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francese giulio armeli copdi Luciano Armeli Iapichino
E poi capita. Capita di “rivedere” una Sicilia letta nei libri, vista nei documentari, raccontata da qualcuno. Capita di focalizzare fotogrammi che giungono in bianco e nero da un passato che non è poi tanto lontano, di percepire delle emozioni che hanno la prerogative di non affievolirsi dopo lustri, di immaginare la scena in cui un uomo racconta di una sera in cui “avevo preso l’autobus, ero sceso alla fermata, avevo girato l’angolo, ho visto un capannello di gente davanti casa; mi avvicinavo per cercare di capire; delle persone mi hanno detto che c’era stato un omicidio; e la cosa incredibile è che neppure per un attimo mi è passato per la mente che quel morto potesse essere mio padre. Il narratore è Giulio Francese, giornalista, figlio di Mario, anch’egli giornalista e voce di quell’informazione che in Sicilia è stata ammutolita con la mattanza dei cronisti. Correva l’anno 1979. “Perché - continua - talmente lo consideravo invincibile, più forte di tutti, che lui stesso era riuscito a farci cancellare la paura prendendo sempre a ridere le minacce. Mi sono avvicinato a quel corpo ricoperto da un lenzuolo con la convinzione di fare il mio primo ‘delitto’ da giornalista, con quel cinismo che in questi casi deve avere il giornalista. Senonché ho chiesto informazioni al capo della mobile, Boris Giuliano, che mi guardò, mi prese con un braccio e mi accompagnò da parte e mi disse: “Giulio è tuo padre.” In tempi in cui l’informazione appare moribonda nella lotta contro titani coalizzati - la pigrizia dei lettori, il condizionamento del potere che non accetta attacchi, le facili querele dei potenti quali strumento di dissuasione, la valanga di notizie senza filtri che invade il web - ascoltare la ricostruzione sulla morte di Mario Francese, pioniere del giornalismo d’inchiesta che aveva l’abitudine, calamitandosi critiche dai colleghi, di posizionarsi durante i processi nelle aule di tribunale vicino alla pubblica accusa a voler sottolineare apertamente e senza titubanza alcuna la parte dalla quale schierarsi, fa un certo effetto.

Tempi diversi si dirà, visione delle cose distante certamente, ma identica terra e, guarda caso, identiche criticità. La mafia c’è. La zona grigia pure. L’antimafia ha dato il suo contributo, in negativo. Il caso Montante, o il sistema Montante, ultimo in ordine di tempo, “paradigma di una Sicilia che stenta a cambiare”, aspettando le risultanze processuali e forse qualche deflagrazione investigativa più potente, docet.

