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travaglio marcodi Marco Travaglio
Luigi Facta
nasce a Pinerolo (Torino) nel 1861 e fa l’avvocato, poi diventa consigliere comunale e poi sindaco della sua città. Nel 1892 è eletto deputato e rimane alla Camera per 30 anni sui banchi dei liberali fedeli a Giolitti, di cui è uno degli “ascari” più obbedienti. “Sono un giolittiano dalla personalità sbiadita”, dice di sé con orgoglio, ben sapendo che in politica, almeno in Italia, le nullità hanno un radioso futuro. Come scriverà Giovanni Ansaldo, biografo di Giolitti, “spesso la mediocrità è una voragine per la quale anche gli spiriti eletti provano una cupa attrazione”. Infatti nei primi anni del 900 lo statista di Pinerolo, mai sfiorato da un’idea che non fosse di Giolitti, diventa sottosegretario alla Giustizia e all’Interno, poi ministro delle Finanze. Nel 1914, quando scoppia la guerra mondiale, è neutralista, poi passa agli interventisti. Nel 1919 va alla Giustizia, poi torna alle Finanze e finalmente, il 26 febbraio 1922, Vittorio Emanuele III lo nomina presidente del Consiglio. Dura cinque mesi, poi viene sfiduciato, ma siccome il re non trova uno straccio di successore, lo rinvia alla Camera per una nuova fiducia. Facta resta lì fino al 27 ottobre, vigilia della marcia su Roma. Quando lo informano, tentenna; pronuncia il celebre “Nutro fiducia che tutto andrà nel migliore dei modi”; propone (invano) al re lo stato d’assedio; infine sbotta: “Volete da me un gesto di forza? Lo volete proprio? Ebbene, mi farò saltare le cervella”. Invece cede il posto al cavalier Benito e collabora col regime, ricambiato con la comoda poltrona di senatore del Regno.
Ieri, chissà perché, vedendo all’opera (si fa per dire) Mattarella e Gentiloni alle prese con i diktat di Renzi, ci sono venuti alla mente il Re Sciaboletta e Facta-Nutro Fiducia. Si dirà: oggi non è alle viste nessuna marcia su Roma. Vero. Ma questa, per Sergio di Savoia e Paolo Facta, è un’aggravante, visto che non devono resistere alla violenza delle squadracce fasciste, ma solo alle crisi isteriche di un teppistello di Rignano sull’Arno. Eppure è bastato che il bulletto strillasse un po’ per farli scattare sull’attenti come due soldatini di piombo che più flessibili e pieghevoli non si può. Sergio e Paolo Riomare, così teneri che si tagliano con un grissino: al posto del “nutro fiducia” di Facta, “concedo fiducia”. E pazienza se non si può. La fiducia la pongono eccezionalmente i governi su propri provvedimenti qualificanti che rischiano di saltare per l’ostruzionismo delle opposizioni, mentre qui c’è una legge d’iniziativa parlamentare, che per giunta coinvolge un po’ di maggioranza (Pd e Ap) e un po’ di opposizione (FI e Lega).
E nessuno lo sa meglio di Mattarella, che nel 1990 si dimise da ministro Dc dell’Istruzione del governo Andreotti che aveva legittimamente posto la fiducia sulla legge Mammì (porcata su misura per B., ma di iniziativa governativa, firmata dal ministro delle Poste e telecomunicazioni). E nel giugno ’94 strepitò contro il neonato governo B. che voleva modificare la (sua) legge elettorale Mattarellum senz’alcuna fiducia: “Non sono in pericolo le forme della democrazia, c’è il rischio di svuotarne sostanzialmente alcuni aspetti fondamentali, attraverso l’eliminazione di minoranze, la sordina alle opposizioni parlamentari, il controllo della pubblica opinione”. Proprio quel che accade oggi col Fascistellum, con la doppia aggravante che si truccano le regole elettorali a pochi mesi dalle elezioni e con la tagliola della fiducia. Ma oggi Mattarella ha cambiato idea (al punto che riceve lezioni di democrazia parlamentare financo da Napolitano). E Gentiloni e Boldrini dietro. Purtroppo i regolamenti parlamentari non sono opinioni. Infatti, per violarli, si mente per la gola. Mente due volte Mattarella, quando ripete che “vanno resi omogenei i sistemi di Camera e Senato” (il sistema di voto per la Camera è sempre stato diverso da quello del Senato; e il Rosatellum non si limita a rendere omogenee le sentenze della Consulta sul Porcellum e sull’Italicum, ma le calpesta entrambe).
Mente due volte Gentiloni quando - riferisce il Messaggero - dichiara in Consiglio dei ministri che “la riforma è sostenuta dai maggiori partiti di opposizione” (il maggior partito di opposizione si chiama 5Stelle ed è contrarissimo a una legge fatta apposta per eliminarlo) e che la fiducia non viola il suo giuramento di neutralità (“Il tema della legge elettorale è principalmente del Parlamento”). E mente pure la Boldrini, rivendicando la legittimità della questione di fiducia che espropria le prerogative della Camera da lei presieduta e invocando tre precedenti che le darebbero ragione. Lo spiegano i giuristi Casanova e Podetta sul sito di Libertà e Giustizia. Art. 72 della Costituzione: “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale”. Artt. 49 e 116 del Regolamento della Camera: “Sono effettuate a scrutinio segreto, sempre che ne venga fatta richiesta, le votazioni… sulle leggi elettorali”. “La questione di fiducia non può essere posta su… tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive… scrutinio segreto”. E i precedenti parlamentari (24.1.1990, 24.6.2004 e 24.11.2004) citati dalla Boldrini non riguardano direttamente la materia elettorale, dunque c’entrano come i cavoli a merenda. Tantopiù che qui non si rischia alcun ostruzionismo (gli emendamenti sono pochissimi). Visto che Mattarella, Gentiloni e Boldrini ce li siamo giocati, resta il presidente del Senato Piero Grasso, che l’altro giorno s’è definito “un ragazzo di sinistra”. Vedremo se almeno lui farà rispettare le regole contro il Fascistellum che, fra l’altro, fa fuori pure la sinistra. O se anche lui nutre fiducia.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 12 ottobre

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