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le trattativedi Marco Travaglio
Faccio da trentacinque anni il giornalista e ne ho viste e sentite tante. Ma non mi è mai capitato un muro di gomma così impenetrabile alla verità come quello che ha impedito agli italiani di sapere anche soltanto il minimo indispensabile del processo sulla trattativa Stato-mafia. Ricordo un solo precedente, e non a caso, perché riguarda un processo assolutamente speculare: quello a Giulio Andreotti, spacciato per assolto mentre risultò - in appello e in Cassazione - colpevole di associazione per delinquere con la mafia fino al 1980, reato “commesso” ma prescritto. E in questo il sistema politico-mediatico è stato coerente: come non poteva consentire che i cittadini venissero a conoscenza dei rapporti fra Cosa nostra e il leader (qualcuno lo chiamava addirittura “statista”) più importante, potente e longevo della prima Repubblica, così non poteva permettere che trapelassero le prove dell’immondo baratto che consentì ai corleonesi di riagganciare lo Stato agli albori della seconda, per tenere sotto scacco anche quella. Per oltre dieci anni, da quando il pentito Giovanni Brusca rivelò per primo la Trattativa, subito confermata dinanzi alla Corte d’Assise di Firenze con la stessa definizione (“trattativa”) dai due ufficiali del Ros - Mario Mori e Giuseppe De Donno - che l’avevano avviata nel 1992, e poi consacrata da varie sentenze, alcune definitive, si è tentato di negare quel fatto storico indiscutibile. E, non potendo trasformare una prescrizione in assoluzione perché il processo non si era ancora celebrato, si è fatto ricorso a tutto l’armamentario lessicale del Partito del Negazionismo e dell’Impunità: la presunta, la pretesa, la fantomatica, la cosiddetta, la supposta trattativa. Intanto i pochi magistrati che indagavano trovavano ogni giorno nuove prove: testimonianze, documenti, confessioni di pentiti, ammissioni di politici e uomini delle istituzioni finto-smemorati costretti ad ammettere ciò che non potevano più negare, circostanze clamorose rimaste clandestine ed emerse vent’anni dopo (come la revoca di 334 provvedimenti di 41 bis disposta in un solo giorno, nel novembre 1993, dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso). Ma la politica e i media sottostanti seguitavano con la litania della presunta trattativa. Mentendo, depistando, minimizzando, ostacolando le indagini, processando in edicola e al Csm i magistrati che osavano ficcare il naso dove non dovevano. Finché il puzzle dei fatti si fece così completo, esaustivo e illuminante che qualcuno pensò bene di saltare a pie’ pari dal negazionismo al giustificazionismo: la trattativa non era più presunta, ma certa, però veniva descritta come un atto dovuto, necessario, sacrosanto, a opera di fedeli servitori dello Stato che la condussero per il nostro bene, cioè per fermare le stragi (e pazienza se, trattando, finirono con l’incoraggiarle e il moltiplicarle). Altri invece, compresi illustri (si fa per dire) giuristi e storici, riuscirono addirittura a negarla e contemporaneamente a giustificarla, come se si potesse affermare che una cosa non è mai stata fatta, ma che è stato giusto farla. Memorabile, in questo nuovo filone del diritto demenziale, il titolo di un saggio del cosiddetto professor Giovanni Fiandaca su un samizdat berlusconiano: "Il processo alla trattativa è una boiata pazzesca". Infatti, al processo, gli imputati accusati di averla condotta - per conto dello Stato e dell’Antistato - sono stati tutti condannati in primo grado a pene severissime dalla Corte d’Assise di Palermo.
Quella del 20 aprile 2018 va segnata sul calendario come una data storica. Storica come la sentenza che ha chiuso il processo di Norimberga allo Stato italiano. Ha riscritto la storia della fine della prima Repubblica e dell’inizio della seconda. Ha condannato per lo stesso reato - violenza o minaccia a corpo politico dello Stato - tanto gli uomini di mafia (Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, unici picciotti superstiti fra gli imputati dopo le morti di Provenzano e Riina) quanto gli uomini dello Stato (i capi del Ros Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno e l’inventore di Forza Italia Marcello Dell’Utri). E ha messo nero su bianco, in nome del Popolo Italiano (rappresentato da sei giudici popolari con la fascia tricolore), quello che il sottoscritto, "il Fatto Quotidiano" e pochi altri avevamo sempre detto sul patto neppure tanto occulto fra Stato e mafia che nel 1992-93 edificò la seconda Repubblica sui cadaveri di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, degli uomini e donne delle scorte e dei dieci caduti inermi (più trenta feriti) nelle altre stragi di Firenze, Roma e Milano.
