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csm 23ott2018 c imagoeconomicadi Sebastiano Ardita
Come ho già espresso in più sedi, ritengo che questa riforma non sia sufficiente a risolvere i problemi della giustizia, eppure non sono affatto d’accordo su alcune critiche al ddl Anticorruzione, che vengono espresse nel parere del Csm.

1) Richiamando il documento della Commissione ministeriale Fiorella, il Csm finisce per sostenere che l’istituto della prescrizione sarebbe un fattore di accelerazione dei processi, perché induce i giudici a celebrarli più in fretta per non farli prescrivere. Ne consegue che la nuova legge, secondo questa tesi, li allungherebbe. Ora non si può dimenticare che la durata del processo è legata anche e soprattutto all’esercizio di diritti e facoltà dell’imputato. Dimenticando di scrivere che è l’imputato ad avere l’interesse e gli strumenti per arrivare alla prescrizione, indirettamente si fa affermare al Csm che la durata dei processi è esclusiva responsabilità dei magistrati. Che è ciò che sostengono taluni detrattori: mi sembra una forma di autolesionismo gratuito.

2) Si sostiene che siccome una rilevante parte dei processi si prescrive in fase di indagini, questa riforma non incidendo su quella fase, ma dalla sentenza di primo grado, sarebbe inutile.

Il dato numerico delle prescrizioni durante le indagini è vero, ma va precisato. Non si dice nel parere che una enorme quantità di notizie di reato giungono quando stanno già per prescriversi. Immaginiamo che l’Inps mandi un blocco di 500 denunce di illeciti relativi all’anno 2012. In un caso del genere non avrebbe senso mandare avanti questi processi con i costi che ciò comporterebbe: si preferirà farli prescrivere prima, piuttosto che procedere a inutili udienze e notifiche. Se si utilizza in modo acritico questo argomento, ancora una volta, in modo indiretto, si fa riconoscere al Csm che la responsabilità di queste prescrizioni è colpa dei pubblici ministeri.

Appare singolare infine che non si dia alcun giudizio sulla efficacia della precedente riforma sulla prescrizione (la cd riforma Orlando) – affermandosi che 2 anni sono un termine troppo breve per dare un giudizio – mentre della riforma che deve ancora nascere si dà un giudizio negativo sulla base di valutazioni piuttosto opinabili.

Occorre perciò interrogarsi su quale sia il ruolo del Csm con riguardo a questi pareri: il suo compito è quello di dare valutazioni che riguardano il corretto funzionamento della giustizia, non certo di dare i voti a governi e parlamenti. Sotto questo aspetto appare ancor più singolare il contenuto critico del parere di Csm, se esso viene messo in relazione a come il Csm ebbe a esprimersi rispetto ad altre riforme di cui appare quantomeno discutibile l’apporto al buon funzionamento dei processi. Per richiamare la memoria sarà utile leggere i precedenti pareri del Csm sulla riforma Orlando che pure conteneva alcune norme che avevano fatto molto discutere in tema di funzionalità della giustizia. Il 20 maggio e 11 novembre 2015 il Csm si espresse così. Sulla prescrizione aveva detto: “In sostanza, la modifica auspicata avrebbe senz’altro un rilevante immediato effetto di deflazione del numero di processi penali in primo grado ed in sede di impugnazione, così offrendo spazi e risorse maggiori per la loro generalizzata più rapida e tempestiva definizione”.

Sulle impugnazioni (ricordo solo che era stata votata l’abolizione dell’appello incidentale del pm, ultimo deterrente al ricorso strumentale dell’appello dell’imputato) aveva scritto: “Tanto premesso, la filosofia di fondo che anima la riforma merita sicuro apprezzamento nella misura in cui la medesima dovrebbe, con adeguata organicità e razionalità, riallineare le norme processuali allo scopo primario della celerità della risposta giudiziaria”.

Sulle intercettazioni: “La norma è chiaramente volta a realizzare una migliore conformazione della disciplina vigente in tema d’intercettazioni telefoniche rispetto alla libertà di cui all’art. 15 Cost., quale ampliamento e precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana”. Per non parlare dell’incredibile riforma sull’obbligo di definizione dei procedimenti da parte del pm entro tre mesi dalla conclusione delle indagini con possibile avocazione del procuratore generale. Una disposizione il cui unico effetto sarebbe stato quello di paralizzare gli uffici, che prevedeva un avvitamento interno con trasferimenti delle medesime competenze da un ufficio organicamente più dotato (la Procura della Repubblica) a uno meno dotato (la Procura generale). Ho cercato il parere del Csm sul punto, ma non l’ho trovato. Certamente avrò cercato male. Ma quel che è certo è che per ovviare ai danni che avrebbe prodotto quella specifica riforma, poi entrata in vigore, il Csm ha dovuto adottare una risoluzione il 16 maggio 2018, con cui si è dovuto arrampicare sugli specchi per evitare che tutti i pm italiani si trovassero nelle condizioni di subire un procedimento disciplinare per non aver realizzato ciò che una legge dello Stato imponeva.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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