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petrolchimico priolo c ansaSentenza innovativa sulla zona industriale di Priolo
di Alessandra Ziniti
Il prete coraggio: ''Finora silenzi, è caduto un muro''

Carlo non ha fatto a tempo a gioire della “vittoria”. Se n’è andato due anni fa, stroncato da quel terribile mesotelioma che lo aveva aggredito nel 2014 dopo tanti anni di lavoro al Petrolchimico di Priolo. L’Inail gli aveva persino negato il riconoscimento della malattia “professionale”, una posizione condivisa dai giudici di primo grado. Ma qualche giorno fa, con una sentenza destinata a diventare una pietra miliare nella lotta a tutela dei lavoratori esposti a forti fonti di inquinamento, la corte d’Appello di Roma non solo ha riconosciuto il diritto al risarcimento ai familiari dell’operaio, ma ha affermato che «tutti i lavoratori del Petrolchimico e tutti gli abitanti della zona» sono stati esposti alle esposizioni da amianto ben oltre i limiti consentiti. Una sentenza che, per la prima volta, riconosce il nesso causale tra le tante patologie tumorali nella zona industriale del Siracusano e gli agenti inquinanti, in questo caso l’amianto, aprendo la strada a possibili centinaia di domande di risarcimento.
Non riesce a rallegrarsi più di tanto don Palmiro Prisutto, il sacerdote di Augusta che ha fatto della battaglia contro l’inquinamento ambientale nel triangolo industriale il cuore del suo impegno testimoniato ogni domenica dal lunghissimo elenco dei nomi delle persone morte per tumori. «Lo diciamo da decine d’anni, che queste morti sono legate all’inquinamento ambientale, ma finora nessuna denuncia era mai arrivata a buon fine. Possiamo solo sperare che questa sentenza segni lo sgretolamento di un muro, che si sia aperta una crepa nell’indifferenza di tutte le istituzioni che, dalla presidenza della Repubblica in giù, sono state destinatarie dei nostri appelli e in possesso di tutte le informazioni necessarie per intervenire. La situazione qui non è più sostenibile da anni, ma purtroppo gli interessi economici in gioco sono troppo alti. Mi chiedo - insiste il prete coraggio - quanti altri lavoratori ora avranno la forza di resistere al ricatto occupazionale delle aziende che ogni volta minacciano la chiusura. Purtroppo qui tante famiglie dicono: “Meglio morire di cancro che di fame”».
Ci sono l’indagine epidemiologica del 1997 dell’Oms e il registro tumori della Provincia di Siracusa alla base della decisione dei giudici d’appello di Roma. E ora l’avvocato Ezio Bonanni, difensore dei familiari dell’operaio morto e presidente dell’Osservatorio nazionale sull’amianto, definisce «shock» questa sentenza che apre la via giudiziaria ai lavoratori di molte delle aree industriali a rischio amianto in Sicilia: oltre a Siracusa, quella di Gela, i Cantieri navali di Palermo, gli stabilimenti di produzione di manufatti in asbesto-cemento di Siracusa, San Filippo del Mela e San Cataldo. Tutte zone in cui la legge regionale approvata nel 2014, e per molti versi rimasta inapplicata, prevedeva la mappatura degli edifici a rischio e le relative bonifiche. Al presidente della Regione Crocetta, ora l’avvocato Bonanni chiede «l’applicazione della legge regionale siciliana in materia di amianto: è urgentissima l’istituzione della sorveglianza sanitaria in Sicilia e la creazione del polo di riferimento medico all’ospedale di Augusta, così come previsto dalla legge regionale».
Lettera morta sono rimasti anche i prepensionamenti per i lavoratori esposti ad amianto, così come non sono mai stati emessi gli atti di indirizzo equipollenti per il riconoscimento dei benefici alle persone che hanno lavorato nelle aree mappate come a rischio.
Anche Legambiente rilancia la sua battaglia contro la contaminazione da amianto dei siti industriali. «La politica non può fare più finta di nulla - dice Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia - Sono anni che denunciamo quello che accade nell’area di Augusta, Priolo e Gargallo. Sono anni che chiediamo la bonifica del territorio. Anni in cui la popolazione si ammala e continua ad ammalarsi. Auspichiamo una risposta immediata della Regione, a salvaguardia delle popolazioni e del territorio».