Il merito è anzitutto dei pubblici ministeri Antonio Ingroia (l’autore di questo bel libro), Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia che ci hanno sempre creduto, contro tutto e contro tutti (capi dello Stato, governi, pezzi dell’Arma e dei servizi, magistrati tremebondi o collusi, giuristi della mutua, storici senza memoria, giornalisti da riporto), fornendo alla Corte le prove non solo per accertare la verità processuale (sempre di molto inferiore a quella storica), ma anche per punirne i colpevoli, in un’aula quasi sempre deserta, cioè disertata dai microfoni, dai taccuini e dalle telecamere di regime. Ma il merito è anche dei giudici togati Alfredo Montalto e Stefania Brambille e di quelli popolari che per cinque anni non hanno mai piegato la schiena dinanzi a pressioni altissime e potentissime, su su fino al Quirinale negli anni bui di re Giorgio Napolitano, e alla fine hanno osato compiere fino in fondo il proprio dovere: rendere giustizia a un Paese dove - come diceva Leonardo Sciascia - "lo Stato non processa se stesso".
In attesa delle motivazioni della sentenza, il dispositivo letto in aula da Montalto il 20 aprile già consente di ricostruire come andarono le cose nel biennio nero 1992-94, quando tutto sembrò cambiare e poi tutto tornò come prima. Anzi, peggio. È una ricostruzione che i pochi che hanno seguito il processo e le rarissime cronache giornalistiche conoscono bene: i fatti, le testimonianze e i documenti parlano da sé. A prescindere dalle interpretazioni giurisprudenziali. Ora però c’è il timbro della Corte di Assise. E quelle verità indicibili, che tutti nei palazzi del potere conoscevano da anni ma nessuno osava ammettere, si possono dire. Con tanti saluti ai negazionisti e agli azzeccagarbugli. Ricordare come andarono le cose è utile non solo per capire la sentenza. Ma anche per orientarsi nelle vicende politiche più attuali, che vedono l’Italia - oggi come venticinque anni fa - in bilico fra speranze di cambiamento e minacce di restaurazione.
Antonio Ingroia, che ha accompagnato le indagini dal primo all’ultimo giorno, salvo poi cambiare aria e vita passando il testimone ai colleghi nella fase dibattimentale, ha ricostruito tutto per filo e per segno in questo libro. È una verità semplice, elementare, lapalissiana, logica, quasi disarmante, l’unica che può spiegare quel che è accaduto sotto i nostri occhi con le stragi come cominciano all’improvviso e due anni dopo, all’improvviso, si interrompono. Nel gennaio 1992 Salvatore Riina, “tradito” dai suoi referenti politici Andreotti & C. che non avevano saputo bloccare le condanne dei boss al maxiprocesso in Cassazione, decide di "fare la guerra per fare la pace" con lo Stato, ricattandolo a suon di bombe e delitti politici. Uccide Lima, il “traditore”. Uccide Falcone, il simbolo del “maxi” e della svolta antimafia del governo Andreotti. Sbarra al Divo Giulio la strada del Quirinale. E si mette in attesa. Gli rispondono a stretto giro i vertici del Ros, la triade Subranni-Mori-De Donno: vanno a trattare con Vito Ciancimino perché faccia da tramite col Capo dei Capi le cui mani grondano del sangue di Capaci. E continuano a trattare anche e soprattutto dopo via d’Amelio. Sapremo dalla sentenza se i giudici hanno ritenuto provata l’ipotesi più probabile: e cioè che Borsellino sia stato assassinato a distanza così ravvicinata da Falcone perché indagava sui rapporti fra Vittorio Mangano, Dell’Utri e Berlusconi e perché aveva saputo della trattativa e stava per smascherarne gli autori. Sia come sia, è per questo che i tre carabinieri sono stati condannati insieme a Bagarella e Cinà: per avere trasmesso ai governi Amato e Ciampi il messaggio ricattatorio di Cosa nostra (il “papello” con le richieste di Riina in cambio della fine delle