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manca attilio redda Lorena Cacace
Il giovane urologo fu trovato morto nel 2004, vittima di un intreccio tra mafia, massoneria e servizi: la famiglia chiede di far luce sulla sua morte

Attilio Manca non si è suicidato, è stato ucciso dalla mafia. La famiglia del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), trovato morto a Viterbo il 12 febbraio 2004, ha lanciato una petizione (qui il link) perché la Procura di Roma non archivi il caso. Accanto a loro, la redazione di Antimafia Duemila, promotrice della petizione, e in particolare il suo vicedirettore, Lorenzo Baldo, giornalista che al caso Manca ha dedicato un libro, “Suicidate Attilio Manca”. La richiesta è diretta al Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, al Procuratore aggiunto Michele Prestipino e al sostituto procuratore Maria Cristina Palaia che hanno aperto un’inchiesta per omicidio, dopo la sentenza del Tribunale di Viterbo che, a marzo di quest’anno, ha confermato la tesi del suicidio. Invece, Attilio Manca sarebbe stato vittima di un intreccio tra mafia, massoneria e servizi con al centro il boss mafioso più temuto: Bernardo Provenzano.

La morte di Attilio Manca è un classico mistero all’italiana: prove, evidenze e dichiarazioni vanno nella direzione di un omicidio mafioso su commissione, maturato in ambienti criminali, con la complicità di servizi e della massoneria. La giustizia ufficiale (o meglio parte di essa) crede al suicidio per droga: lo scorso 29 marzo il tribunale di Viterbo ha condannato a 5 anni e 4 mesi di carcere Monica Mileti, accusata di aver dato l’eroina a Manca. Cosa c’è dietro la morte di Attilio Manca? Chi era il giovane medico, morto a soli 34 anni? Lo abbiamo chiesto alla mamma, la signora Angela, e a Lorenzo Baldo, autore del libro “Suicidate Attilio Manca”.

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Prima di passare la parola a chi l’ha conosciuto, è utile ricostruire la vicenda della morte di Attilio Manca. Giovane talento della medicina, specializzato in urologia, Attilio Manca era stato il primo in Italia a eseguire operazioni sul tumore alla prostata in laparoscopia, tecnica appresa durante la specializzazione in Francia presso l’Institut Mutualiste Montsouris di Parigi. Originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Attilio Manca viveva da anni a Viterbo, dove esercitava all’ospedale Belmonte, oltre a operare in giro per l’Italia.

Quella che sembra una promettente e brillante carriera viene bruscamente interrotta l’11 febbraio 2004, giorno della sua morte. Il corpo viene ritrovato la mattina del 12 febbraio 2004: ad avvisare le forze dell’ordine era stato l’ospedale, preoccupato per l’assenza del medico che già la sera prima aveva saltato una cena con il professore Gerardo Ronzoni, primario di urochirurgia al Policlinico di Roma e suo mentore.

Quando la Polizia entra nell’appartamento, lo trova seminudo nel letto in un lago di sangue, il volto devastato, ecchimosi sul corpo, il setto nasale rotto: sul braccio sinistro due segni di punture che paiono inequivocabili. L’autopsia dirà che nel corpo era presente una dose massiccia di eroina, mista ad alcol e barbiturici: la tesi del suicidio prende forma.

Subito però emergono dati in netto contrasto con questa tesi. Anche tralasciando le condizioni del corpo, il fatto che non avesse mai fatto uso di droga e l’assenza di segnali che facessero pensare al suicidio, Attilio Manca era un mancino puro, incapace di usare la destra, come testimoniato da tutti i colleghi: come avrebbe potuto farsi le due iniezioni fatali nel braccio sinistro? La famiglia non crede all’ipotesi del suicidio e, col passare del tempo, le tessere del puzzle iniziano a incastrarsi: Attilio Manca sarebbe stato ucciso dalla mafia perché curò o visitò Provenzano in Francia.

attilio manca in francia

La famiglia di Attilio Manca è certa: il giovane medico è stato vittima della mafia. La tesi dell’omicidio mafioso prende corpo di fronte alle evidenze che emergono col tempo. Attilio era stato a Marsiglia a ottobre 2003 negli stessi giorni in cui Provenzano veniva operato alla prostata in Francia: era stato lui stesso a telefonare da Marsiglia alla mamma, come sarebbe potuto emergere da un semplice controllo dei tabulati telefonici. Invece, di quella telefonata, come di altre di Attilio, non ci sarà alcuna traccia.

