibilità del sistema penale. Sulla prescrizione, sono state proposte soluzioni che traggono spunto dai sistemi tedesco, spagnolo, austriaco e americano.
In particolare è stato proposto di distinguere, come in altri paesi europei, la prescrizione dei reati dalla prescrizione del processo: due istituti con ragioni e scopi completamente diversi. Il fondamento della prescrizione dei reati è il sopravvenuto disinteresse dello Stato alla loro punibilità dopo il decorso di un determinato lasso temporale variamente graduato a secondo della gravità dei reati. Il fondamento della prescrizione del processo è invece la ragionevole durata del processo. Se il reato è accertato dopo il decorso del termine di prescrizione, la partita è chiusa. Ma se viene invece accertato prima del decorso di tale termine e l’azione penale viene esercitata, cessa la ragion d’essere della prescrizione del reato, e subentra la prescrizione del processo. Solo operando tale distinzione e depurando il tempo del processo dalla zavorra del tempo già trascorso dalla data di consumazione dei reati sino all’esercizio dell’azione penale (un tempo che variando da imputato a imputato determina gravi disparità di trattamento tra imputati della medesima tipologia di reati) è possibile operare su un tempo processuale uguale per tutti, ponendo la base per una ragionevole durata da realizzarsi con un ventaglio articolato di interventi sul piano legislativo ed organizzativo. E tuttavia dopo che gli studiosi esauriscono il loro lavoro, le proposte vengono lasciate nei cassetti o bocciate come impraticabili.

Tutto il mondo civile è barbaro tranne l’Italia?
Sembra quasi che tutti gli altri paesi del mondo dalle cui legislazioni si è tratto spunto per la riforma della prescrizione siano barbari e nemici giurati del garantismo. Si è detto no anche a riforme di elementare buon senso finalizzate a eliminare alcune delle cause più frequenti di ritardi patologici. Per esempio è stato bocciato per indebita “compressione dei diritti dell’imputato” l’emendamento dei parlamentari Casson e Cucca che proponeva che solo il primo atto di inchiesta venga notificato mediante consegna di copia alla persona, mentre le successive notifiche avvenissero con posta elettronica certificata all’indirizzo indicato dal difensore, eliminando margini di errore e condotte strumentali di imputati che non si fanno trovare dagli ufficiali giudiziari o cambiano di frequente domicilio per vanificare le notifiche e allungare i tempi. È stata scartata pure la proposta finalizzata a eliminare un’altra causa statisticamente rilevante di patologico aumento dei tempi del processo. Il codice prevede che il processo ricominci da capo a pena di nullità assoluta ogni volta che un componente del collegio giudicante deve essere sostituito perché trasferito, ammalato o per altri impedimenti, anche se il processo è alle battute finali. Per evitare tale esito era stato proposto di prevedere la videoregistrazione di tutte le udienze in modo che il nuovo giudice subentrato possa in breve tempo prendere cognizione di quanto è accaduto in precedenza in udienza, coniugando il principio dell’oralità con quello della celerità. Nulla da fare, anche in questo caso si è obiettato la violazione dei diritti incomprimibili degli imputati. Se non è possibile trovare un accordo neppure su tali proposte minimali, è realistico immaginare che si possa realizzare una generale revisione del sistema? È lecito dubitarne fortemente.

Sì agli evasori in carcere: oggi sono meno che in Finlandia
Alla luce dei rilevantissimi interessi in gioco, fondati dubbi sussistono anche sulla futura tenuta di un’altra importante riforma ad altissimo coefficiente politico: quella in materia di reati tributari approvata con il decreto legge 26.10.2019. Una riforma che, segnando una svolta di sistema, si propone l’ambizioso obiettivo di porre finalmente fine alla storica impunità sino ad oggi garantita al vasto e trasversale popolo degli evasori. Secondo uno studio dell’Institut de criminologie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. La media statistica consolidata degli evasori nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva si aggira intorno allo 0,4% della popolazione carceraria contro una media del 4,1% dell’Unione Europea. Una cifra quella italiana prossima a quella della Finlandia paese ad altissima fedeltà fiscale e di soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 55 milioni dell’Italia. Tra le varie misure previste dal decreto legge vi è anche il ripristino della punibilità penale di alcuni dei più odiosi reati fiscali, tra i quali la dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e l’emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, anche se l’importo delle fatture non supera i 100mila euro. Grazie all’elevazione delle pene edittali è stata inoltre prevista la possibilità delle intercettazioni, indispensabili per portare alla luce i reati degli specialisti delle “carte a posto”. Com’è noto, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti è un tipico reato seriale praticato a tutti i livelli per l’evasione internazionale e la conseguente creazione di fondi esteri, ed è divenuto uno dei servizi più richiesti da operatori economici spregiudicati alle “mafie mercatiste” che, grazie alle loro società cartiere dislocate nei cinque continenti, possono offrire prestazioni eccellenti. È stata altresì prevista per i condannati per i più gravi reati fiscali la confisca dei beni sproporzionati e ingiustificati rispetto ai redditi dichiarati e al patrimonio accertato, una misura che si è rivelata vincente nei reti di mafia e in quelli di corruzione. Così come quella della prescrizione, anche questa riforma è a rischio ed è in corso un braccio di ferro. Si è arrivati al punto di proporre in sede di conversione del decreto l’abrogazione sic e simpliciter dell’intero art. 39 del decreto che contiene tutte le modifiche al Codice penale. Cosa accadrà? A decidere non saranno certo i giuristi adusi a scambiare il mondo astratto delle idee con la ferrosa realtà, ma il corposo gioco degli interessi e dei rapporti di forza del sistema paese. Quindi la partita resta apertissima su tutti i fronti e quanto mai incerta, soprattutto in un tempo di permanente instabilità degli equilibri macro-politici come quello attuale.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2019

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