stragi) affinché lo Stato si piegasse ai mafiosi. E lo Stato si piegò. Prima con la mancata perquisizione al covo di Riina (arrestato, anzi venduto da Provenzano) da parte del Ros, che consentì ai picciotti dello Zu Binnu di portar via indisturbati le carte dalla cassaforte. Poi con la rimozione degli uomini della linea dura (il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e il direttore del Dap Niccolò Amato, mentre il ministro della Giustizia Claudio Martelli se ne andò per Tangentopoli) per rimpiazzarli con quelli della linea molle (dal nuovo guardasigilli Conso al nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti) che, pressati dal triplice messaggio stragista di Firenze, Milano e Roma fra il maggio e il luglio del 1993, revocarono il 41 bis ai 334 mafiosi detenuti. A riprova del fatto che le stragi pagavano e la Trattativa, lungi dal frenarle, le incoraggiava. Fu quello il primo di una lunga serie di regali a Cosa nostra, proseguiti per vent’anni sotto i governi di centrodestra e centrosinistra, ma purtroppo non punibili penalmente.
In pieno terremoto Mani Pulite, le elezioni del 1994 si avvicinavano, col rischio per l’Ancien Régime di un vero rinnovamento. Fu così che l’eterna politica mafiosa trovò in Dell’Utri, e dunque in Berlusconi, i suoi vindici e salvatori. Fin dal giugno del 1992, subito dopo Capaci, Dell’Utri aveva capito che i vecchi protettori del suo “mondo di mezzo” fra mafia e Fininvest stavano per defungere. E aveva incaricato il consulente Ezio Cartotto di studiare un partito della Fininvest. Il Cavaliere ne fu informato all’inizio del 1993, quando aveva già le aziende sull’orlo della bancarotta e sotto inchiesta, e tutti i manager indagati o in galera: mancava solo lui. Fu così che sposò subito il progetto che gli avrebbe risparmiato il crac e il carcere, portando in politica il patto personale e aziendale stipulato nel 1974 con i boss Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano. I dubbi delle “colombe” Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo furono spazzati via dall’autobomba di via Fauro contro Costanzo, illeso per miracolo. Mangano, sopravvissuto alla guerra tra la vecchia mafia palermitana e la nuova mafia corleonese perché detenuto, appena uscito si era salvato grazie al suo rapporto privilegiato con Marcello & Silvio. Infatti prima Riina e poi Provenzano lo spedirono spesso a Milano2 a fare la spola fra Dell’Utri e Cosa nostra, per testare lo stato di avanzamento lavori di Forza Italia. Finché, rassicurato, nell’autunno del 1993 lo Zu Binnu sciolse il partitino regionale e secessionista Sicilia Libera, appena fondato da Cosa nostra, per puntare tutto sul partitone di Silvio & Marcello. Poi, tra fine 1993 e inizio 1994, Mangano tornò più volte ad avvertire Dell’Utri e, per suo tramite, il neopremier Berlusconi che le stragi, bruscamente interrotte col fallimento e poi la revoca della mattanza di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, sarebbero riprese se il nuovo governo non avesse mantenuto i patti. Fu allora che Giuseppe Graviano, al bar Doney di via Veneto a Roma, confidò al suo killer Gaspare Spatuzza che B. e Dell’Utri "ci stanno mettendo l’Italia nelle mani".
Per questo anche Dell’Utri è stato condannato, pure lui in concorso con il boss Bagarella: per aver portato il messaggio ricattatorio di Cosa nostra al suo amico premier (che ora puzza ufficialmente di mafia non solo come imprenditore, ma anche come politico e capo del governo). Cioè per aver traghettato il Grande Ricatto dalla prima alla seconda Repubblica. E condannato quest’ultima, con quell’indelebile peccato originale, ad abbracciare i tentacoli della Piovra.

*Prefazione al libro “Le Trattative” (Imprimatur ed.)

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