Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Eleonora Lombardo - Intervista
Rean Mazzone, classe 1954, assomiglia a un personaggio dei western all’italiana, un Clint Eastwood mediterraneo, a cui si aggiunge il fascino del mistero: di lui si sa pochissimo, in rete quasi nessuna traccia, e se è sotto i riflettori in questo momento e si può scovare qualche foto in più è perché ha preso parola al Festival del cinema di Venezia in quanto produttore de "La mafia non è più quella di una volta". Ha colmato l’assenza di Maresco, alla conferenza stampa e all’assegnazione del premio speciale della giuria con eleganza e sentimento, lo ha fatto difendendo l’artista e la sua indole. "Le luci della ribalta sono per gli attori, sono loro i frontmen. Nessuno cerca lo sceneggiatore, che pure è una figura cruciale, né tanto meno il produttore che è solo l’artigiano che deve occuparsi di chiudere il progetto, che sia un libro o un film, la cosa non cambia" dice. È nato a Palermo, figlio dell’editore Renzo Mazzone, fondatore de la Ila Palma che oggi è il suo marchio di produzione. A 12 anni è andato in Brasile, poi il ritorno in Italia e la sua avventura in città, come tipografo prima e produttore dopo, al fianco di Ciprì e Maresco ai tempi di Cinico Tv. Ogni sua parola è ancora oggi animata da senso del dovere, di giustizia e un’energia fattiva che da 25 anni lo tiene lontano da Palermo, salvo trasformare la lontananza in "saudade".

Cosa ricorda della sua infanzia a Palermo?
"Poco, ricordo di avere sfiorato il ’68 ma ero troppo piccolo. Mi ricordo più la mia formazione in Brasile, quando avevo 12 anni mio padre decise di trasferirsi lì, per raggiungere i nonni materni. Poi sono arrivati gli anni della dittatura militare e della lotta armata e io sono tornato a Palermo per iniziare l’università, inizialmente la vocazione era da ingegnere. Una volta tornato, ho cominciato a lavorare in casa editrice, ma attratto dalla tipografia. Passavo il tempo con i tipografi, stregato dal processo di stampa, dalla linotipia: affascinante e tossica. Ho imparato a impaginare, facevo da assistente finché non ho deciso di aprire una nuova tipografia, la Tea Nova. La sede era in via La Lumia, sotto la Dc. Ed è subito diventata la tipografia dei militanti.
Stampavamo le cose della Ila Palma e pubblicazioni "impegnate". Alla fine il lavoro da tipografo e l’impegno politico erano tali che ho lasciato ingegneria per laurearmi in giurisprudenza, una facoltà che lascia maggior tempo per assecondare altro".

Che città era Palermo in quegli anni, chi frequentava la sua tipografia?
"La Palermo che trovavo non era diversa dal Brasile che mi ero lascato alle spalle, piena di contraddizioni. Ci conoscevamo in quegli anni, come oggi credo. Era una Palermo animata da un forte fervore politico. Con Ciprì e Maresco ci conoscevamo per il centro Nuova Espressione Fotografica, che avevo fondato per la mia passione per la fotografia, così come con Letizia Battaglia. La tipografia è cresciuta in fretta, era un polveroso spazio di 600 metri quadri dove dare fondo all’impegno politico, abbiamo lavorato incessantemente facendo mostre e volantinaggio, ci siamo impegnati per non fare rimanere la base di Comiso isolata dal movimento pacifista, ci siamo occupati dei diritti delle donne e del lavoro minorile".

Quando è cominciata l’avventura da produttore cinematografico?
"Daniele e Franco vennero a trovarmi per propormi la realizzazione di un libro con un vhs che contenesse alcuni pezzi di Cinico Tv, alcune interviste a loro e a Ghezzi e da lì cominciò la direzione del cinema. Abbiamo prodotto il corto di Roberta Torre "Senti amor mio?" fino ad arrivare alla produzione de "Lo zio di Brooklyn". Nel frattempo mi trasferisco a Roma, perché il cinema si fa lì. Agostino Spataro, parlamentare del Pci mi convince a prendere la quota maggioritaria de la casa editrice Edizioni Associate e parte una nuova avventura da editore, pubblichiamo Sartre ma anche il Trio Solenghi con l’idea di fare una collana commerciale ma di pensiero. E poi arriva 'Totò che visse due volte'".

E quali furono i problemi con la censura?
"Il film fu accusato di vilipendio alla religione dello Stato e tentata truffa ai danni dello Stato.
Avevamo mille organizzazioni che ci facevano causa. Mi avevano consigliato di tirarmene fuori come produttore, ma io dissi che se mollavo io, sarebbero finiti male tutti. Mi occupai personalmente di seguire le cause e alla fine vincemmo anche grazie a un’edicola votiva e alla dimostrazione che quella che usavamo nel film era ben diversa da quella vera, fu portata come prova il catalogo di Valentina Valentini e Emiliano Morreale "El sientimiento cinico de la vida".
Insomma, decadde tutto anche grazie all’aiuto di avvocati militanti".

Qual era il suo sentimento a Venezia quando ha dovuto affrontare l’assenza di Maresco?
"Stanchezza, perché la lavorazione del film è stata lunga, eravamo in ritardo ed ero molto concentrato per portare a casa il progetto. Però c’era anche molta adrenalina che camuffava la stanchezza e ho parlato di Franco con molta sincerità, difendendo la sua scelta.
Lui può disturbare, ma è anche il motivo per cui ci piace. Adesso spero che il film venga visto e venga visto bene con la giusta distribuzione".

E’ stato importante il supporto dei colleghi al Festival?
"Ho parlato con Paolo Virzì, lui che conosce bene la grammatica di Franco è stato importante. Era anche l’unico giurato italiano. Ha detto che il film è piaciuto moltissimo, soprattutto il linguaggio visivo. Lui poi si è sentito in dovere di spiegare, soprattutto alla parte anglosassone della giuria, chi fosse Franco e quale il contesto".

Cosa le piace di Palermo oggi?
"Mi piace tutta. Una delle mie figlie ha scelto di viverci. Tifo Palermo e soffro in serie D, dico con orgoglio di essere palermitano, tutta la città è bella. Poi c’è una mediocrità latente incomprensibile. L’ansia di morte del Gattopardo, la dolcezza dei cannoli e della frutta candita che camuffa l’unto. Io torno, per pochissimo tempo, ore, il tempo di incontrare Franco".

Ha lasciato Palermo senza rimpianti?
"Palermo non è un posto nel quale si lavora bene, se fai un lavoro intellettuale è un posto fantastico, pieno di ispirazione, ma quando ci lavoravo io le difficoltà erano all’ordine del giorno. Il rischio del pizzo dietro l’angolo, anche se a me non lo hanno mai chiesto. Ho vissuto una brutta esperienza per un incidente sul lavoro, con un ragazzo che si è presento con tizi in "odore di", ovviamente io rifiutai ogni accordo e la pagai cara. Se possiamo immaginare la visione cinica di Franco e quella utopica di Letizia Battaglia come due parallele, io sono la terza che scorre in mezzo. E’ una città che è una scuola di vita incredibile. Oggi si registra una corsa all’antideologia, più che all’ideologia. In Brasile, nella cultura indigena non esiste la distanza neanche da chi muore, perché si dice che chi è morto continua a vivere in noi. E’ la saudade. Te lo porti dentro, in un misto di struggimento e amore.
Forse per me Palermo è così. Non mi manca, è dentro di me in un sentimento che non né triste né felice".

Tratto da: La Repubblica Palermo

TAGS: