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Intervista a Gabriella Nuzzi
di Rossella Guadagnini
Il caso di cui parla Gabriella Nuzzi in quest’intervista è uno dei più gravi del marcio interno alla magistratura e ai suoi rapporti con la partitocrazia, che il caso Palamara/Lotti/Ferri ha squadernato di fronte alla pubblica opinione in tutta la sua profondità e gravità. Poiché ora da tutte le parti si dice che bisogna ricorrere ai ripari, fare piazza pulita di questo marcio, e tanti altri bei proponimenti e bellissime promesse, è necessario dire senza mezzi termini che va rovesciato il realistico “cosa fatta, capo ha”. Se si vuole davvero restituire credibilità e decoro alla magistratura e alla sua autonomia dagli altri poteri, pilastro cruciale di un sistema democratico almeno quanto le libere elezioni, bisogna che quanti si sono trovati implicati dalla parte del torto in casi come quello qui raccontato, se in buona fede si scusino pubblicamente e pubblicamente cerchino di capire in base a quali meccanismi perversi hanno potuto commettere queste incredibili ingiustizie. Mentre per quanti di tali brutture inqualificabili sono stati in qualsiasi modo vettori consapevoli, la cacciata dalla magistratura deve essere immediata. Consideriamo questo caso, e il seguito di pulizia che contiamo avrà, una cartina di tornasole della volontà oggi sbandierata di restituire all’autonomia della magistratura la sua dignità così gravemente compromessa.

Dieci anni fa, nel 2009, la dottoressa Gabriella Nuzzi, pubblico ministero, scrive una lettera al presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati in cui si congeda dal sindacato delle toghe per quanto profondamente addolorata. Il presidente all'epoca è Luca Palamara.

Lei è magistrato a Salerno e viene trasferita d'ufficio dal Consiglio Superiore della Magistratura - su richiesta del ministro dell'Interno Angelino Alfano - per aver indagato sul malaffare giudiziario di Catanzaro. Cosa era successo e perché questa lettera?
Le mie dimissioni dall’ANM nel gennaio 2009 seguirono alla decisione del CSM di privare me e i miei colleghi della Procura di Salerno delle funzioni inquirenti, mentre eravamo impegnati ad accertare, su denuncia dell’allora pm Luigi De Magistris, gravi ipotesi di reato coinvolgenti magistrati di Catanzaro, politici, pubblici amministratori, imprenditori.

La decisione fu salutata con grande soddisfazione da Palamara, punta di diamante della corrente Unicost e presidente dell’ANM, che, con il plauso di AreaDG e Magistratura Indipendente, commentò: “Il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi”.
Non aveva capito - né lui né il “sistema” di cui si faceva garante - che il velo si era squarciato e il tempo avrebbe fatto la sua parte.
La vicenda aveva avuto inizio un anno e mezzo prima, nel settembre 2007, quando, rientrata in servizio dopo il congedo per maternità, avevo trovato sul tavolo del mio ufficio un mucchio di fascicoli con annotato il nome di Luigi De Magistris come indagato. Si trattava di numerosi esposti a suo carico per presunte illegittimità nell’esercizio delle sue funzioni di Pubblico Ministero a Catanzaro, provenienti da politici, avvocati, magistrati dei distretti di Potenza e Catanzaro. Le denunce, accompagnate da interrogazioni parlamentari e segnalazioni disciplinari, miravano, in sostanza, a giustificare la sottrazione a De Magistris, che ne era il titolare, di tre importanti inchieste, Poseidone, Why not e Toghe Lucane, da parte del Procuratore e del Procuratore Generale di Catanzaro.
In quel momento non potevo immaginare ciò di cui, invece, mi resi conto alcuni mesi più tardi, ovvero che la Procura di Salerno costituiva un ingranaggio essenziale di un “sistema” funzionale a dare a De Magistris il colpo di grazia: sarebbe, infatti, bastato rinviarlo a giudizio per uno solo di quei reati per delegittimarne definitivamente le inchieste e disintegrare la sua vita personale e professionale.
Il “sistema”, però, aveva fatto male i suoi conti.
Organizzai il mio lavoro e iniziai a studiare gli atti. Si unì a me il collega Dionigio Verasani. Dopo alcuni mesi di indagini, giungemmo alla conclusione che le tre inchieste Poseidone, Why not e Toghe Lucane erano state oggetto di illecite interferenze da parte dei capi e che gli esiti delle indagini avevano esposto De Magistris a una serie di azioni ostative e ritorsive, esterne ed interne agli ambiti giudiziari, finalizzate a determinarne il definitivo allontanamento dalla magistratura.
Nel giugno 2008, le accuse a carico di De Magistris furono archiviate; da indagato assunse la veste di persona offesa.
Gli organi di autogoverno e vigilanza (CSM, Procura Generale della Cassazione, Ministero della Giustizia), sebbene da noi informati sin dal dicembre 2007 della difficile situazione vissuta da De Magistris e del rifiuto frattanto opposto dal Procuratore e dal Procuratore Generale di Catanzaro alle richieste di esibizione degli atti delle inchieste Poseidone e Why Not, necessari per il riscontro dei fatti da lui narrati, ne decretarono il trasferimento disciplinare al Tribunale di Napoli, privandolo delle funzioni inquirenti.

Cosa successe in seguito?
Nel dicembre 2008, dopo nove richieste e reiterate sollecitazioni agli organi di vigilanza tutte inevase, il mio ufficio decise di intervenire nei confronti dei magistrati di Catanzaro indagati per corruzione e abuso d’ufficio e procedere al sequestro di copia degli atti delle inchieste Poseidone e Why Not individuati come necessari alle indagini.
Le operazioni di perquisizione e sequestro furono eseguite il 2 dicembre 2008 nel pieno rispetto delle norme -come fu in seguito appurato- ma la reazione fu violentissima e imprevedibile.
Due giorni dopo, infatti, il 4 dicembre 2008, io e miei colleghi ci vedemmo recapitare in ufficio un’informazione di garanzia firmata dai nostri indagati. L’accusa mossa a me, Verasani e al procuratore Luigi Apicella era di avere quali “promotori” e “organizzatori”, abusato delle funzioni di Pubblico Ministero “al fine di occultare i reati perseguiti nel procedimento Why Not”, disponendo il sequestro degli atti con un decreto “abnorme” finalizzato a sottrarre l’inchiesta ai magistrati di Catanzaro, così “arrecando un danno ingiusto” a costoro, “alla Regione Calabria e all’intera collettività del distretto”, nonché “perseguendo l’interesse privatistico e utilitaristico connesso alla artificiosa delineazione di un complotto a livello istituzionale contro il dottor De Magistris, tra l’altro, ad opera dei magistrati di Catanzaro”.
Sulla base di queste imputazioni, i magistrati di Catanzaro, indagati dalla Procura di Salerno, disposero il contro-sequestro degli atti dei procedimenti Poseidone e Why Not, sottraendoli così ai loro indagatori.
Un comportamento abnorme, che, anziché indurre le istituzioni a intervenire a nostra tutela, generò il pretesto per eliminarci, sfruttando quell’enorme fandonia nota come “la guerra tra procure”.
Nel giro di pochi giorni, dopo un’audizione dinanzi al plenum del CSM durata fino a notte fonda, i miei colleghi ed io fummo sottoposti, prima, a procedura di incompatibilità ambientale, poi, a procedura cautelare d’urgenza. Iniziarono le ispezioni ministeriali. Il Procuratore Generale della Cassazione avviò l’azione disciplinare, come pure il ministro della Giustizia Alfano.
Fummo definiti “eversivi”, il nostro agire “finalizzato alla destabilizzazione e all’eversione dell’istituzione dello Stato”.

E arriviamo così alla sua lettera.
Il 19 gennaio 2009 la Sezione Disciplinare del CSM dispose il nostro trasferimento cautelare in via d’urgenza di sede e funzioni, con l’appoggio dell’ANM, di cui erano presidente e segretario, rispettivamente, Luca Palamara di Unicost e Giuseppe Cascini di AreaDG.
A febbraio 2009 il procedimento penale iscritto a nostro carico dal Procuratore Generale di Catanzaro fu trasferito alla Procura di Roma e giunse nelle mani del Procuratore Aggiunto Achille Toro (condannato a due anni nell’inchiesta Grandi Eventi) che, invece di ascoltare le nostre ragioni, diede mandato ai Carabinieri del Ros di acquisire i tabulati telefonici di De Magistris e miei. L’obiettivo era tentare di accreditare una campagna diffamatoria, scaturita da interrogazioni di parlamentari del centrodestra, circa l’esistenza di una relazione personale nata durante le indagini tra me e De Magistris e finalizzata a distruggere la nostra reputazione personale e professionale, oltre che le nostre vite familiari. I contatti, però, erano stati preventivamente autorizzati dall’Ufficio, noti ai Carabinieri nostri collaboratori e dettati esclusivamente da ragioni d’ufficio, così che il tentativo di infangarmi fallì miseramente con un’azione di risarcimento dei danni, che mi vide vittoriosa.
Nel frattempo, a seguito del mio trasferimento a Latina, gli atti del procedimento penale furono trasferiti per competenza alla Procura di Perugia, che, svolti i dovuti accertamenti, archiviò in breve tempo le nostre posizioni.
Ciò nonostante, il 19 ottobre 2009 la Sezione Disciplinare del CSM presieduta da Nicola Mancino pronunciò la nostra condanna disciplinare e io, che ero il magistrato più giovane, fui sanzionata più duramente degli altri.

Come mai tanto accanimento nei suoi confronti?
La ragione non è aver scritto un decreto di sequestro “troppo lungo” né di avervi trasfuso “inopportunamente” i nominativi di soggetti che, tempo dopo, all’esito di altre inchieste, sono stati colpiti da condanne per corruzione e altri gravi reati. Il vero motivo è aver scoperto il sistema istituzionalizzato di annientamento dei magistrati ritenuti scomodi e, soprattutto, di averlo messo nero su bianco in provvedimenti e denunce alle autorità competenti.
Eppure, all’epoca, nessun esponente della magistratura associata gridò allo scandalo. Non solo le tre correnti non levarono una parola in nostra difesa, ma lasciarono che “il sistema” seguisse il suo corso, senza alcuno scrupolo, in cambio della possibilità di negoziare liberamente carriere e promozioni.
Un atto di convenienza della peggiore politica, di cui oggi l’intera magistratura paga le conseguenze. E il mio pensiero va ai giovani magistrati, soprattutto quelli di prima nomina designati nelle sedi ad alta densità mafiosa.

Oggi che situazione professionale e personale vive? Cosa ha conservato della sua esperienza?
E’ inutile dire che non è stato facile resistere a tanta violenza e ai suoi strascichi. Ho trovato sostegno nei familiari, negli amici più cari e in tantissime persone, associazioni, gruppi che mi hanno scritto, infondendomi fiducia e coraggio. Lungo il mio percorso, a Latina come a Napoli, dove attualmente esercito le funzioni di giudice, ho avuto la fortuna di incontrare colleghi di grande livello, che mi hanno apprezzato e con cui ho instaurato legami fortissimi sul piano umano e professionale. Molti di loro non fanno parte della magistratura associata, altri ne sono attivisti, segno che anche nelle correnti ci sono forze sane che possono agire da leva per una rinascita culturale dell’associazionismo. E’ difficile per chi ha subito una violenza istituzionale riacquistare fiducia, ma l’isolamento è ancor più dannoso delle sanzioni disciplinari: è un favore che si concede ai propri detrattori. Queste riflessioni mi hanno indotto pian piano a rivalutare il momento partecipativo. Osservo più da vicino e valuto in base a fatti e comportamenti.

Esiste un meccanismo di controllo dei magistrati e come funziona?
In Italia il controllo della magistratura e delle forze dell’ordine costituisce da sempre un obiettivo primario della criminalità organizzata, in tutte le sue variegate conformazioni.
Dopo l’epoca stragista e le inchieste milanesi sulla corruzione del sistema politico-amministrativo della prima e seconda Repubblica, si è progressivamente affermata una nuova metodologia d’intervento erosiva dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici.
Per un verso, le riforme legislative su illeciti disciplinari e responsabilità civile hanno introdotto strumenti che si prestano a essere utilizzati come veri e propri grimaldelli contro i magistrati scomodi. Il meccanismo -una costante delle indagini ad alto impatto istituzionale- è sempre identico: “fughe di notizie” alla vigilia e in coincidenza di importanti atti investigativi, con conseguenti denunce contro il magistrato inquirente da parte degli indagati o dei loro difensori; interrogazioni parlamentari e campagne diffamatorie sulla stampa; apertura di procedimenti penali, disciplinari e paradisciplinari; trasferimenti e sanzioni che compromettono per sempre la vita professionale del magistrato.
Altra strategia è quella che passa attraverso le nomine ai posti dirigenziali, da cui dipendono l’organizzazione dei carichi di lavoro dei magistrati, i pareri di professionalità, le segnalazioni disciplinari e così via. La degenerazione del correntismo giudiziario e il ricorso a criteri eccessivamente discrezionali da parte del CSM nell’esercizio dell’autogoverno hanno aperto il varco alla “contrattazione” delle nomine, portando talvolta ai vertici degli uffici giudiziari soggetti piegati a logiche propriamente politiche.
E’ evidente come questo modus procedendi abbia reso vulnerabile l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, favorendo collusioni e prassi corruttive.
La sua vicenda è particolarmente significativa, tanto più oggi in relazione a quanto sta accadendo.
Il caso Palamara e dei cinque togati del CSM è emblematico del delirio di onnipotenza che avvolge il nostro autogoverno.
Questa volta, a differenza di quanto accadde dieci anni fa, ANM e CSM sono intervenuti con i proclami: siamo tutti chiamati a porci interrogativi morali e a riflettere sulle degenerazioni del carrierismo.
Direi una reazione dovuta, necessitata dall’eccezionale gravità delle rivelazioni e del misero spaccato che ne è emerso. Sorprende che ci sia voluto un trojan nel cellulare di Palamara (peraltro attivo solo pochi giorni) per “scandalizzare” le correnti e porle di fronte alle macerie di un disastro che, assai colpevolmente, hanno contribuito a provocare.
Forse è già tardi, ma la nostra istituzione è robusta: oggi siamo tutti chiamati a collaborare per risollevarne le sorti.

La magistratura, infatti, vive giorni drammatici sia al suo interno, per via delle lacerazioni, sia all’esterno, a causa della messa in discussione della sua credibilità. Che fare?
Il primo passo è lavorare a una rinascita culturale e a un autentico rinnovamento dell’attività associativa, che ripudi le logiche dell’appartenenza, del carrierismo, del mercanteggiare, e ponga al centro dei propri interessi la tutela dell’indipendenza del magistrato e i temi della giustizia, ciò di cui hanno bisogno i cittadini.
E’ un processo interiore, di lenta maturazione, che non può prescindere da una profonda e attenta autocritica degli errori compiuti, per emendare i quali non bastano gli appelli.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di non sciogliere il CSM, dichiarandolo un provvedimento inutile se non cambiano le regole del gioco.
La decisione del Capo dello Stato di non decretare l’immediato scioglimento del Consiglio Superiore e indire a breve nuove elezioni suppletive è l’unica soluzione realisticamente percorribile. Nel frattempo occorrono regole in grado di recidere il circuito vizioso che consente a chi ricopre incarichi associativi di sedere automaticamente negli organi di autogoverno (CSM e consigli giudiziari) o di assumere incarichi politico-amministrativi per poi rientrare a esercitare la giurisdizione in posti dirigenziali. Regole che prevedano dimissioni obbligatorie in caso d’incarichi politici; che assicurino una paritaria presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura; che delimitino la discrezionalità nell’esercizio dell’autogoverno, valorizzino il merito professionale e introducano correttivi a garanzia dell’imparzialità nelle procedure riguardanti la progressione in carriera del magistrato, assicurando valutazioni di professionalità effettive e trasparenza nelle procedure di accesso alla magistratura e nomina agli uffici dirigenziali.

Cosa ci insegna la Costituzione?
Che l’autonomia e l’indipendenza del magistrato non sono un privilegio di categoria. Ma un baluardo del nostro Stato di diritto, posto a garanzia del principio dell’eguaglianza dei cittadini nell’esercizio della giurisdizione. Dico cose scontate, ma forse è il caso di ripeterlo tutti, come un mantra.

Tratto da: temi.repubblica.it