Sempre la mamma, ricorda alcuni dettagli importanti che avrebbero potuto far luce su questa strana morte. Qualche giorno prima di morire, Attilio le chiese informazioni su Angelo Porcino, imprenditore vicino alla mafia corleonese per cui il cugino di Attilio, Ugo Manca , aveva chiesto un appuntamento per un consulto medico.

C’è poi la figura stessa del cugino Ugo, tecnico radiologo, condannato in primo grado a nove anni per traffico di droga (sarà assolto in appello). Una sua impronta viene ritrovata nel bagno di Attilio durante i rilievi della scientifica: agli inquirenti dirà di averla lasciata nel dicembre 2003 durante un viaggio a Viterbo per sottoporsi a un’operazione al testicolo, intervento di cui non esiste traccia. Sempre Ugo chiederà alla procura di Viterbo la restituzione del corpo di Attilio e il dissequestro dell’appartamento in tempi rapidi, dicendo di essere stato mandato dai genitori che, invece, negano di aver mai fatto una simile richiesta.

Infine, arrivano le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia e alcune intercettazioni ambientali che riconducono la morte di Attilio Manca nel solco della mafia: il giovane urologo sarebbe stato ucciso perché avrebbe riconosciuto Provenzano durante la sua permanenza a Marsiglia.

attilio angela manca

La sentenza di Viterbo non ha chiuso il caso Manca: ora l’attenzione si è spostata sulla Procura di Roma a cui la famiglia si è rivolta perché faccia luce sulla sua morte. “Quello che è successo a Viterbo è incredibile. Hanno usato una violenza inaudita nei nostri confronti“, ci racconta Angela Manca, la mamma di Attilio.

Signora Manca, cosa rimprovera alla procura di Viterbo nel caso di suo figlio?

“Tutto. In 13 anni non ci hanno mai ascoltati: né io, né mio marito né mio figlio Gianluca siamo mai stati interrogati. Eppure, quando si prospettava l’apertura di un processo, eravamo felici perché pensavamo che in Aula avremmo potuto far sentire le nostre motivazioni e spiegare perché non credevamo al suicidio. Invece, il giorno del processo, siamo stati estromessi dal procedimento. I nostri legali ci hanno detto che era la prima volta che accadeva una cosa del genere, ma ci sono altre cose che non tornano. Credo che sia anomalo che l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia telefonato alla Procura per avere notizie di Attilio Manca, una persona che, sulla carta, è morta per droga.

Potevo immaginare i motivi per cui non ci avevano chiamato al processo, ma credevo che avrebbero sentito altre persone vicine ad Attilio, come i suoi colleghi e gli amici: mio figlio era partito per studiare a 18 anni e la sua vita era lì, nel Lazio. Pensavo che avrebbero sentito chi viveva con lui da tempo e lo conosceva meglio, invece hanno ascoltato solo quelli che lo accusavano. Hanno fatto un processo al contrario, contro Attilio. Quello che hanno fatto nei confronti di mio figlio è vergognoso: hanno dovuto dimostrare a tutti i costi che era drogato. Hanno anche cercato di isolare il caso, ma ora la risonanza sta diventando nazionale: ci sono voluti 13 anni, ma ora non possono più fare finta di nulla. È sotto gli occhi di tutti che è stato un omicidio di Stato”.

