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montana dariodi Dario Montana
Le sentenze definitive di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa emesse nei confronti di Ignazio D’antone, ex capo della Criminalpol, e di Bruno Contrada, ex numero due del Sisde (quest’ultima dichiarata ineseguibile e priva di effetti dalla Cassazione a seguito della decisione della sentenza Cedu) fotografano il clima di quegli anni. Raccontano del clima nel quale si trovavano ad operare Beppe e Ninni Cassarà.
Un clima fatto di operazioni che saltavano all’ultimo minuto e di relazioni di servizio andate smarrite.
Da un lato c’era un investigatore come Beppe, che riteneva che per catturare i latitanti bisogna conoscere le loro vite, i loro affetti, i legami sentimentali e che un pranzo di natale, un battesimo, un anniversario rappresentavano un’occasione irripetibile per sfruttare eventuali errori e passi falsi.
Dall’altro c’erano altri colleghi (?) che invece ritenevano che non fosse opportuno entrare nella vita familiare, alimentare disordini e urtare la sensibilità delle loro donne in occasione di battesimi e ricevimenti. Insomma, i latitanti dovevano essere ricercati con discrezione.
La stessa discrezione e lo stesso rispetto venivano invocati in occasione di un omicidio, o nel corso delle operazioni di polizia, consigliando ai colleghi di non fumare e non essere troppo invadenti. Bisognava capire il momento.
Di certo questi due modi di concepire il proprio lavoro e la propria funzione erano incompatibili e hanno determinato l’isolamento di chi i latitanti li cercava sul serio.
Lo stesso isolamento determinato nei confronti di Ninni Cassarà al processo Chinnici, quando Ninni fu l’unico a ricordarsi dell'intenzione del procuratore di firmare il mandato di cattura nei confronti dei cugini Salvo (gli esattori). In quell’occasione imbarazzanti furono i “non ricordo” e le mancate conferme da parte degli stessi colleghi del magistrato e dei funzionari.
Questo scenario diventa ancora più inquietante alla luce di operazioni saltate all’ultimo minuto per mancanza di un ponte radio, o alla luce di episodi come quello verificatosi quando nel corso di un’operazione nelle campagne dell’ennese Beppe ha dovuto prendere atto della sparizione dell’obiettivo, e quando al momento dell’irruzione si trovò davanti solo una donna con due tazzine di caffè fumante e chiese per chi fosse stato preparato quel caffè, si vide rispondere con un serafico: “È per lei, dottore Montana”, anche se ancora non aveva avuto il tempo di qualificarsi.
A prescindere dalle decisioni adottate in ordine agli effetti del giudicato, a noi interessa solo la ricostruzione dei fatti storici e dei comportamenti realmente tenuti che fanno sorgere una domanda molto semplice, si è trattato solo di scelte e responsabili individuali?
Nel nostro processo abbiamo ottenuto la condanna definitiva dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Beppe, ma forse la circostanza che solo tre anni di lavoro presso la squadra mobile di Palermo abbiano determinato la morte di Beppe deve essere rivista anche alla luce di queste decisioni.
Ci sono voluti venticinque anni per vedere condannati i mafiosi che mio fratello ricercava. Il processo ci restituito una parte importante della verità, altre verità però devono essere ancora ricercate al di fuori delle aule giudiziarie.
Purtroppo si conferma che la vera forza della mafia è ancora fuori dalla mafia e ricade nelle complicità, nelle omissioni, nella superficialità e nell’incompetenza che queste storie ci raccontano.

'Mafie' da un'idea di Attilio Bolzoni

Tratto da: mafie.blogautore.repubblica.it

In foto: il fratello di Beppe Montana, Dario