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“Marco, come sta tua figlia? Dammi notizie!”. Stava già malissimo, il 5 giugno. Eppure, appena lesse che la mia Elisa era rimasta schiacciata nella ressa di piazza San Carlo, mi telefonò per avere notizie, con la solita voce squillante e calma, cantilenante e ottimista. Come se stesse benissimo. Stefano Rodotà era anche questo: un vero signore e un amico caro. Mio e del Fatto. Uno di famiglia, da tempestare ogni giorno per interviste, pareri, consigli. E lui ogni volta faceva i salti mortali, tra una conferenza e una galleria (era spesso in treno), per non farci mai mancare la sua voce. Fino all’ultimo, il 23 maggio, quando ci spiegò perché era giusto e doveroso mettere in pagina l’intercettazione dei due Renzi su Consip perché “di assoluto rilievo pubblico”. Trovava sempre le parole, i toni, gli argomenti giusti. Quando immaginiamo a chi vorremmo somigliare, il primo che ci viene in mente è lui: un hombre vertical intransigente ma pacato, combattivo ma sereno, politico ma etico tanto da non sembrare nemmeno italiano. E quando sentiamo proprio il bisogno di invidiare qualcuno, pensiamo ancora a lui.
Un uomo sempre dalla parte giusta: quella della Costituzione (contro Craxi e gli altri corrotti di Tangentopoli, contro B. loro degno epigono, contro la Bicamerale di D’Alema&B., contro le presunte riforme scassa-Costituzione di B. e poi di Renzi) e dunque della laicità, della legalità e dei diritti. E dunque, nel Paese più bigotto, corrotto e autoritario d’Europa, sempre fuori da tutto. Non credete ai politici e ai tromboni del cordoglio automatico e del lutto posticcio: a quelli Rodotà non piaceva, e ricambiava. Il vuoto della sua scomparsa lo avvertiranno molti cittadini, ma i politici e gl’intellettuali da riporto sentiranno solo un grande sollievo: una spina nel fianco in meno.

Quand’era presidente del Pds e nel 1992 fu candidato alla presidenza della Camera, a sbarrargli la strada per conto della peggior partitocrazia fu Giorgio Napolitano. Lo stesso che gli fu naturalmente preferito nel 2013, quando il popolo della Rete votò Rodotà fra i tre presidenti della Repubblica preferiti alle Quirinarie dei 5Stelle e, dopo le rinunce di Gabanelli e Strada, Grillo lo candidò al Colle con l’appoggio di Sel e della base del Pd. Un gesto che, se anche fosse l’unica cosa fatta dai 5Stelle in tutta la loro storia, potrebbe già bastare e avanzare per non renderla vana. Per qualche giorno gli eterni padroni d’Italia furono pervasi da un brivido di terrore: ma come, un uomo colto e perbene che non si può né comprare né ricattare, un nemico dei compromessi al ribasso, un cultore dei beni comuni, un innamorato della Costituzione e del popolo sovrano, insomma un “moralista” e “giustizialista” (lui, vero garantista a 24 carati) sul Colle? Ma siamo matti?
Quanti di noi, in questi quattro anni, hanno provato a immaginare come sarebbe l’Italia se il Parlamento avesse eletto lui: forse avremmo conosciuto la nostra prima rivoluzione, quella della Costituzione. Certo non avremmo rivisto al governo B., Alfano, Verdini e altre sconcezze. Certo non avremmo questa Rai di regime. Certo avremmo ancora lo Statuto dei Lavoratori. Certo il governo non avrebbe potuto truffare 3,3 milioni di cittadini col trucco dei voucher. L’ultima battaglia referendaria in difesa della Carta fu un onore e un privilegio, anche perché ci consentì di combattere al suo fianco e, tanto per cambiare un po’, vincere. La sera del 2 dicembre, al teatro Italia di Roma, eravamo tutti insieme per dire che “La Costituzione è Nostra”. Stefano si alzò nel teatro gremito e fu sommerso dai cori “Presidente! Presidente!”. Sarebbe stato un perfetto capo dello Stato, ma anche un ottimo premier, ministro, giudice costituzionale. Tutte cariche dovute, dunque mai ottenute. Grazie, Stefano: sarai sempre il Presidente che non ci siamo meritati.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 24 giugno 2017

Tratto da: 19luglio1992.com

Foto © Ansa