Cosa ha provato dopo la sentenza di Viterbo e la condanna di Monica Mileti?
“Ho provato un senso di liberazione perché da quella Procura avevo avuto solo umiliazioni, fin dall’inizio, da quando mi hanno negato l’ultima telefonata avuta con Attilio, dicendo che una madre non può ricordare l’ultima volta che ha parlato col figlio. Mi aspettavo questa sentenza, anche perché i legali della Mileti non l’hanno difesa a dovere: nell’attimo in cui l’hanno pronunciata ho pensato che finalmente non avrei più avuto a che fare con quella procura.

Ora però c’è la petizione e l’intervento della Procura di Roma con un fascicolo aperto per omicidio: vi aspettate che qualcosa possa cambiare ora?
“Non mi voglio più illudere, ma mi auguro che almeno questa volta, dopo anni e anni, ci sia almeno un’indagine e un processo in cui potremmo difenderci”.

manca attilio angela archivio

La vicenda di Attilio ha faticato a uscire dall’anonimato in cui spesso si trovano molte vittime della mafia. Una situazione paradossale in un Paese come il nostro che sembra non voler riconoscere le vittime della criminalità: è stato così anche per suo figlio?
“Purtroppo, le persone ormai sono rassegnate oppure hanno paura, come se fossero anestetizzati. Non si reagisce più, non c’è indignazione. Gli unici che vedo indignarsi e reagire sono i giovani che stanno cominciando ad alzare la testa e a capire, ma c’è un’intera generazione, quella dei 40-50enni, che è rassegnata”.

Sono passati 13 anni dalla morte di Attilio: cosa le manca di più di suo figlio?
“Tutto. Io e Attilio eravamo molto legati, anche perché ero giovane quando l’ho avuto a 24 anni, e si era creato un legame speciale. Di lui mi manca davvero tutto, quel suo modo di essere protettivo, la sua intelligenza, la sua sensibilità, il suo sorriso. Tutti quelli che lo hanno conosciuto mi hanno sempre parlato della sua grande intelligenza, ma lui era anche molto umile e metteva la sua bravura a disposizione degli altri. Non meritava questa fine, anche perché era una persona generosa e non pensava che qualcuno avrebbe mai potuto fargli questo”.

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Chi conosce bene il caso Manca è Lorenzo Baldo, giornalista e autore del libro “Suicidate Attilio Manca”, in cui ha ricostruito nel dettaglio tutta la vicenda: ecco cosa ci ha raccontato.

Il caso di Attilio Manca è tornata di attualità dopo la condanna di Monica Mileti: per gli uffici giudiziari di Viterbo il caso è chiuso. La Procura di Roma invece da un anno ha aperto il fascicolo contro ignoti per “omicidio volontario”: come si è arrivati a questa indagine?
“La nuova indagine si è aperta grazie all’esposto dei legali della famiglia, Fabio Repici e Antonio Ingroia, che hanno chiesto di indagare sulle dichiarazioni di alcuni pentiti, a partire da quelle di Giuseppe Campo. Quello che emerge è che la morte di Manca è un omicidio e non un suicidio a base di droga, e che è un omicidio di mafia-massoneria e servizi segreti. Il fascicolo giace ormai da un anno e c’è il timore che il caso venga archiviato. Se adesso, con tutto il materiale che c’è tra le dichiarazioni dei pentiti, le prove materiali e le incongruenze, l’inchiesta venisse archiviata, sarebbe davvero una doppia sconfitta per una famiglia che ha già pagato uno dei prezzi più alti e che addirittura è stata esclusa come parte civile al processo”.

Come è possibile conciliare queste due versioni che arrivano da due Procure?
“Le due versioni sono in antitesi. Da una parte viene sancito che Attilio è morto per droga assunta volontariamente e non si mette neanche in discussione che possa essere stato qualcun altro a iniettargli la droga, tra l’altro nel braccio sbagliato. Dall’altra invece pentiti e tutte le anomalie ci dicono che non si è ucciso e che si è trattato di un delitto di mafia, massoneria e servizi. Sono due visioni che non si incontreranno mai”.