E il risveglio delle coscienze? E sì! Si aspetta molto ancora Giulio Francese, soprattutto dalle nuove generazioni, lui che adesso ricopre il ruolo di Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia in un momento in cui si vive una fase particolare del giornalismo, "si aspetta la curiosità, si aspetta la voglia di cambiare le cose avendo anche dei punti fermi, iniziando dalla difesa del lavoro giornalistico che significa difendere anche il proprio diritto a essere correttamente informati. E quando un giornalista subisce un attacco è come se lo subisse la comunità intera; soltanto che non riusciamo a manifestarlo”. E il suo pensiero corre all’uccisione in Slovacchia di Jan Kuciak, il reporter ventisettenne trucidato insieme alla fidanzata e che si era occupato degli affari della ‘ndrangheta calabrese: “C’è stata una ribellione nel paese che ha spinto anche i rappresentanti del governo slovacco alle dimissioni. In Sicilia ci sono stati centinaia di morti e le manifestazioni di protesta, la gente che è scesa in piazza, le abbiamo viste soltanto in occasione delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio”. In Sicilia, aggiungiamo, a legger le cronache, e Giulio Francese pare esser d’accordo, si fanno un passo avanti e due indietro. “Per tanti anni la gente è come se si fosse chiusa in un ‘s’ammazzano fra di loro’, ‘non mi interessa’, ‘è un problema loro’ ... ma come - si chiede il giornalista - uccidono poliziotti, uccidono magistrati e non c’è un moto di ribellione? Anche su questo bisogna ragionare. Come è stata possibile questa indifferenza di fronte a questo macello, dinnanzi a questa strage degli innocenti?” E anche in riferimento ai giornalisti trucidati dalle consorterie criminali si ricordi che non c’è nessun’altra regione d’Europa che ha subìto questo oltraggio se non in realtà lontane quali, ad esempio, Messico, Colombia. Non servono gli eroi. francese giulio profiloServono, come lo sono stati i giornalisti caduti, - ed è questo il messaggio di Giulio Francese - “persone che non arretrano”. Nel loro caso, purtroppo, “molta gente si è voltata dall’altra parte. Così come tanti altri giornalisti si sono voltati dall’altra partepermettendo che si dimenticasse la storia di Mario Francese, Pippo Fava, Mauro De Mauro”. E Giulio ricorda, a tal proposito, la vicenda di Giuseppe, suo fratello, dodicenne al momento della morte del padre, che a un certo punto “proprio per abbracciare e avvicinarsi a quel padre che aveva visto così poco, ha iniziato a raccogliere tutto ciò che facesse riferimento a lui, fotografie, scritti”, digitalizzando tutti gli articoli per costruire l’archivio del cronista del Giornale di Sicilia. Non solo. Senza il certosino lavoro di Giuseppe - ribadisce Giulio - “non avremmo avuto neanche giustizia per Mario Francese”. Rileggendo in silenzio quegli articoli, "Giuseppe, ha voluto capire meglio" e, grazie alla sua ricostruzione, ha messo la famiglia nelle condizioni di comprendere i motivi che si celavano dietro la sua morte. Da lì la richiesta di riapertura del processo che ha trovato supporto anche nelle dichiarazioni di Gaspare Mutolo, a quel tempo neo-pentito della mafia corleonese. Il resto è storia giudiziaria, con “Giuseppe diventato il punto di riferimento dell’accusa, una sorta di abile consulente nel ripercorreregli stessi passi di mio padre". E forse, questa simbiosi figlio-padre, difficile da gestire, è risultata fatale nel già precario equilibrio di Giuseppe. Un ragazzo spensierato, ricorda Giulio, dalla battuta pronta "che improvvisamente si è calato in questo lavoro oscuro che in qualche modo lo ha segnato nel profondo, facendo risanguinare ferite che non si erano mai rimarginate”. E animato da verità e giustizia ha iniziato, anch’egli, la sua brillante attività di giornalista motivata dall’inerzia professionale di certi suoi colleghi e lo ha fatto “in punta di piedi, senza voler dare lezioni a nessuno”. Dopo la sentenza di I grado che ha visto condannati gli esecutori e i mandanti, una vittoria per l’ultimogenito di Mario Francese - lo stesso Giulio aveva proferito al fratello “ora basta Giuseppe, hai vinto” - la scelta di farla finita e raggiungere il padre sembrava nella sua testa probabilmente ormai matura. Missione compiuta. Dopo aver "toccato la nefandezza di questa mafia", il suicidio è arrivato il 3 settembre del 2002. Quale lezione i siciliani hanno appreso dalla famiglia Francese che, come tante altre, ha pagato un tributo altissimo al processo di civilizzazione dell’isola - in particolare per la libertà d’informazione - ancora moribondo rispetto all’atavico processo di disumanizzazione divenuto ormai elemento organico del nostro patrimonio storico e antropologico? Cosa resta dello sconquasso di queste famiglie? Al diritto dei cittadini di pretendere una corretta informazione, si contrappone, in egual misura, la loro voglia di informarsi sulle cose, sui personaggi, sui politici? L’informazione è solo un diritto o è anche una pretesa coltivata?

In tempi di crisi del quarto potere dello Stato, in tempi in cui i paladini dell’antimafia in strettissimi rapporti con le più alte istituzioni finiscono sotto inchiesta per rapporti con la mafia, in tempi di dossieraggi anonimi verso chi fa il proprio dovere, l’ultima speranza, Giulio Francese, la ripone nella coscienza dei giovani affinché da essa venga fuori una logica diversa da quelle dominanti, tagliando le fila con una certa politica che restituisce soltanto briciole.

Alla famiglia Francese, un doveroso grazie da chi crede ancora che i sacrifici hanno un loro perché soprattutto quando forgiano il coraggio e la voglia di contrastare meschini e miserrimi di qualsiasi appartenenza professionale, istituzionale e sociale.

Meschini e miserrimi.

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