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di Luca Tescaroli
Vent’anni dopo sono ancora troppi gli interrogativi, serve andare oltre la giustizia penale
Sono trascorsi cinque lustri da quel 27 maggio 1993, allorché una violentissima detonazione sconvolse il centro di Firenze. Il tempo ha ingiallito i ricordi, che cominciano a scolorire persino per chi ha vissuto quegli anni, ma non per i familiari delle cinque vittime innocenti cancellate per sempre e dei sopravvissuti. 35 furono i feriti. La Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, venne distrutta. Morirono sepolti i quattro membri della famiglia Nencioni, custode dell’Accademia. Nel rogo che avvolse l’edificio collocato al n. 3 di via dei Georgofili trovò la morte Davide Capolicchio. Opere di inestimabile valore ed edifici monumentali vennero vituperati, perdendo per sempre l’integrità della loro testimonianza storica. Furono necessari oltre 30 miliardi di vecchie lire per riparare la chiesa di San Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, per ricostruire la Torre dei Pulci e restaurare le opere danneggiate. I mandanti e gli esecutori di Cosa Nostra, per la prima volta impegnata contro un obiettivo per loro inedito, oggi hanno un volto e molti perché di quell’agire sono conosciuti.
Rimangono, però, quesiti senza risposta che attraversano l’intera strategia stragista terroristico eversiva in cui si colloca, costituita da sette stragi (due in Sicilia e 4 nel continente, a Firenze, Roma e Milano), quattro omicidi (Lima, Guazzelli, Salvo e Lizzio), una serie di intimidazioni (gli attentati a sedi e beni della Dc in Sicilia, la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli a Firenze) e 15 progetti di attentato concentrati nell’arco di poco meno di tre anni, correlate da plurime trattative avviate con esponenti delle Istituzioni.
Una strategia che ha avuto il punto di partenza nella primavera del 1989 con l’attentato all’Addaura. I boss spiegarono che la situazione esigeva che si preparasse il terreno a uomini che Cosa Nostra riteneva di poter influenzare e che avrebbero ottenuto dalla mafia il risultato di riportare la calma.
Un agire senza precedenti. Vi sembrano i comportamenti tradizionali della mafia? Possono mai uomini illetterati, come Riina e Provenzano, concepire da soli l’idea di colpire il patrimonio storico, artistico, monumentale e religioso della Nazione? Perché i vertici dell’organizzazione decisero di accelerare l’esecuzione della strage di via D’Amelio, ponendo in non cale l’omicidio di Mannino?
Quali i legami tra l’Addaura (e i suoi nodi irrisolti) e la strategia stragista attuata nel 92-93? Perché compiere in Sicilia, nella stessa città a Palermo, a distanza di 57 giorni, due stragi così efferate a Capaci e in via Mariano D’Amelio? Come è possibile che i corleonesi non avessero messo in conto la reazione dello Stato, che avrebbe potuto annientarli? Per quale motivo l’attentato programmato a due passi dallo stadio Olimpico di Roma - un’autobomba parcheggiata in via dei Gladiatori all’uscita di una partita di serie A, che non esplose solo per un guasto tecnico - non venne più rimesso in cantiere quando nuove realtà politiche erano subentrate al governo del Paese? Qual è il rapporto tra le condotte stragiste e omicidiarie e le trattative avviate?
Se è vero che l’azione giudiziaria non ha fornito risposte certe e il decorso del tempo rende sempre più difficile le indagini, un atto di responsabilità delle classi dirigenti potrebbe avviare un nuovo sforzo alla ricerca della verità, creando una commissione parlamentare che, scevra da condizionamenti, verifichi se siano individuabili responsabilità politiche, storiche ed etiche. Potrebbe essere un modo per rendere omaggio alle vittime di via dei Georgofili e delle tante troppe vittime innocenti dello stragismo di quegli anni e, forse, per iniziare a fare i conti con il nostro tragico passato.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Imagoeconomica

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