Parlando della sentenza di Viterbo, l’onorevole Claudio Fava della Commissione Antimafia, ha usato l’espressione “frettolosità investigativa” in riferimento agli inquirenti viterbesi: è davvero così?
“La prima definizione che è stata data dai legali della famiglia Manca è stata quella di sciatteria giudiziaria. C’è una serie di dati oggettivi sul fatto che questa investigazione è stata fatta in modo pessimo. Durante l’audizione dei due Procuratori di Viterbo in Commissione Antimafia, il vicepresidente Luigi Gaetti, anatomopatologo con esperienza decennale, ha definito l’autopsia sul corpo di Attilio Manca come ‘infame’: il primo referto autoptico non indicava neppure l’ora della morte. Solo quando la Procura ha ridato l’incarico, su insistenza della famiglia, è stata data un’ora, retrodatata a 48 ore prima del ritrovamento, quando invece il medico del 118 fin da subito aveva detto che risaliva a 12 ore prima. Una volta che la Procura di Viterbo ha trovato il riferimento a Monica Mileti, si è ritenuta soddisfatta, convinta di avere risolto il caso, ma poi per dieci anni non è successo nulla: niente indagini, nulla di quello che si fa di solito, come intercettare i telefoni o capire se c’erano collegamenti con la vittima. Poi, all’improvviso, la Mileti viene rinviata a giudizio con tutti i buchi e le falle investigative di 10 anni di ritardo: solo per fare un esempio, quando gli investigatori hanno chiesto di controllare il conto bancario di Attilio, la banca non aveva più il registro. Tutte queste cose dimostrano un’inerzia investigativa scandalosa.”

Cosa potrà ottenere sul caso Manca la commissione Antimafia?
“La Commissione ha garantito che avrebbe fatto tutto ciò che è in suo potere, aiutando e affiancando la Procura di Roma. Potranno così risentire personaggi che son stati a malapena sfiorati dall’inchiesta di Viterbo o mai ascoltati. È il caso di Ugo Manca, il cugino di Attilio la cui impronta viene trovata nel bagno di Attilio, incredibilmente sopravvissuta nel luogo più umido di tutta la casa dal 14 dicembre 2003, quando cioè Ugo Manca dice di essere andato a Viterbo per farsi operare dal cugino, fino a marzo 2004, quando la scientifica arriva a ribaltare tutta la casa. Se poi pensiamo che è stata trovato dopo che la madre di Attilio aveva pulito tutta la casa, bagno compreso, capiamo che c’è qualcosa che non va”.

Nel libro hai definito l’omicidio Manca come un intreccio di mafia, massoneria e servizi: quali elementi riconducono a questa definizione?
“Sicuramente le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’amico, una sorta di Giovanni Brusca in versione messinese, che nel 2015 ha dichiarato di aver saputo della richiesta di un generale, legato alla P2, fatta a Saro Cattafi – avvocato di Messina condannato per mafia in primo e secondo grado – per metterlo in contatto con Attilio Manca e curare Provenzano. Attilio Manca sarebbe stato ucciso non tanto per aver curato il boss mafioso ma perché avrebbe riconosciuto la rete istituzionale che ha protetto Provenzano per 40 anni. La sua morte sarebbe quindi collegata alla Trattativa Stato-mafia, è un pezzo del mosaico della grande trattativa dentro la quale si incastra benissimo anche la latitanza di Provenzano. Tutto torna e si capisce perché intorno a questo caso ci sono state tante reticenze e tante paure. La stessa Monica Mileti era terrorizzata. Quando le ho chiesto se si rendeva conto di essere un capro espiatorio, lei ha risposto che lo sapeva ma che la paura era molto più forte”.