Nello stabilimento di Palermo fino a oggi 145 vittime della polvere killer. Tre ex dirigenti appena rinviati a giudizio
Forse non è finita: il mesotelioma ha un’incubazione trentennale
Fincantieri, nove processi per la strage silenziosa. E sarà incubo fino al 2027
di Francesco Patanè
Centoquarantacinque operai morti per avere respirato polvere di amianto, nove processi distinti in meno di dieci anni, quasi 400 parti offese e solo tre imputati. Sempre gli stessi: gli ex direttori dello stabilimento Fincantieri di Palermo Giuseppe Cortesi, Antonio Cipponeri e Luciano Lemetti. Numeri che raccontano la strage silenziosa sotto i giganteschi hangar e nei bacini di carenaggio, iniziata a metà degli anni Settanta e destinata a mietere vittime per dieci anni. «Un dato su tutti dà l’idea della strage che stiamo vivendo - commentano gli avvocati Fabio Lanfranca e Davide Martorana che assistono quasi tutte le famiglie delle vittime di amianto alla Fincantieri - Nel 1992 l’azienda ammise che 1.750 lavoratori erano stati esposti per oltre dieci anni al rischio amianto. Il mesotelioma pleurico ha tempi di latenza (il periodo medio prima che si manifesti la malattia,
ndr) dai 30 ai 35 anni. Ciò significa che nella peggiore delle ipotesi l’ondata di decessi deve ancora arrivare. Fino al 2027 il rischio è che si ammalino e vengano uccisi dall’amianto moltissimi altri operai».
Non sono morte tutte nello stesso periodo le tute blu che avevano trascorso decenni alla Fincantieri. Per questo i processi sono arrivati a quota nove nell’arco di meno di dieci anni. Il primo, con 43 morti accertate, si è concluso con il pronunciamento della Cassazione che ha condannato i tre ex dirigenti, Luciano Lemetti a tre anni e sei mesi, Giuseppe Cortesi a tre anni e un mese, e Antonino Cipponeri a due anni e sette mesi.
fincantieri palermo c ansaTutti gli altri processi sono ancora pendenti: il secondo (26 decessi) è in Appello (la data d’inizio è ancora da fissare) dopo le condanne in primo grado, il terzo (7 vittime) pure (prima udienza il 29 settembre), il quarto e il quinto (otto morti) sono stati riuniti e sono a dibattimento in primo grado, al pari del sesto troncone che ha 14 operai uccisi dall’amianto. Nel processo “Fincantieri sette” i tre ex direttori di cantiere sono stati rinviati a giudizio due giorni fa per la morte di sei operai e la grave malattia per altri nove.
Ma altri due tronconi sono in dirittura d’arrivo: per il numero “otto” nelle scorse settimane la pm Claudia Ferrari ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini (10 decessi e 5 malattie gravi), mentre il “nove” è in fase di indagini preliminari. «Sul “nove” abbiamo già oltre 25 denunce da parte di familiari di operai morti - sottolinea l’avvocato Lanfranca - Complessivamente i morti per amianto alla Fincantieri sono oltre 300, ma purtroppo più della metà dei casi sono prescritti e non potranno avere giustizia.
Le imputazioni principali restano le stesse: omicidio colposo plurimo, lesioni gravi colpose e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. E gli imputati sono sempre i tre ex direttori del cantiere palermitano. «Sin dagli anni Cinquanta i rischi dell’amianto erano noti - ha ribadito la pm Claudia Ferrari già nel corso della requisitoria del primo processo - nonostante tutto ciò, Fincantieri ha omesso di adottare anche le più elementari misure di prevenzione per evitare l’inalazione di polvere fibre di amianto». Nello stabilimento non c’erano tute speciali né mascherine né berretti di protezione. E neanche sistemi di aspirazione della polvere di amianto.
Durante i sei procedimenti fino a oggi finiti a dibattimento gli operai hanno raccontato le condizioni in cui lavoravano nello stabilimento «senza mascherine e con aspiratori che non funzionavano. Le polveri di amianto raccolte sul pavimento, che dovevano essere smaltite con apposite cautele, venivano semplicemente spazzate come fossero innocui granelli di polvere - hanno ripetuto in centinaia davanti ai giudici - Mancava un servizio di lavaggio delle tute: le mogli degli operai le lavavano a casa». Come ha fatto per anni Calogera Gulino, anche lei morta di cancro pochi mesi dopo aver sepolto il marito Angelo Norfo.

Tratto da: La Repubblica

Foto © Ansa

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