Cosa non torna del caso Attilio Manca?
“Innanzitutto i dati oggettivi, a partire dal mancinismo di Attilio, mancino puro, e l’inesistenza di una sua presunta tossicodipendenza. Tutti i colleghi di Attilio hanno sempre detto che era una persona lucidissima, capace di fare turni massacranti in sala operatoria, lo vedevano sempre in maniche corte e non hanno mai visto un solo segno sulle braccia. La Procura di Viterbo ha invece preferito credere agli ex amici di Attilio che, all’improvviso, lo hanno descritto come un tossico anomalo, capace di controllare la propria dipendenza.

C’è l’assenza delle impronte digitali sulle due siringhe: non è mai visto un tossicodipendente che si fa due iniezioni, rimette il tappo sulle siringhe e non lascia neanche un’impronta. Non ci sono le prove oggettive della cessione della droga da parte della Mileti. Infine, c’è la falsa nota della Squadra Mobile di Viterbo che attesta il falso, cioè che Attilio sarebbe stato in servizio operativo all’ospedale di Viterbo nei giorni in cui Provenzano era a Marsiglia, a ottobre 2003. I registri dell’ospedale sono chiari: in quei giorni Attilio non lavorava in ospedale.

Nel 2007 arriva anche l’intercettazione ambientale tra la sorella di un mafioso, Vicenza Bisognano, che parla in macchina con alcuni amici di Attilio Manca. Quando le chiedono perché lo avrebbero ucciso, lei risponde perché lo aveva riconosciuto, riferendosi a Provenzano.

C’è poi il vuoto investigativo su determinati personaggi di Barcellona Pozzo di Gotto. Quando ancora non era arrivata alla stampa la notizia della permanenza di Provenzano in Francia, qualcuno già ne parlava con la madre di Attilio. Uno per tutti il padre di Lelio Coppolino, il miglior amico di Attilio, che al cimitero, una settimana dopo la sua morte, insinuava che l’avessero ucciso per aver curato un latitante.

Poi ci sono i tabulati delle telefonate fatte da Attilio a ottobre 2003, il periodo in cui Provenzano viene operato, che scompaiono. In più, l’11 febbraio, il giorno della morte, Attilio scompare per tutti: non disdice due appuntamenti importanti e un’operazione in programma in una clinica privata, non risponde al telefono, è introvabile. L’unica con cui parla al telefono è la mamma, che chiama alle 9.30 del mattino: di questa telefonata però non c’è traccia nei tabulati.

Dalle tue ricerche sei riuscito a ricostruire chi era Attilio Manca come persona prima che come medico: è davvero impossibile che potesse suicidarsi?
“Attilio era una persona straordinaria, innamorata della vita, che tutti mi hanno descritto come una persona buona nell’animo, di una bontà che sfiorava l’ingenuità. Per questo il fratello si danna l’anima: secondo lui Attilio non si rendeva conto che alcune persone non erano come lui credeva. Aveva una grandissima cultura, era amante della letteratura antica, pieno di interessi, con una carriera luminosa davanti, davvero lontano anni luce dalla persona depressa che si sarebbe suicidato con la droga”.

La morte di Attilio Manca sarebbe l’ennesimo caso di vittima della mafia dimenticata in un Paese come il nostro che ha a che fare con la criminalità organizzata da troppo tempo. Perché le loro storie non riescono a sfondare il muro di omertà?
Perché siamo un paese al contrario, almeno finché saremo costretti a vedere le scene tremende dei familiari delle vittime di mafia che si incatenano davanti ai Palazzi di Giustizia e implorano l’attenzione dei media e dei magistrati. Questo Paese al contrario non vuole affrontare il suo passato. In un paese civile non saremmo qui a parlare di questo caso. Invece oggi i suoi familiari rischiano di non avere mai una risposta. Il padre di Attilio, ultraottantenne, ha la certezza di morire senza conoscere la verità: questo non è degno di un paese civile.”

Tratto da: nanopress.it

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